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  • Martedì 9 gennaio 2024

Alle elezioni a Taiwan il candidato più progressista è anche il più temuto

Lai Ching-te è il favorito per diventare il nuovo presidente, ma le sue posizioni troppo autonomiste potrebbero far arrabbiare la Cina

Lai Ching-te (AP Photo/Jorge Saenz)
Lai Ching-te (AP Photo/Jorge Saenz)
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Sabato 13 gennaio si terranno a Taiwan le elezioni presidenziali, che sono probabilmente l’evento internazionale più osservato e atteso dell’inizio del 2024. Il candidato favorito, secondo i sondaggi, è Lai Ching-te, attuale vicepresidente e uno dei principali esponenti del Partito Progressista Democratico (DPP), di centrosinistra, lo stesso della presidente uscente Tsai Ing-wen. Lai Ching-te è da tempo uno degli esponenti più in vista del movimento che propone una maggiore distanza di Taiwan dalla Cina, e fino a qualche anno fa diceva perfino di essere favorevole all’indipendenza dell’isola.

Anche per questo, secondo alcuni analisti, la sua elezione potrebbe modificare l’equilibrio delicato che esiste in questo momento tra la Cina e Taiwan, e perfino provocare una crisi tra i due paesi. Altri ritengono invece che questi timori siano decisamente esagerati, e lo stesso Lai durante la campagna elettorale ha fatto di tutto per tranquillizzare i taiwanesi e la comunità internazionale.

Benché Taiwan sia una piccola isola di 23 milioni di abitanti, la sua importanza a livello internazionale è fuori misura, soprattutto per il suo complicato rapporto con la Cina, che considera Taiwan una propria provincia ribelle che presto o tardi dovrà tornare a far parte del paese: periodicamente il presidente cinese Xi Jinping ricorda che la «riunificazione» tra la Cina e Taiwan è «inevitabile», usando una retorica che con il tempo si è fatta sempre più minacciosa.

A questo si aggiunge il fatto che Taiwan è politicamente molto vicina agli Stati Uniti, e che il presidente Joe Biden ha promesso più volte che gli Stati Uniti difenderanno l’isola in caso di un’invasione cinese. Questi fattori hanno inserito Taiwan al centro di una disputa internazionale ben più ampia, che coinvolge anche le elezioni di sabato.

Il 13 gennaio a Taiwan si vota per eleggere il presidente e rinnovare il parlamento. Le presidenziali sono a turno unico: il candidato che ha più voti ottiene la carica.

Benché Lai Ching-te sia ritenuto il candidato favorito, il voto è ancora piuttosto aperto. I candidati principali sono tre: oltre a Lei del DPP ci sono Hou Yu-ih del Kuomintang (KMT), il principale partito conservatore del paese, che da alcuni decenni è anche quello più favorevole a mantenere buoni rapporti con la Cina, e Ko Wen-je, l’ex sindaco della capitale Taipei che si presenta come un tecnocrate indipendente. I sondaggi danno tutti e tre i candidati abbastanza vicini: Lei al 36 per cento, Hou al 31 per cento e Ko al 24 per cento.

Benché in campagna elettorale si sia parlato di numerose questioni anche interne, come la crisi abitativa e il costo dell’energia, l’elemento che ha monopolizzato l’attenzione dei media, soprattutto quelli internazionali, sono stati i rapporti con la Cina.

La situazione di Taiwan è molto particolare: l’isola è di fatto indipendente dal 1949, e non è mai stata governata dal Partito Comunista Cinese, che domina la Cina. Ma la Cina l’ha sempre considerata come parte del proprio territorio, e nel corso dei decenni si è sviluppato un peculiare equilibrio per cui, per non provocare la Cina, la maggior parte della comunità internazionale non riconosce Taiwan a livello formale, ma la tratta ugualmente come uno stato indipendente.

– Leggi anche: Una breve storia della democrazia taiwanese

Per questo, per esempio, Taiwan non può avere ambasciatori all’estero (non è un paese riconosciuto come indipendente) ma ha comunque dei “rappresentanti” negli altri paesi, che di fatto svolgono le stesse funzioni. Taiwan può anche partecipare alle Olimpiadi, ma solo con lo strano nome di “Taipei cinese”, sempre per non far arrabbiare la Cina.

La Cina è estremamente sensibile nei confronti della questione di Taiwan, e ogni tentativo di cambiare l’equilibrio attuale in favore di una maggiore autonomia dell’isola provoca reazioni eccessive e spesso scomposte. In questo senso, la storia di Lai Ching-te ha un peso notevole.

Lai, che ha 64 anni, fa politica a Taiwan da quasi 40 anni. Fu cresciuto da sua madre dopo che suo padre, un minatore, morì in un incidente in miniera quando lui aveva soltanto due anni. Studiò medicina e trascorse anche un periodo nella prestigiosa università americana di Harvard, ma alla fine degli anni Ottanta, quando Taiwan divenne una democrazia libera, abbandonò il mestiere per dedicarsi alla politica. Si iscrisse al DPP e divenne parlamentare e sindaco della città di Tainan, una delle più grandi del paese. Tra il 2017 e il 2019 divenne primo ministro del paese, sotto la presidente Tsai Ing-wen. Attualmente è vicepresidente.

Lai ha sempre fatto parte dell’ala più progressista del partito, quella che spinge per il massimo livello di autonomia di Taiwan dalla Cina e perfino per dichiarare l’indipendenza dell’isola. Fino a qualche anno fa, era un esplicito sostenitore dell’indipendenza di Taiwan, e si definiva «un lavoratore pragmatico a favore dell’indipendenza». Per questo è considerato dalla Cina come un politico pericoloso e un «separatista», che deve essere tenuto lontano dal potere a tutti i costi.

Negli ultimi anni, tuttavia, Lai ha moderato la sua posizione, e in campagna elettorale ha detto che se sarà eletto non farà passi verso l’indipendenza e seguirà la politica più prudente della presidente Tsai, che pur essendo una forte sostenitrice dell’autonomia di Taiwan ha sempre cercato di evitare lo scontro diretto con la Cina.

Nonostante questo, i suoi avversari hanno più volte accusato Lai di essere una minaccia per la pace, e alcuni analisti ritengono che la sua elezione potrebbe essere sufficiente per creare un qualche tipo di reazione da parte della Cina, e una crisi tra i due paesi.

Per Taiwan, dichiararsi indipendente significherebbe provocare una rottura definitiva con la Cina, con conseguenze probabilmente molto pesanti, che potrebbero comprendere una risposta militare o perfino un’invasione cinese dell’isola.

Per rispondere alle accuse dei suoi avversari, in campagna elettorale Lai sta cercando di presentarsi come una figura rassicurante e capace di mantenere la pace e i rapporti con la Cina: durante un dibattito pubblico con i suoi avversari ha detto, tra le altre cose, che agli occhi della Cina tutti i candidati alla elezioni di Taiwan – anche i più filocinesi – sono «separatisti», perché se la Cina governasse l’isola, ovviamente, non consentirebbe libere elezioni.

Forse il principale punto di forza della campagna di Lai è la sua candidata vicepresidente, Hsiao Bi-khim, una politica di 52 anni che è stata rappresentante di Taiwan negli Stati Uniti (cioè l’ambasciatrice ufficiosa) e che è una delle figure più amate e apprezzate nel paese. Hsiao è nata in Giappone da genitori americani e taiwanesi, e divenne famosa quando si diede da sola il soprannome di “cat warrior”, guerriera gatta.

Hsiao Bi-khim

Hsiao Bi-khim (AP Photo/Chiang Ying-ying)

Il soprannome era una risposta ai diplomatici cinesi, che qualche anno fa cominciarono ad adottare una politica molto aggressiva definendosi “wolf warrior”, cioè guerrieri lupo. All’aggressività del lupo, Hsiao contrappose il gatto, che è un animale a suo dire grazioso ma al tempo stesso deciso e indipendente.

Hsiao parla cinese, inglese e hokkien, che è la lingua degli aborigeni taiwanesi, ha viaggiato tantissimo ed è vista da molti taiwanesi, soprattutto più giovani, come il prototipo di una nuova identità taiwanese sempre più indipendente dalla Cina e al tempo stesso cosmopolita e ibrida.