Il ritorno dei Club Dogo

Uno dei gruppi che più contribuirono a creare l'attuale mercato dell'hip hop italiano ha fatto un nuovo disco dopo dieci anni

di Giuseppe Luca Scaffidi

I Club Dogo durante la seconda serata degli MTV Days in Piazza Castello, Torino, 29 giugno 2012 (Ansa)
I Club Dogo durante la seconda serata degli MTV Days in Piazza Castello, Torino, 29 giugno 2012 (Ansa)

Nella notte tra giovedì e venerdì è uscito Club Dogo, il nono album in studio dell’omonimo trio rap milanese composto dai rapper Guè (Cosimo Fini, inizialmente conosciuto come Gué Pequeno) e Jake La Furia (Francesco Vigorelli) e dal producer Don Joe (Luigi Florio), considerato tra i più importanti per la storia e la diffusione di questo genere in Italia.

Club Dogo è un disco piuttosto atteso, soprattutto perché Guè, Jake La Furia e Don Joe non lavoravano insieme da dieci anni. Avevano annunciato il ritorno a ottobre, con un video pubblicato sulla loro pagina Instagram a cui avevano partecipato l’attore Claudio Santamaria e il sindaco di Milano Beppe Sala. Sempre a ottobre erano stati messi in vendita i biglietti per il loro nuovo tour, che erano andati esauriti in pochi giorni. Nei piani iniziali i concerti avrebbero dovuto essere tre, ma a causa della richiesta ne sono stati aggiunti altri sette: si terranno tutti al Forum di Assago tra marzo e aprile.

Quando iniziarono nei primi anni Duemila, l’hip hop aveva un mercato abbastanza piccolo in Italia. Anno dopo anno però ottennero sempre maggiori successi e riconoscimenti della critica, per la capacità di raccontare in modo realistico la vita di strada e le vicende delle periferie milanesi, temi che ai tempi venivano trattati poco nelle canzoni. Assieme a colleghi come Fabri Fibra e Marracash, i Club Dogo sono tra quelli che più contribuirono alla popolarità del rap in Italia, costruendo un mercato che ancora oggi è il più ricco per l’industria discografica.

L’ultimo progetto comune dei Club Dogo, Non siamo più quelli di Mi fist, era stato pubblicato nel 2014, e da allora si erano presi una pausa per dedicarsi alle loro attività da solisti, anche se ufficialmente il gruppo non è mai stato sciolto. Negli ultimi dieci anni le carriere dei membri dei Club Dogo sono progredite in modi differenti: Guè ha continuato a pubblicare album con una certa regolarità, mentre Jake La Furia e Don Joe si sono dedicati all’attività discografica con minore intensità.

Nel frattempo il rap in Italia ha smesso di essere un fenomeno di nicchia ed è diventato un’industria culturale molto redditizia: oggi l’hip hop e sottogeneri come la trap occupano stabilmente i primi posti nelle classifiche di vendita e sono diventati mainstream a tutti gli effetti. È avvenuto in parte grazie al successo di musicisti come Sfera Ebbasta, Capo Plaza e Dark Polo Gang, e in generale grazie alla capacità di molti rapper di accrescere il proprio seguito attraverso piattaforme digitali di distribuzione e promozione della musica.

Nonostante questi cambiamenti, i Club Dogo continuano a godere di un consenso  trasversale: chi apprezzava la loro musica nei primi anni Duemila non ha mai smesso di ascoltarli e sono considerati un gruppo di culto anche dalle generazioni più giovani, che hanno recuperato i loro album grazie al passaparola e ai riferimenti contenuti nelle canzoni di molti rapper contemporanei, che citano spesso dischi come Mi fist, Penna Capitale e Dogocrazia come riferimenti fondamentali per la loro carriera.

(Ansa)

La storia dei Club Dogo cominciò nel 1999, quando Gué Pequeno e Dargen D’Amico (pseudonimo di  Jacopo Matteo Luca D’Amico), suo compagno di classe del liceo Giuseppe Parini di Milano, fondarono il gruppo Sacre Scuole, coinvolsero nel progetto Jake La Furia e pubblicarono 3 MC’s al cubo, il loro disco d’esordio. Al progetto presero parte diversi produttori tra cui Don Joe, che già agli inizi degli anni Novanta aveva fondato il gruppo di produzione The Italian Job insieme a Shablo e Dj Shocca, due dei più attivi beatmaker (quelli che producono le basi) dei tempi, facendosi notare per la sua tendenza a utilizzare sample (porzioni di brani) tipici della dance e del funk.

Secondo il giornalista musicale Damir Ivic, 3 Mc’s al cubo «contribuì alla creazione di un immaginario hip hop interamente milanese. Oggi riteniamo il rap un genere essenzialmente “milanocentrico”, ma ai tempi le cose non stavano così: furono tra i primi a fare qualcosa di veramente rilevante».

«Ai tempi il pubblico generalista aveva ascoltato il rap solo “di sguincio”» dice Paola Zukar, autrice del saggio Rap. Una storia italiana e manager di rapper italiani famosi come Fabri Fibra, Clementino e Marracash. Negli anni Novanta Zukar aveva fatto parte della redazione di Aelle, una delle prime riviste italiane di cultura hip hop. «In quel periodo non si sospettava neppure che questa musica potesse diventare mainstream. Alcuni tormentoni degli Articolo 31, dei Sottotono e di Neffa avevano avuto un certo successo, ma la maggior parte delle persone non aveva idea che il rap fosse anche un movimento controculturale, con dei codici linguistici e di stile precisi: loro rivendicavano questa identità in maniera molto forte», racconta.

Anche se è ricordata ancora oggi come un momento fondamentale per la storia del rap a Milano, l’esperienza di Sacre Scuole durò poco: il gruppo si sciolse nel 2002, quando Dargen intraprese la carriera da solista e Guè Pequeno, Jake La Furia e Don Joe fondarono i Club Dogo, nome ispirato a una famosa razza canina argentina. L’anno dopo pubblicarono Mi fist, il loro album di esordio e uno dei più influenti della storia del rap italiano, definito da Ivic «un classico senza tempo». Il titolo è una citazione a Tokyo Fist, film di enorme culto diretto dal regista giapponese Shin’ya Tsukamoto nel 1995, e a Milano, la cui sigla è per l’appunto “Mi”. Ivic ricorda che l’aspetto paradossale di Mi fist è che «pur essendo un disco assolutamente fondamentale per l’hip hop italiano, fu pubblicato in un periodo in cui quel poco che l’hip hop italiano aveva prodotto non interessava più a nessuno».

Gli Articolo 31, forse l’unico gruppo che aveva raggiunto il pubblico generalista con il rap, stavano per sciogliersi, e da qualche anno avevano iniziato a fare una musica molto diversa rispetto alle origini, più vicina al pop punk che all’hip hop. Stava perdendo d’interesse anche la musica dei Sottotono, che verso la fine degli anni Novanta avevano avuto un certo successo. Neffa, che nel 1992 aveva contribuito a fondare i Sangue Misto, probabilmente il gruppo hip hop più influente di quel periodo, dopo avere ottenuto ottimi consensi con il suo disco Neffa & i messaggeri della dopa stava iniziando ad abbandonare il rap per dedicarsi al pop e all’R&B. 

Probabilmente, Mi fist fece parlare di sé perché si trattava di un album profondamente diverso rispetto ai classici dischi rap italiani del decennio precedente. Negli anni Novanta l’hip hop era stato concepito come un genere inglobato da un’area politica ben definita e chiusa verso l’esterno. Si suonava soprattutto nei centri sociali, e chi lo faceva non concepiva la possibilità di farlo diventare una musica commerciale e vendibile.

«Aveva un filo diretto con la musica del gruppo rap statunitense Public Enemy, che enfatizzava moltissimo l’elemento politico e di critica sociale», dice Ivic. «I Public Enemy erano la colonna sonora perfetta per la sinistra antagonista, che allora era in grande crescita e aveva la necessità di individuare un tipo di musica in cui riconoscersi. Non era facile: la musica dance era generalmente considerata di destra, il punk era troppo anarchico e stava per i fatti suoi. Il rap invece era ancora libero da connotazioni ed etichette, e in poco tempo divenne il genere di sinistra per definizione: rifiutava aprioristicamente ogni deriva commerciale».

In Mi fist invece risaltavano elementi differenti: anche se erano presenti alcuni pezzi di denuncia sociale come “Cronache di resistenza”, il disco riproponeva molti degli stilemi tipici del gangsta rap come l’autoesaltazione e il racconto di storie che avevano a che fare con la criminalità, il disagio giovanile e la vita nelle periferie. Un altro elemento centrale era la presenza di continui rimandi alla Milano dei tempi: «Le loro citazioni erano scritte appositamente per un pubblico milanese: ascoltando Mi fist avevi la sensazione di ritrovarti in un film ambientato in quella Milano un po’ gangster che tutti conoscevano, ma che non raccontava quasi nessuno» dice Marta Blumi Tripodi, giornalista che ha curato diversi libri dedicati al rap italiano. Secondo Zukar, con Mi fist i Club Dogo crearono «quell’immaginario milanese cyberpunk e finanziario» che, negli anni, sarebbe diventato la loro cifra distintiva.

Il disco di esordio aumentò la popolarità dei Club Dogo: la loro musica non era ancora arrivata al pubblico generalista, ma cominciava a farsi apprezzare anche al di fuori della nicchia ristretta del rap, e in particolare dalle altre scene underground. «Ai loro concerti vedevi gente di ogni tipo. Beccavi tanti appassionati di punk rock ed elettronica, e addirittura persone che non ascoltavano nessun tipo di musica ma che si erano sentite rappresentate dai loro testi», racconta Tripodi.

Ivic ricorda che «era impressionante che a un certo punto riuscissero a fare concerti all’Estragon di Bologna, dove suonavano soprattutto gruppi rock. Sembrava pazzesco che un gruppo hip hop potesse esibirsi in un posto del genere, un posto da “musicisti normali”. Erano l’unico gruppo underground diventato così grande da potersi permettere di mettere il naso nei circuiti normali della musica».

Quando il pubblico dei Dogo cominciò ad allargarsi, alcuni rapper italiani che avevano animato la scena degli anni Novanta li criticarono per la loro estrazione borghese: il padre di Guè, Marco Fini, era uno stimato giornalista e saggista, mentre Jake La Furia è il figlio di Giampietro Vigorelli, una delle figure di riferimento dell’advertising in Italia. «All’inizio questa cosa creò dei conflitti molto forti: ricordo un litigio molto esplicito sulle pagine di XL, l’inserto musicale di Repubblica, da parte di Militant A, leader degli Onda Rossa Posse e degli Assalti Frontali, che ai tempi era visto come il campione della politica e dell’impegno» dice Ivic.

L’accusa principale era che, per via del loro contesto familiare di provenienza, Guè e Jake La Furia non fossero le persone più adatte per raccontare spaccati di vita quotidiana delle periferie milanesi. Tripodi afferma che si trattava perlopiù di critiche pretestuose: «Erano assidui frequentatori di club e discoteche, e avevano una profonda conoscenza dei contesti che raccontavano. Chi partecipava alle serate organizzate in locali come il Soul to Soul e l’Acqua Potabile conosceva benissimo la loro musica e li considerava quasi degli amici». Concorda anche Ivic: «Negli anni successivi a Mi fist qualcuno continuò a tirare fuori questo argomento, ma alla fine li stimarono quasi tutti: tutti sapevano che stavano creando qualcosa di enorme, e che tutto il movimento alla lunga avrebbe beneficiato di questo circolo virtuoso».

Nel 2005 i Club Dogo formarono la Dogo Gang, un collettivo hip hop che, oltre ai membri originali del gruppo, includeva Vincenzo da Via Anfossi, Deleterio e soprattutto Marracash, che oggi è uno dei rapper italiani più apprezzati in Italia. L’anno dopo pubblicarono Penna capitale, il loro secondo disco, che rafforzò ulteriormente lo stile più disimpegnato con cui sarebbero diventati famosi negli anni successivi. A Penna capitale seguirono Vile denaro (2007), Dogocrazia (2009), Che bello essere noi (2010) e Noi siamo il club (2012), l’album che contiene “P.E.S.”, il singolo che li fece conoscere definitivamente al pubblico generalista.

A partire dal 2014, dopo l’uscita di Non siamo più quelli di Mi fist, hanno iniziato a concentrarsi su progetti personali. Guè ha pubblicato nove album, in tutti i casi di grande successo, e ha ricevuto critiche positive per la sua abilità di rinnovarsi negli anni, adeguandosi all’ascesa della trap nonostante faccia parte della “vecchia scuola”, cioè, semplificando, le precedenti generazioni di rapper italiani.

Jake La Furia ha pubblicato quattro dischi, uno dei quali in collaborazione con il collega e amico Emis Killa, ed è diventato un personaggio anche per alcune iniziative esterne alla musica. Ad esempio, nel 2021 aveva creato un format su YouTube assieme al trio comico Il Terzo Segreto di Satira: si chiamava Disobey, ed era stato apprezzato per la sua capacità di trattare con leggerezza temi come il razzismo, le fake news e lo scetticismo nei confronti dei vaccini. Don Joe ha continuato la sua attività da produttore e ha realizzato quattro dischi: Thori & Rocce, Ora o mai più, Milano soprano e Don dada.