L’emo è tornato di moda

Un sottogenere del punk che ebbe diversi momenti di popolarità tra gli anni Ottanta e Duemila, o almeno una sua versione annacquata, ora affascina la Gen Z

di Giuseppe Luca Scaffidi

I Tokio Hotel durante gli MTV Europe Music Awards del 2008, a Liverpool (Gareth Cattermole/Getty Images)
I Tokio Hotel durante gli MTV Europe Music Awards del 2008, a Liverpool (Gareth Cattermole/Getty Images)
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Tra i gruppi che parteciperanno alla prossima edizione del Festival di Sanremo ci sono anche i La Sad, una band milanese che ha iniziato a farsi conoscere un paio di anni fa e che, per caratteristiche estetiche e musicali, viene spesso associata all’emo, un genere musicale che deriva dal punk e che ha alle spalle almeno quattro decenni di storia. L’emo raggiunse però una popolarità effettivamente globale soltanto tra la fine degli anni Novanta e la seconda metà degli anni Duemila, quando alcuni gruppi iniziarono a distaccarsi dal suono violento e grezzo del punk per ricercare melodie più semplici e orecchiabili, realizzando album di successo che riuscirono a entrare stabilmente nelle principali classifiche internazionali, diventando a tutti gli effetti pop.

Con il passare degli anni, il termine “emo” iniziò a indicare non soltanto un certo tipo di musica, ma anche un movimento culturale molto eterogeneo e caratterizzato da una visione del mondo nichilista e da alcuni tratti estetici comuni, come l’abbigliamento e l’acconciatura dei capelli. Negli ultimi tempi, soprattutto nei paesi anglosassoni, l’emo è tornato in voga grazie a una nicchia di ascoltatori attiva e rinnovata: la “rinascita” del genere è attribuita infatti alla cosiddetta Gen Z (termine che indica le persone nate tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Dieci del Duemila), che anche grazie ad alcuni trend molto diffusi su TikTok ha iniziato a riscoprire la produzione di gruppi che hanno contribuito a diffondere la musica e lo stile emo in tutto il mondo, come My Chemical Romance, Paramore, Fall Out Boy e Panic! at the Disco.

È accaduto ad esempio nel 2021, quando la canzone “Dear Maria, Count Me In”, pubblicata quattordici anni prima dalla band emo punk statunitense All Time Low, era stata certificata doppio disco di platino proprio per via del successo che aveva avuto su TikTok. Con un’intensità inferiore, l’emo è tornato a essere di moda anche in Italia, dove alcuni nuovi gruppi musicali hanno basato parte della loro proposta su questo genere, riproponendolo in una chiave più moderna e riuscendo a intercettare un pubblico giovane e molto fidelizzato.

Oltre ai La Sad, un discorso simile vale ad esempio per gli Psicologi, un duo etichettato come “emo rap” formatosi nel 2019 e ascoltato mensilmente da più di un milione di persone su Spotify, una cifra più che ragguardevole per il mercato musicale italiano. Un altro musicista che ha acquisito una discreta fama è Naska, pseudonimo di Diego Caterbetti, un cantante che si rifà in maniera piuttosto esplicita a questo stile e che ha definito la sua musica “emo–trap–pop–punk”.

Per descrivere il ritorno di moda dell’emo, sui social è stato coniato un apposito neologismo: “RAWring Twenties”, parola che richiama ironicamente i “Ruggenti anni venti”, termine che negli Stati Uniti indica il periodo che va dal 1920 al 1929 e che fu caratterizzato da prosperità e benessere diffusi. Il revival dell’emo è un tema molto dibattuto dalla critica musicale statunitense, che nelle sue analisi rimane spesso spiazzata dalle tempistiche di questa rivalutazione. Questa musica è infatti riuscita a catalizzare l’interesse di una generazione che, almeno in teoria, dovrebbe considerarla anacronistica e superata, essendo cresciuta nel decennio immediatamente successivo a quello che il giornalista musicale Patric Fallon definisce come la “golden era” del genere, ossia il decennio in cui ebbe il suo picco massimo di diffusione, più o meno tra il 1997 e il 2007.

Una delle possibili spiegazioni ha a che fare con i temi trattati nei testi, che secondo alcuni esperti sarebbero molto affini alla visione del mondo della Gen Z. Ad esempio, secondo lo psicologo musicale statunitense Michael Bonshor le persone nate in quel periodo tenderebbero a privilegiare l’ascolto di canzoni tristi e con atmosfere molto cupe, due caratteristiche che nell’emo tornano spessissimo. Ad agosto anche Spotify, la più grande piattaforma di musica al mondo, aveva confermato questa tendenza in un report che, tra le altre cose, aveva evidenziato come il termine “Sad” (“Triste”) fosse il più cercato in assoluto dagli ascoltatori della Gen Z. «C’è qualcosa di veramente unico in questa generazione. Abbracciano senza problemi i loro sentimenti: stanno superando lo stigma della vulnerabilità», aveva detto in proposito Krista Scozzari, responsabile del marketing di Spotify per il Nord America.

In un’intervista data a Esquire, Bonshor ha esteso ulteriormente il concetto, spiegando che la Gen Z è più incline all’ascolto di musica triste e malinconica rispetto a tutte le generazioni che l’hanno preceduta: questo per via di alcune sue specificità culturali, come ad esempio la grande importanza attribuita all’empatia, la tendenza a preoccuparsi per il futuro del pianeta, una maggiore attitudine alla riflessione e soprattutto a manifestare il proprio stato d’animo in pubblico.

Secondo Judith Fathallah, docente di Comunicazione presso l’università di Lancaster, il  ritorno dell’emo «trae beneficio dalla nostalgia della Gen Z per una giovinezza che non ha mai vissuto», ma che percepisce come emozionalmente molto vicina. Fathallah sostiene anche che l’ascolto della musica emo rappresenta uno dei pochi consumi culturali che accomunano la Gen Z e i Millennial, la generazione precedente, quella dei nati tra l’inizio degli anni Ottanta e la metà dei Novanta. Secondo Fathallah i Millennial hanno vissuto con una certa apprensione il passaggio alla vita adulta, e di conseguenza trovano spesso conforto nell’ascolto di canzoni  che rimandano alla loro adolescenza, in particolare canzoni emo: «uno dei più recenti festival emo si chiama When We Were Young (Quando eravamo giovani), e non è un caso», ha scritto.

Una parte di critica offre invece una lettura diversa, suggerendo che in realtà l’emo non sia mai propriamente passato di moda e che abbia semplicemente continuato a evolversi, adattandosi alle nuove tendenze, ibridandosi con altri generi e acquisendo di volta in volta forme diverse per allinearsi allo spirito del tempo. In tempi recenti, alcuni musicisti hip hop hanno in effetti incorporato l’estetica e i temi tipici trattati nei testi emo nella loro produzione musicale: ad esempio, il rapper statunitense Lil Peep, morto nel 2017, è spesso citato come fondatore e principale esponente del cosiddetto “emo rap”, un sottogenere che unisce diversi stili utilizzati comunemente nella musica hip hop con i temi e le melodie propri della musica emo. Nei primi anni Dieci del Duemila, seguendo l’esempio di Lil Peep, altri rapper come Juice WRLD, Lil Uzi Vert e XXXTentacion iniziarono a classificarsi sotto l’etichetta dell’emo rap e raggiunsero un successo notevole, inserendo nella loro produzione campionamenti di brani emo molto famosi e contribuendo a farli conoscere alle generazioni più giovani. Talvolta viene fatto rientrare nel genere anche Mac Miller, un rapper molto apprezzato dalla critica e morto nel 2018.

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Dal punto di vista più strettamente musicale, le origini dell’emo vengono solitamente attribuite agli Hüsker Dü, una band hardcore punk di enorme culto formatosi a Saint Paul, in Minnesota, nel 1979, e in particolare a Zen Arcade, il loro secondo album in studio pubblicato nel 1984. Due anni prima era uscito Everything Falls Apart, il loro disco di esordio, che era stato considerato dalla critica un po’ classico e stereotipato, caratterizzato da suoni grezzi, da riff di chitarra incisivi e riconoscibili e da testi molto connotati politicamente.

Per rendere il loro suono meno scontato, in Zen Arcade gli Hüsker Dü adottarono alcuni accorgimenti: se mantennero l’approccio hardcore – e quindi di grande intensità, sporco e musicalmente aggressivo – in molti pezzi, ne affiancarono altri in cui la distorsione delle chitarre era meno ingombrante, le melodie più orecchiabili e il cantato del frontman Bob Mould più pulito. In alcuni brani, come “One Step At A Time” e “Broken Home Broken Heart”, vennero inserite alcune sperimentazioni insolite per la scena punk hardcore del tempo, come l’inserimento di chitarre acustiche e intermezzi di pianoforte.

Il vero punto di rottura furono però i testi, più intimisti e riflessivi e legati dal filo narrativo comune dell’alienazione giovanile, particolarità che ai tempi portò la critica a considerare Zen Arcade il primo esempio di concept album (dischi le cui canzoni ruotano tutte attorno a un tema preciso) nella storia dell’hardcore punk. Questa formula sarebbe stata ripresa l’anno dopo dai Naked Raygun, una band di Chicago, con la pubblicazione di Throb Throb, il loro album di esordio, un altro disco molto citato quando si parla delle origini dell’emo.

Tuttavia, la città in cui l’emo si diffuse maggiormente fu Washington, dove dalla metà degli anni Ottanta e fino agli inizi degli anni Novanta gruppi come Embrace, Rites of Spring e Nation of Ulysses specificarono ulteriormente la formula introdotta dagli Hüsker Dü, creando un mercato per questa musica, che fu definita “emo core”, e dando inizio alla cosiddetta “prima ondata emo”. Questo periodo fu legato in particolare alla figura del musicista e produttore discografico statunitense Ian MacKaye, cantante degli Embrace e prima ancora dei Minor Threat, che nel 1980 fondò la Dischord Records, un’etichetta nata per pubblicare i dischi dei gruppi che gravitavano attorno alla scena punk di Washington.

Secondo un aneddoto spesso citato dalla stampa di settore, MacKaye aprì la strada all’acerba scena emo di Washington quasi senza accorgersene, per motivazioni in parte personali e in parte politiche. Capitava spesso che gruppi di skinhead – cioè appartenenti alla nota sottocultura punk caratterizzata dalle teste rasate e dalle diffuse simpatie di estrema destra – facessero capolino ai suoi concerti e che infastidissero il pubblico con atteggiamenti violenti. Per risolvere il problema MacKaye pensò a una soluzione: l’idea più immediata fu quella di iniziare a suonare un punk diverso, più melodico e riflessivo, che verosimilmente non avrebbe incontrato il loro gusto e avrebbe potuto convincerli a stare alla larga dalle sue esibizioni.

Questa particolare concezione di punk, meno grezza nei suoni e più introspettiva nei testi, avrebbe rappresentato la cifra distintiva dell’emo per i successivi vent’anni. Le cose cambiarono negli anni Duemila, quando il genere iniziò ad assumere connotazioni più marcatamente pop. La virata dell’emo verso il mainstream viene generalmente associata a Bleed American, il primo album in studio dei Jimmy Eat World, una punk band dell’Arizona, da cui vennero estratti singoli che raggiunsero una discreta posizione nelle classifiche. Il più famoso fu “The Middle”, che raggiunse la quinta nella Billboard Hot 100 e la quarta nella Billboard Pop 100, due delle più importanti classifiche musicali statunitensi.

Da quel momento in poi l’emo conobbe una notevole diffusione commerciale, e l’etichetta divenne parecchio inflazionata: fu utilizzata per descrivere gruppi abbastanza diversi dal punto di vista musicale, ma accomunati da alcuni codici estetici e da testi fortemente emotivi, dai Get Up Kids ai Fall Out Boy.

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Per le particolare circostanze in cui è nato e per come si è sviluppato nel corso dei decenni, all’interno di quello che oggi viene variamente definito “emo” si sono sviluppate due macro tendenze: una più commerciale e pop, l’altra più sperimentale e vicina al rock alternativo. Questa circostanza crea spesso confusione: grazie al successo globale ottenuto nei primi anni Duemila da gruppi come Tokio Hotel, My Chemical Romance e Panic! At the Disco, il termine “emo” viene spesso utilizzato in modo dispregiativo e associato a un tipo di musica pop-punk frivola e commerciale, e a un’estetica giovanile fatta essenzialmente di vestiti scuri, borchie e ciuffi colorati sugli occhi.

In realtà la storia del genere è ricca di band e dischi che hanno ancora oggi un certo culto di nicchia e che furono molto considerati dalla critica, come Diary dei Sunny Day Real Estate (1994), Do You Know Who You Are? di Texas Is The Reason (1996), Day Three of My New Life dei Knapsack (1997), American Football degli American Football (1999), Dance Tonight! Revolution Tomorrow! di Orchid (2000) e Peripheral Vision dei Turnover (2015).

Anche in Italia l’emo presenta da sempre due correnti distinte: una indipendente e ricercata, l’altra più pop e con ambizioni commerciali. Nel primo caso gli esempi principali sono quello dei Fine Before You Came, gruppo emo-core italiano fondato a Milano nel 1999 che negli anni ha costruito una fanbase solida e abbastanza estesa anche all’estero, e di gruppi come La Quiete, Gazebo Penguins e Cosmetic. Nel secondo vengono ricordati soprattutto i Finley e i Dari, due band che raggiunsero una certa popolarità agli inizi degli anni Duemila con brani come Fumo e cenere e Wale (tanto wale).

Anche in tempi recenti, accanto a gruppi più mainstream come i La Sad e Naska, sono nate band che si riconoscono nel filone emo ma che si distinguono per una proposta musicale più sofisticata, come ad esempio i Gomma, una band casertana fondata nel 2016, e i Quercia, formatisi a Cagliari lo stesso anno.

 

Gli emo vengono solitamente associati a una visione del mondo nichilista e ad alcune dicerie che iniziarono a diffondersi all’inizio degli anni Duemila. Una di queste sosteneva che le persone appartenenti a questa sottocultura avessero sviluppato una certa tendenza alla depressione e all’autolesionismo. Dimostrare scientificamente una connessione del genere è però molto complesso: uno dei pochi studi scientifici a riguardo, condotto dal dipartimento di Psicologia dell’Università di Manchester nel 2018 e basato su un campione di 6mila studenti britannici, sostiene che le persone che si riconoscono in determinate sottoculture, tra cui quelle emo e gothic, siano effettivamente più esposte al rischio di autolesionismo e ad avere pensieri suicidi per via dello stigma sociale a cui sono sottoposte. Inoltre, secondo gli autori dello studio, l’appartenenza a questi gruppi aumenterebbe la possibilità di subire molestie verbali e aggressioni.

Già a partire dalla fine degli anni Novanta, la parola “emo” fu utilizzata per descrivere non soltanto il relativo genere musicale, ma anche una sottocultura con un’iconografia di riferimento molto riconoscibile a partire dall’abbigliamento, caratterizzato da abiti molto scuri, jeans stretti e scarpe da skateboard. Un altro degli elementi estetici che connotano maggiormente lo stile emo è l’acconciatura dei capelli: di solito hanno ciocche di lunghezze diverse, tagliate di lato, e frange che arrivano fino alle sopracciglia, tinte di nero intenso o a volte con colori sgargianti.

All’interno della sottocultura emo vengono distinti diversi sottoinsiemi, che si differenziano in base ad alcune caratteristiche: nel saggio Everybody Hurts: An Essential Guide to Emo Culture, scritto da Trevor Kelley e Leslie Simon nel 2007, ne vengono individuati decine, come gli “Skater Emo”, descritti come «gli emo più vicini alla cultura skate, che quindi passano la maggior parte del tempo a praticare questo sport piuttosto che stando con altri emo» e gli “Alt-Country Emo”, ossia gli emo cresciuti in zone di campagna.

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