Un nuovo importante risultato nella clonazione delle scimmie

ReTro è il primo macaco rhesus frutto di una clonazione a raggiungere i due anni, con possibili implicazioni su future sperimentazioni di nuovi farmaci

ReTro (Nature Communications)
ReTro (Nature Communications)

ReTro è una scimmia della specie macaco rhesus (Macaca mulatta) all’apparenza simile a molti altri, ma detiene un primato: è nato da un processo di clonazione in laboratorio ed è il primo individuo clonato di questa specie ad avere raggiunto l’età adulta. ReTro ha infatti più di due anni e secondo il gruppo di ricerca cinese che lo ha clonato è in buona salute, al punto da poterlo considerare un nuovo importante progresso nelle ricerche sui primati e per la sperimentazione di nuovi farmaci. La tecnica con cui è stato clonato è però ancora complicata e richiede molti tentativi prima di ottenere un risultato come questo.

Sono passati quasi trent’anni dalla clonazione della pecora Dolly, una delle primissime esperienze nel settore, e da allora sono state clonate molte specie di animali con grandi successi e molti fallimenti. Soprattutto la clonazione dei primati si è rivelata più difficile e complicata del previsto. Un importante progresso fu raggiunto nel 2018, quando un gruppo di ricerca riuscì a far portare a compimento la gestazione di due macachi di Giava (Macaca fascicularis) dopo avere creato in laboratorio 109 embrioni clonati e averne impiantati la maggior parte nell’utero di 21 scimmie: solo sei di queste avevano poi sviluppato una gravidanza.

Nel 2022 un tentativo di clonare un macaco rhesus portò alla nascita di una scimmia, ma questa morì dopo poco meno di 12 ore dal parto. Per clonarla, il gruppo di ricerca aveva utilizzato la tecnica sviluppata per la pecora Dolly, che aveva però mostrato di non funzionare come atteso nei primati.

In generale, in biologia un clone è un organismo che ha lo stesso identico patrimonio genetico di un altro esemplare. La clonazione è un processo che esiste in natura e che interessa soprattutto le piante, alcuni invertebrati e organismi unicellulari. Clonare in laboratorio significa creare un nuovo essere vivente con le stesse informazioni genetiche dell’organismo di partenza. La tecnica (SCNT, da “somatic cell nuclear transfer”) che fu perfezionata con Dolly prevede di effettuare un trapianto di un nucleo da cellula somatica adulta, cioè da una cellula che fa parte di un tessuto e che è specializzata per fare una cosa sola.

Nel nucleo di ogni cellula è racchiuso il materiale genetico di un organismo, cioè le istruzioni di base che lo fanno funzionare e sviluppare. Il trasferimento di nucleo consiste nel prelevare queste informazioni da una cellula e di inserirle in un ovocita (la cellula uovo in uno stadio non completo), dalla quale è stato rimosso il nucleo originario. La cellula ibrida ottenuta viene indotta in laboratorio – quindi fuori da un organismo vivente – ad avviare la divisione cellulare. Si ottiene in questo modo la blastocisti, una delle prima fasi dell’embrione, e a questo punto è possibile procedere con l’impianto nell’utero della madre surrogata, che porterà avanti la gravidanza fino alla nascita del nuovo individuo.

La procedura è naturalmente più complessa di così e riuscire a produrre un clone comporta numerosi tentativi e fallimenti, soprattutto nei primati. E proprio per questo un gruppo di ricerca dell’Accademia delle scienze cinese ha provato a comprendere che cosa andasse storto nella clonazione di varie specie di scimmie.

Come spiegano nel loro studio da poco pubblicato su Nature Communications, i ricercatori hanno messo a confronto 484 embrioni ottenuti con la SCNT (quindi clonati) e 499 embrioni derivanti da normali procedure di fertilizzazione in vitro (quindi non clonati). Osservandoli in laboratorio, hanno notato che i due tipi di embrioni si erano sviluppati più o meno allo stesso modo prima di essere impiantati nelle madri surrogate. Le cose erano però cambiate dopo l’impianto uterino: meno della metà degli embrioni clonati aveva attecchito e pochi di loro erano arrivati al termine della gravidanza.

Il gruppo di ricerca ha allora condotto alcune analisi genetiche sugli embrioni ottenuti con la SCNT, notando importanti differenze rispetto agli altri embrioni dovute al modo in cui si producevano alcune modifiche importanti nei processi di attivazione o non attivazione dei geni (modifiche epigenetiche). Le differenze erano tali da suggerire che fossero la base dei problemi per il successivo sviluppo degli embrioni, con il conseguente fallimento delle gravidanze.

Proseguendo nelle analisi, il gruppo di ricerca ha notato che il problema riguardava in particolare le cellule all’interno della placenta, che da un lato si forma da tessuti prodotti dall’embrione e dall’altro da quelli originati dalla gestante. I ricercatori hanno allora provato a utilizzare i tessuti della placenta prodotti dagli embrioni della fertilizzazione in vitro (quindi non clonati), sostituendoli a quelli degli embrioni clonati. In questo modo gli embrioni hanno potuto sviluppare una placenta che non derivava dall’attività di clonazione in vitro, pur mantenendo il resto delle strutture clonate dell’embrione.

La tecnica è stata impiegata per produrre 113 embrioni clonati, 11 dei quali sono stati impiantati in madri surrogate, ottenendo infine due gravidanze. Una madre surrogata ha infine portato alla nascita di ReTro, mentre per l’altra la gravidanza si è interrotta al 106esimo giorno.

Il risultato – cioè la nascita e la crescita fino all’età adulta di ReTro – è stato accolto con grande interesse nella comunità scientifica, ma la tecnica è comunque ancora molto complicata e non offre livelli paragonabili al tasso di successo nella clonazione di altre specie, non di primati, utilizzando la SCNT. La quantità di embrioni che deve essere prodotta è molto alta così come è alto il rischio che la gravidanza non vada a termine. Il fatto che ReTro sia sopravvissuto e abbia più di due anni è comunque un risultato positivo e, secondo il gruppo di ricerca, in futuro potrebbero esserci benefici per le attività di sperimentazione che coinvolgono i primati.

Da quando si è riusciti a clonare alcune specie di primati, vari gruppi di ricerca hanno utilizzato le scimmie per produrre modelli più accurati di alcune malattie o per verificare il funzionamento di alcune sostanze, in vista del loro impiego sugli esseri umani come terapie contro alcune malattie. Disporre di esemplari identici consente infatti di effettuare sperimentazioni più mirate, riducendo la quantità di variabili e rendendo confrontabili più facilmente i risultati. In questo modo si potrebbero anche utilizzare meno animali, una questione dibattuta da tempo e con non pochi risvolti etici.

Già ai tempi della clonazione di Dolly si aprì un ampio dibattito etico e scientifico sull’opportunità di condurre esperimenti per clonare gli organismi, e naturalmente ci fu chi ipotizzò un futuro nemmeno troppo lontano in cui sarebbe stato possibile clonare un essere umano, con implicazioni senza precedenti nella storia dell’umanità. Nonostante i nuovi progressi, la clonazione umana continua a essere una prospettiva molto distante (per i più scettici impossibile) per gli altissimi rischi che comporta. La ricerca si è inoltre concentrata su altro, e cioè sullo sfruttamento delle conoscenze nate intorno all’esperimento di Dolly e sviluppate negli anni seguenti per trovare nuove cure e terapie per migliorare la vita di milioni di persone.