Ogni momento è buono per convertirsi alle penne lisce

Sono più belle, cuociono meglio e, se di qualità, trattengono il condimento quanto le rigate, ma continuano a vendere meno

di Arianna Cavallo

(Il Post)
(Il Post)

Sono passati quasi tre anni da quando, durante il primo lockdown per contenere l’epidemia da coronavirus, circolarono alcune foto degli scaffali dei supermercati svuotati di praticamente tutti i formati di pasta con la sola eccezione delle penne lisce. Un segno del fatto, fecero notare alcuni, che nessuno era disposto a comprarle neanche in un momento di emergenza.

All’epoca molti articoli e un servizio del programma televisivo Report raccontarono che la pasta liscia – realizzata secondo alcuni criteri – era in realtà quella tradizionale, qualitativamente migliore e preferita anche dagli chef di alto livello. Nonostante questo le cose non sembrano cambiate: nel 2022, secondo i dati di NielsenIQ, la grande distribuzione (supermercati, ipermercati e discount) ha venduto in Italia 1,25 milioni di tonnellate di pasta secca, di cui solo il 2,5 per cento liscia e corta; al Sud la percentuale sale al 4,6 per cento e in Campania al 6,5 per cento.

In Campania i formati lisci si mangiano di più che nel resto d’Italia perché c’è un consumo più antico di pasta secca, che originariamente era soltanto liscia (infatti i formati ancora oggi più consumati sono quelli tradizionali, e lisci, come i paccheri o gli ziti, simili a bucatini con un diametro più grande). Al Nord e nel Centro Italia, invece, erano più diffusi il riso e la pasta fresca all’uovo o di grano tenero. Qui la pasta secca arrivò nel secondo dopoguerra ed era rigata perché industriale: il rigo infatti è il risultato tecnicamente imperfetto della produzione di massa.

Originariamente l’impasto della pasta secca – a base di acqua e semola, cioè di grano duro, che è proteico grazie alla presenza del glutine – veniva trafilato al bronzo, cioè passato attraverso le matrici che gli conferivano la forma e che erano sempre lisce. La trafilatura in bronzo rendeva la superficie della pasta ruvida, porosa e in grado di assorbire il condimento. A quel punto la pasta veniva fatta essiccare da uno a tre giorni, a seconda del formato, a una temperatura inferiore ai 40 gradi e spesso all’aria aperta, come accadeva per esempio nella piazza principale di Gragnano, una città in provincia di Napoli tra le più importanti e antiche per la produzione di pasta, dov’è attestata fin dal Cinquecento e sede dell’omonimo e noto consorzio della pasta.

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Questo procedimento viene seguito anche oggi nella lavorazione della pasta di alta qualità, mentre è molto diverso per quella industriale, dove cambiano i tempi e le temperature di essiccazione e dove le trafile non sono in bronzo ma spesso in teflon, cioè in plastica, per rendere il processo più veloce ed economico e per aumentare la produzione. Il teflon però produce una superficie completamente liscia e scivolosa, che non riesce ad assorbire bene il condimento: per rimediare a questo difetto venne inventata la rigatura, che consente di trattenere il sugo negli avvallamenti. Inoltre i tempi di essiccazione, ridotti anche a due ore, e le alte temperature, che superano i cento gradi, modificano la tenuta e il sapore della pasta e ne diminuiscono la quantità di fibre.

Carla Latini, proprietaria del pastificio artigianale Carlo Latini, in provincia di Ancona, il primo in Italia a riutilizzare il grano duro Senatore Cappelli (una varietà selezionata all’inizio del Novecento e particolarmente pregiata) spiega anche che «la rigatura nasconde i piccoli difetti dell’essiccazione industriale, per esempio le macchioline causate dalle bolle d’aria», mentre la pasta liscia è «il risultato perfetto di una lavorazione perfetta» e per questo viene considerata dagli esperti anche più elegante e bella da vedere.

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L’altro motivo per cui la pasta liscia è preferita dai grandi chef è l’uniformità della cottura, data dall’uniformità della superficie. Lo spessore di una penna liscia, per esempio, è sempre lo stesso e richiederà sempre gli stessi minuti di cottura; una penna rigata, invece, avrà bisogno di qualche istante in più nella parte dove lo spessore è maggiore e di qualche istante in meno dov’è più sottile. Questa disparità di cottura fa sì che la parte sottile, quindi più cotta, rilasci più amido di quella spessa che resterà invece più dura, dando l’impressione che la penna sia al dente. È un altro motivo per cui la penna rigata industriale viene comunemente preferita a quella liscia: l’amido amalgama meglio il sugo e lo spessore più duro non la fa sembrare scotta.

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Latini racconta che la difficoltà della pasta industriale nel raccogliere il sugo ha favorito il diffondersi di alcuni condimenti molto grassi per legare meglio – come quello alla boscaiola, a base di panna e funghi – e dello spropositato utilizzo della panna, a un certo punto anche nella carbonara. Questa difficoltà è caratteristica della penna liscia, che non ha alcuna irregolarità ad aiutarla contrariamente a tipi di pasta ricchi di cavità come i fusilli, le farfalle o le conchiglie. La penna, tra le altre cose, è uno dei pochi formati di cui si conosce l’origine: fu inventata nel 1865 in un pastificio vicino a Genova, grazie a un macchinario messo a punto dal pastaio Giovanni Battista Capurro che consentiva di eseguire un taglio inclinato alla pasta lunga facendola assomigliare a un pennino stilografico.

Anna Maria Pellegrino, gastronoma e presidente dell’Associazione italiana food blogger, spiega che la penna liscia viene considerata un «formato anonimo, senza identità», contrariamente ai tanti formati di pasta – più di 300, tra secca e fresca – che vengono associati a un condimento: «non faremmo mai le trenette con il ragù o le tagliatelle con le cime di rapa: l’accoppiamento sugo-formato è una sorta di Google Maps identitario, mentre la penna non ha una collocazione geografica».

Pellegrino aggiunge che le penne lisce vengono utilizzate spesso nelle mense delle scuole o degli ospedali perché vanno bene con tutto e sono più veloci delle rigate da preparare: per esempio si fanno all’Aurora (con il sugo al pomodoro e la ricotta che, essendo grassa, aiuta a legare) oppure lessate e gratinate al forno. Inoltre sono state, insieme alle conchiglie rigate, i primi formati di pasta utilizzati per le paste fredde negli anni Ottanta.

La prima pasta fredda messa in copertina dalla Cucina Italiana nel giugno del 1984

Durante il lockdown Pellegrino fu tra quelli che provarono a cambiare l’immagine negativa della penna liscia e lanciò sui social network la campagna #iostoconlepennelisce dove invitava a condividere foto e ricette con le penne lisce a partire dalla sua, una pasta fredda mantecata con burro alle alghe, con colatura di alici e un po’ di caviale, ispirata alla famosa pasta fredda dello chef Gualtiero Marchesi (che fu il primo introdurla nell’alta cucina con la sua ricetta degli spaghetti freddi al caviale). Secondo lei, però, le cose «non sono assolutamente cambiate».

«Negli ultimi anni la nostra produzione di pasta liscia è aumentata di un dieci per cento», spiega invece Latini, il cui pastificio produce circa 5 quintali al giorno di pasta di alta qualità, di cui circa il 30 per cento è pasta liscia, venduta maggiormente al Sud (il 40 per cento del totale). Latini precisa che il suo è un punto di vista elitario: «la mia è una clientela colta e la pasta liscia l’ho promossa molto, così come fanno molti pastifici artigianali che come noi producono il liscio per tradizione». Tra questi uno dei più citati è il pastificio Famiglia Martelli, fondato in Toscana nel 1926, che si vanta di essere l’unico in Italia a non produrre penne rigate.

Come spiega Latini, è un’opera di convincimento paziente, che richiede l’interazione diretta coi clienti e che non ha ancora raggiunto la maggior parte delle persone, neanche quelle interessate a spendere di più per mangiare meglio. Per esempio racconta che una piccola catena di supermercati che vende prodotti umbri e marchigiani di qualità aveva provato a vendere la loro pasta liscia ma senza successo. «Esportiamo anche all’estero – aggiunge – e lì le cose sono diverse: nel nord Europa è più richiesta la pasta rigata mentre negli Stati Uniti, dove ci sono molti emigrati dal Sud, il liscio è più richiesto».