“Handicappato”, “disabile”, “invalido” o “diversamente abile”? 

Chi se ne occupa preferisce “persone con disabilità“: in Italia è da tempo in corso un dibattito, anche per cambiare il modo in cui pensiamo

(Stu Forster/Getty Images)
(Stu Forster/Getty Images)

Con le recenti maggiori sensibilità per il modo in cui vengono definite e considerate le minoranze all’interno della società, negli ultimi anni si è intensificato anche il dibattito su come debbano essere chiamate le persone con disabilità. Chi si occupa del tema sottolinea l’importanza di passare da un approccio in cui la disabilità è considerata una mancanza o un difetto rispetto a quella che è ritenuta la norma, all’idea che sia invece una caratteristica così come molte altre che definiscono una persona. Soprattutto, si ritiene che un cambio delle parole possa far cambiare anche l’approccio del pensiero comune al tema della disabilità, e possa far passare maggiormente il concetto che a renderla più o meno tollerabile o impattante sulla vita della persona non sia tanto o solo la disabilità in sé, quanto il fatto che gran parte delle infrastrutture e dei servizi sia stata per molto tempo e in parte ancora oggi pensata senza considerare le esigenze di tutti.

Alcune parole e definizioni che fino a pochi anni fa erano comunemente usate sono diventate in questo senso inadatte, oltre che offensive: per quello che significano, per la storia che hanno o semplicemente perché sono state usate e vengono tutt’ora usate con intenti offensivi.

– Leggi anche: Ci sono disabilità che non si vedono

In Spagna giovedì si è votato per cambiare la parola con cui nella Costituzione ci si riferisce alle persone con disabilità, dopo anni di richieste da parte di associazioni per i diritti civili: da disminuidos, traducibile come “minorati”, a personas con discapacidad, “persone con disabilità”. Anche in Italia c’è un’iniziativa simile: un decreto legislativo previsto dalla legge delega del 2021, approvata durante il governo di Mario Draghi come parte del PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza con cui l’Italia deve spendere i finanziamenti garantiti dall’Unione Europea.

Il decreto legislativo dovrebbe entrare in vigore entro il 2025. Prevede, tra le altre cose, di modificare definizioni e parole riferite alla disabilità sia nella legge 104 del 1992, quella che regolamenta assistenza, integrazione sociale e diritti delle persone con disabilità, che in una serie di altre norme sul tema. Parole come «handicap», «handicappato», «disabile», «diversamente abile» verranno sostituite con formule come «condizione di disabilità» e «persona con disabilità», adattando il nostro linguaggio normativo a quanto previsto dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, approvata nel 2006 e ratificata dall’Italia nel 2009, quindici anni fa.

Nella legge 104 ci si riferisce alle persone con disabilità usando i termini «persone handicappate». È una definizione considerata ormai superata, oltre che offensiva. La parola “handicappato”, dall’inglese handicap, ha secondo l’Accademia della Crusca origine dal gergo delle corse dei cavalli, in cui sarebbe stata usata per indicare lo svantaggio, l’handicap appunto, dato al cavallo più prestante per rendere la gara più equilibrata. Deriverebbe però da hand in cap, ”la mano nel cappello”, un gioco d’azzardo diffuso nel Seicento.

In italiano la parola “handicap” si sarebbe diffusa nell’Ottocento con la prima accezione, quella dello svantaggio di un cavallo in una gara di corsa. Nel Novecento sarebbe poi entrata anche in ambito medico e sociale sempre col significato di svantaggio, mancanza, incapacità fisica o mentale.

«Handicappato, handicap e parole di questo tipo enfatizzano proprio questo: il fatto di avere qualcosa in meno rispetto a qualcuno o a qualcosa», dice Armanda Salvucci, presidente di Nessunotocchimario, associazione nata per contrastare gli stereotipi e i pregiudizi culturali, sociali e sessuali sulla disabilità. «L’abilismo è esattamente questo: un sistema discriminatorio fatto di pratiche, linguaggi, valori e convinzioni radicate nella nostra cultura secondo cui la disabilità è una devianza rispetto alla norma, e in quanto tale vale meno: la parola “invalido”, un’altra che usiamo abitualmente, significa proprio questo», aggiunge Salvucci.

Secondo Salvucci questo sistema si riflette in tanti automatismi e modi di dire: il fatto che avere un figlio con disabilità sia una “disgrazia”, che una persona con disabilità che si laurea sia in qualche modo “eroica” o “eccezionale” (come spesso indicato anche in titoli di giornale dedicati a casi simili), «un po’ come se si fosse laureata nonostante se stessa: è un modo di svalutare la persona facendo passare per straordinario quello che straordinario non è», dice Salvucci.

Lisa Noja, ex deputata prima del Partito Democratico e poi di Italia Viva, è stata una delle promotrici del decreto legislativo che dovrebbe entrare in vigore entro l’anno prossimo. Secondo lei passare dalla parola «handicappato» alla parola «persona con disabilità» significa fare un’operazione più profonda e radicale rispetto al modo in cui pensiamo oltre che rispetto a come parliamo: «“handicappato” è una condizione statica, in qualche modo immutabile, che deriva da una mancanza che resterà sempre lì; “persona con disabilità” sposta l’attenzione sul bisogno, sul fatto che quella persona, per come è fatta, necessita di un contesto che renda la sua condizione meno impattante sulla sua vita», dice Noja.

L’idea, in altre parole, è che la disabilità non sia «la menomazione, ma il modo in cui quella menomazione interagisce con l’ambiente esterno, che può essere abilitante o disabilitante», dice sempre Noja. In quest’ottica, aggiunge, meno barriere architettoniche ci sono, minore sarà l’impatto di una patologia o di un problema fisico sulla funzionalità di quella persona. Parlare di «persone con disabilità» significa insomma spostare la disabilità da ciò con cui identifichiamo la persona alla gestione del contesto in cui vive.

– Leggi anche: Cosa fa un assistente sessuale per persone con disabilità

Il decreto legislativo introduce modifiche anche per altri termini comunemente usati per definire le persone con disabilità, come «diversamente abile» o «disabile». «Definirmi “diversamente abile” significa anzitutto prendere il concetto di “abile” come punto di riferimento per tutto il resto, che viene definito di conseguenza: sarebbe come dire che tutte le persone basse sono “diversamente alte”, un po’ come se non fossero capaci di essere alte», dice Salvucci.

Per lo stesso motivo Salvucci è molto critica anche di un’altra parola che si usa molto spesso per riferirsi, anche con buone intenzioni, a vari tipi di minoranze: la parola «inclusione».

Secondo Salvucci parlare di inclusione significa continuare a considerare il sistema delle persone che non hanno disabilità come quello dominante, e ritenere che quelle con disabilità vadano incluse al suo interno: e non, come dovrebbe essere, che pensare una società a misura delle persone che ci vivono significa ripensarla daccapo: prevedendo, più che includendo, tutte le persone: «Io non voglio essere inclusa nel tuo sistema, voglio essere prevista dal sistema in cui viviamo tutte», dice Salvucci, secondo cui le barriere architettoniche nascono proprio da questo: dall’aver strutturato una città, un locale, una piazza o dei mezzi pubblici senza pensare che esistono persone che per varie ragioni hanno difficoltà motorie o sensoriali.

Per lo stesso motivo ci sono pareri critici anche nei confronti della formula «bisogni speciali», con cui per esempio il ministero dell’Istruzione e del Merito (l’ex ministero dell’Istruzione) si riferisce agli e alle studenti con disabilità: «bisogna parlare di “bisogni specifici”, non di “bisogni speciali”: in un sistema che ci prevede tutte, ognuna di noi ha dei bisogni, e sono tutti diversi, non ce ne sono di speciali e non speciali», dice Salvucci.

Proprio in quest’ottica, il decreto legislativo che dovrebbe entrare in vigore l’anno prossimo sostituirà anche la formula «disabile grave» con «persona con necessità di sostegno intensivo», anche in questo caso spostando l’attenzione sugli strumenti necessari per rendere la disabilità meno impattante sulla vita della persona che la possiede.

Per quanto riguarda la parola «disabile», una di quelle che il decreto legislativo prevede di sostituire con «persone con disabilità», le cose sono meno nette. L’idea come in molti altri casi simili è che far coincidere una qualche caratteristica della persona con la sua intera identità possa risultare stigmatizzante: per questo è preferibile usare “disabile” come aggettivo, e parlare di “persone disabili”, cioè di “persone che hanno la caratteristica di essere disabili”, piuttosto che di “disabili” e basta, che suggerisce che la disabilità sia l’unica caratteristica che definisce le persone di cui si parla. Salvucci spiega però che «disabile» è generalmente un termine più accettato, soprattutto per le persone che vivono, effettivamente, la propria disabilità anche come una questione di identità.