No, non potevi farlo anche tu

«Se fai il cantante devi vendere tanti dischi, se scrivi tanti libri, mentre se fai l’artista visivo per farcela dovrai convincere pochissime persone, molto ricche, di valere il prezzo della tua opera. La spada di Damocle del lo potevo fare anch’io non è stata forgiata solo dalla diffidenza del pubblico, ma anche dall’atteggiamento insopportabile di noi addetti ai lavori. Il problema è che a farne le spese sono artisti immensi, come Mark Rothko»

Un particolare di "Light Cloud, Dark Cloud" di Mark Rothko, 1957
Olio su tela
169,6 x 158,8 cm
Modern Art Museum of Fort Worth
Museum purchase, The Benjamin J. Tillar Memorial Trust
© 1998 Kate Rothko Prizel & Christopher Rothko - Adagp, Paris, 2023. 
(Nella galleria l'opera intera)
Un particolare di "Light Cloud, Dark Cloud" di Mark Rothko, 1957 Olio su tela 169,6 x 158,8 cm Modern Art Museum of Fort Worth Museum purchase, The Benjamin J. Tillar Memorial Trust © 1998 Kate Rothko Prizel & Christopher Rothko - Adagp, Paris, 2023. (Nella galleria l'opera intera)
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José Mourinho diceva che chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio. Una massima che si può estendere a quasi tutto e che purtroppo chi lavora nel mondo che bazzico io, quello dell’arte contemporanea, sa applicare poco. È questo il motivo per cui del contemporaneo non frega niente a (quasi) nessuno: tra gli addetti ai lavori è troppo spesso una gara a chi è più puro, devoto, immolato. Ovviamente l’arroccamento produce un linguaggio elitario e antipatico, tipico di chi crede di avere una posizione abbastanza alta rispetto al mondo da non doversene più occupare, del mondo.

Forse la ragione è che molti, all’interno, sono stati spinti a credere che l’arte contemporanea non avesse bisogno di un pubblico. In parte è vero: se fai il cantante devi vendere tanti dischi, se scrivi tanti libri, mentre se fai l’artista visivo per farcela dovrai convincere pochissime persone, molto ricche, di valere il prezzo della tua opera. Tutto ciò per dire che, anche se le cose negli ultimi tempi sono un po’ cambiate e il settore sta facendo tanto per aprirsi, la spada di Damocle del lo potevo fare anch’io non è stata forgiata solo dalla diffidenza del pubblico, ma anche dall’atteggiamento insopportabile di noi addetti ai lavori.

Il problema è che a farne le spese sono artisti immensi, che non meritano questo trattamento anzitutto perché no, non potevi farlo anche tu perché altrimenti lo avresti fatto. E poi perché in parte è vero che l’arte contemporanea non è immediata, ma in un mondo in cui tutto invece lo è, che qualcosa vada approfondito per essere affrontato non è male, no? L’arte contemporanea è complessa perché il mondo lo è, la vita e gli esseri umani e il pianeta lo sono.

Quindi come si fa a capire l’arte contemporanea? Non c’è una formula, ma può esserci un approccio che, proprio perché chi sa solo di calcio non sa niente di calcio, mi trovo a rubare non a un critico o a un artista, ma a Marco Pannella. Quando lo accusavano di voler fare solo casino, di essere un istrione mezzo matto e provocatore, di urlare e scandalizzare per il solo gusto di farlo, lui chiedeva di fare un piccolo esercizio: prendiamo la nota più difficile nella lirica, il do di petto. Immaginiamo di estrapolare una piccola frazione di secondo da quella nota. Di sentirla all’improvviso, fortissima, senza averla attesa: sembrerà un urlo quasi disumano o nella migliore delle ipotesi un rumore fastidioso e inspiegabile. Se invece la inserissimo in un contesto, capendo che fa parte di qualcosa di più grande o addirittura provando a costruire noi stessi un racconto di musica e parole intorno a quell’istante, ne usciremmo arricchiti.

L’arte contemporanea va vissuta con questo approccio curioso e indagatore, non ci si deve fermare alle apparenze perché queste, molto spesso, da sole non bastano. Non voglio dire che l’arte deve essere spiegata, questo è impossibile e su questo la dice lunga l’atteggiamento di Mark Rothko, il mio artista preferito, che non tollerava chi provava a interpretare le sue opere.

Alla Fondation Vuitton di Parigi, capolavoro di architettura di Frank Gehry, è in corso in questo periodo una retrospettiva straordinaria dedicata proprio a Rothko, con 115 opere. Io tendo sempre all’iperbole, ma questa volta non ho paura di dire che è una delle mostre più importanti degli ultimi anni, proprio perché mette insieme opere che difficilmente si muovono e per una serie di ragioni che proverò a raccontare, cercando di dare un contesto e nessuna spiegazione.

So già che cadrò nella tentazione di raccontarvi qualche punto di vista personalissimo che Rothko non apprezzerebbe, ma mi perdonerete solo perché è una vita che cerco di farlo conoscere il più possibile. Anche con la menzogna, sì. Non resisto, ogni tanto qualche ruffianata la devo fare e siccome Rothko è proprio uno di quelli presi di mira perché in molti credono che sia una presa in giro o una speculazione il fatto che le sue tele completamente nere siano una pietra miliare della storia dell’arte del Novecento, quando mi capita di fare conferenze su di lui chiudo citando l’essenza del rock, il duo Jagger/Richards: «Come scrissero i Rolling Stones in Paint It Black, canzone che proprio lui ispirò, Rothko ha cercato per tutta la vita di cancellare il sole dal cielo». E quando possibile chiudo a stacco, senza salutare e faccio partire la canzone. La gente si commuove, credetemi.

Il problema è che non è vero, quella canzone non è stata ispirata da Rothko, non l’hanno scritta su di lui. O almeno di questo non c’è traccia. E non c’è traccia nemmeno del legame tra l’uso del nero nell’ultimo periodo della sua vita e la depressione che lo tormentava. E allora mi pento, fortemente mi pento di avere usato un espediente per far avvicinare la gente a Rothko con l’inganno, ma giuro che l’ho fatto solo perché so che quei dipinti enormi muovono le viscere e voglio convincere qualcuno ad andare a vederli dal vivo. Prometto, non lo faccio più. Però fidatevi, chi può vada a Parigi.

Nel percorso che porta al nero potreste trovare un cammino magico, che parte dalla Russia zarista, dove Mark Rothko nasce a Dvinsk (odierna Lettonia) nel 1903. I Rothkowitz sono ebrei e i pogrom in quegli anni sono all’apice. Scappano in America e approdano a Portland. Marcus Rothkowitz (americanizzerà il nome molti anni dopo) è un bambino solo e coltissimo. Scrive poesie, si interessa di filosofia, si sente imprigionato in una vita che non è la sua: «Il cielo è come un lume nella nebbia / Alla fine di una lunga strada buia» scrive poco più che adolescente. A scuola va molto bene e questo gli consente di prendere una borsa di studio per Yale. È un grande oratore e sogna un futuro da leader sindacale, ma la borsa di studio nel frattempo va a farsi benedire e si trasferisce in quella che stava poco a poco sottraendo a Parigi il ruolo di capitale del mondo, New York.

Rothko vive quasi come un vagabondo e l’unica cosa che riesce a interessarlo sono gli studi per il teatro. La costruzione della scena lo ossessiona al punto da iniziare un percorso di studio per i colori e le forme che non si fermerà mai più. Non ha molto successo all’inizio, ma non si scoraggia e lavora incessantemente, soprattutto all’acquerello e soprattutto realizzando paesaggi e studio di nudi.

Fonda con l’amico e grande artista Adolph Gottlieb il gruppo the ten, dieci artisti uniti dalla matrice espressionista e da un vero e proprio disgusto per il tradizionalismo pittorico. Inizia a esporre, non solo negli Stati Uniti ma anche a Parigi, e il tema che più lo attrae in quegli anni è quello dei paesaggi urbani, specialmente la metropolitana, che dipinge come luogo popolato da figure che sembrano più fantasmi che esseri umani.

Nei primi anni si scorge l’influenza di Marc Chagall e quella di Joan Mirò in tele stravaganti e mitiche. L’intimità è sempre più padrona delle sue creazioni, che cominciano a dare un’idea del linguaggio che lo avrebbe poi consacrato. La sua ricerca cammina sulle gambe della semplificazione, la sua esigenza è trovare un lessico teatrale nel quale le forme e la luce arrivino ad assumere il ruolo di interpreti. Probabilmente vuole che davanti ai suoi quadri si abbandoni il mondo e si entri nel dipinto. Anche se ogni riferimento immediato alla figura lentamente scompare, i suoi quadri non sono astratti, anzi sono vivi e respirano. Sono azioni, non descrizioni di azioni. A Rothko non interessa la raffigurazione, ma esprimere le emozioni umane fondamentali, concentrare dolore e violenza in ogni centimetro quadrato di quelle campiture di colore che i suoi quadri, poco a poco, diventano. Dirà di voler elevare la pittura al livello di intensità della musica e della poesia.

Nel frattempo ottiene la cittadinanza americana e il suo modo onirico di dipingere inizia a farsi strada, ma il demone della depressione e quello dell’alcolismo non lo mollano un minuto. Nonostante questo il suo genio arriva alle orecchie della più rutilante personalità del mondo dell’arte, Peggy Guggenheim. Lei lo fa esporre nella sua galleria, Art of this Century, e viene selezionato insieme a Pollock per fare parte di una mostra che conta la partecipazione delle superstar Picasso, Mirò, Braque, Mondrian e altri.

Peggy Guggenheim diventa la sua agente e nel 1945 gli dà l’opportunità di realizzare la sua prima personale: quindici tele, che Rothko stesso descrive come “ritratto di un’idea”. La forza teatrale delle sue opere si impone: le incide con spatole o col manico del pennello, tracciando percorsi introspettivi e surreali. Rothko aborrisce interpretazioni e spiegazioni didascaliche: vuole che sia lo spettatore a decidere di fronte all’opera e che sia l’interlocutore a scegliere se vi sia il sacro o il profano in quei colori e in quelle forme. Critici, storici dell’arte, esperti di ogni genere sono solo un ostacolo, una forzatura.

L’Italia lo influenza profondamente, nelle sue enormi tele possiamo cogliere l’ambizione di essere all’altezza del mito, di condensare in un unico quadro lo spazio “recintato” della Biblioteca Medicea Laurenziana, che lo colpisce profondamente, oppure la Cappella Sistina, che Rothko decide di guardare sdraiandosi sul pavimento per poterla godere nella sua interezza, per farsi intrappolare in una dimensione chiusa di una stanza senza finestre, dove gli affreschi sembrano essere la condensazione di una claustrofobia un tempo liquida.

Le opere di Rothko dunque non significano nulla, ma costringono in una stanza dove puoi solo sbattere la testa contro il muro per l’eternità. E sono in un tempo sospeso, che non è vita e non è morte. «Sono l’attimo prima dell’esplosione», dirà. Quella frazione di secondo che precede il disastro, quel bagliore che emana una bomba atomica prima di deflagrare. È la bellezza struggente e inarrivabile della tragedia.

Nel 1958 Rothko arriva addirittura a rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia, la più importante kermesse di arte contemporanea al mondo. Con il successo cresce esponenzialmente anche la depressione. Le sue tele crescono sempre più, non per seguire l’esempio pomposo dei suoi antichi colleghi, ma proprio per creare una dimensione intima, umana, reale. Dipinti che avvolgono, che fanno entrare nell’esperienza e facciano sentire il visitatore una sorta di coautore e non un voyeur che scruta, lontano, con un binocolo. Quelle superfici di colore tracciate e divise possono quasi apparire come un teatro in pianta: un disegno di luce che da un lato riporta l’architettura alla bidimensionalità, mostrandoci platea, palcoscenico e magari le quinte come su una tavola, e dall’altro riesce come nessun altro a far esplodere la plasticità, il senso scultoreo della pittura di Rothko.

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Come si fa a parlare di arte senza conoscere il cinema? Avete mai visto un film di Antonioni? Se lo approcciate nel modo sbagliato, quando sarete a ridosso dei titoli di coda vi chiederete: «Ok, ma quando comincia il film?». Non c’è trama, non c’è senso, non c’è racconto. Nessun trattato di storia dell’arte, infatti, potrà introdurci a Rothko come gli scambi avvenuti tra lui e Michelangelo Antonioni. Il regista aveva un’ossessione per Rothko e un giorno gli disse: «I suoi quadri sono come i miei film: parlano del nulla con esattezza».

Nella scena finale di Il deserto rosso, forse più che in ogni altro momento, è impossibile non pensare a Rothko quando la protagonista, Giuliana, condivide l’inquadratura con un paesaggio di cielo e mare, con la linea dell’orizzonte che sembra tracciata proprio dall’artista. Quei rossi, i blu e i marroni scuri, i bianchi a volte, il verde, il viola, il giallo nelle tele di Rothko non sono colori, ma muri di luce a dimensione umana, che suggeriscono un’avventura piena di rischi e senza certezze. «Sento la sua pittura come esperienza fantastica, se non altro», scrive ancora Antonioni. «Ma dietro al nostro fantasticare c’è il mondo intero».

Sembrerò retorico, perché vale per tutta l’arte contemporanea, ma per Rothko vale un po’ di più l’invito a non giudicare un quadro nero come baggianata prima di ritrovarcisi davanti. O di rimanere attoniti pensando che il suo record d’asta è di 86 milioni di dollari per l’opera Orange, Red, Yellow del 1961 (se guardiamo alle vendite private, siamo a 100 milioni in più). Insomma non dico che dovete per forza farvi piacere la lirica, ma cercare di contestualizzare un do di petto serve a tutti, fosse solo per capire che non ci interessa ascoltarlo.

Nel percorso alla Fondation Vuitton di Parigi, di stanza in stanza, si attraversa un flusso di coscienza, una progressione potente e spirituale della luce, che non c’entra con la religione perché c’entra con ogni religione, come la cappella che ha concepito a Houston, in Texas. Il culmine è proprio nell’oscurità, in quelle tele nere che realizza nell’ultimo tratto della sua vita, prima di decidere di suicidarsi nel suo studio, il 25 febbraio del 1970. Credo sia sbagliato identificare quelle tele nere come il colore della sua depressione, perché la pittura di Rothko andava oltre questo. Ma ognuno ci veda ciò che vuole, lui cercava proprio questo. Forse non è così sbagliato dire che Paint It Black parla di Rothko, anche se gli autori, allora, non lo sapevano.

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Nicolas Ballario
Nicolas Ballario

È nato nel 1984, si occupa di arte contemporanea applicata ai media. I suoi natali professionali sono nella factory di Oliviero Toscani 'La Sterpaia', della quale diventerà responsabile culturale. Ha collaborato con le più importanti istituzioni artistiche e con numerose testate. Attualmente è autore e conduttore dei programmi di arte contemporanea di Radio Uno Rai e collabora con L’Espresso, Living del Corriere della sera e Il Giornale dell’Arte. Nel 2019 conduce il format sulla fotografia Camera Oscura, su LA7, mentre dal 2020 è alla conduzione del magazine televisivo sulla cultura contemporanea The Square, su Sky Arte.

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