Com’è il reality show su “Squid Game”

Per girarlo Netflix ha ricostruito i set della serie originale e ha provato a riprodurre – senza violenza – l'atmosfera drammatica, secondo qualcuno esagerando

(Netflix)
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Mercoledì esce su Netflix Squid Game – La sfida, il reality show ispirato alla serie sudcoreana Squid Game, che uscì nell’autunno del 2021 ed ebbe immediatamente un enorme e inaspettato successo mondiale. La serie originale parla di un distopico gioco di sopravvivenza i cui 456 concorrenti devono superare prove sadiche e cruente, arrivando anche a uccidersi l’un l’altro per riuscire a vincere un premio di 45,6 miliardi di won, circa 34 milioni di euro, e uscire da situazioni disperate di debito o povertà. Per sfruttarne il successo, nel giugno del 2022 Netflix annunciò che avrebbe prodotto un vero reality show ispirato a quel surreale gioco a premi: la principale differenza, ovviamente, sarebbe stata che i giochi nel reality show non sarebbero in alcun modo pericolosi per i concorrenti.

Netflix ha quindi reclutato 456 concorrenti e ha promesso di aggiungere 10mila dollari per ogni concorrente eliminato: l’ultima persona rimasta in gioco può quindi potenzialmente vincere 4,56 milioni di dollari, l’equivalente di 4,2 milioni di euro circa. Da allora si è parlato molto del fatto che sia un montepremi straordinariamente alto per un reality show e che 456 concorrenti siano tantissimi, ma soprattutto ci si è domandati come avrebbe fatto Netflix a realizzare uno show che reggesse il confronto con una serie tanto drammatica, inquietante e spettacolare, peraltro privandola – con ogni evidenza – dell’aspetto di critica al sistema capitalistico e consumistico che caratterizzava l’originale. Ora, i critici che hanno visto la prima stagione in anteprima sono molto divisi: alcuni dicono che è un reality show coinvolgente e di alta qualità, in cui lo spettatore si sente molto coinvolto, altri l’hanno trovato molto problematico, proprio per via del fatto che tradisce l’intento satirico dell’originale.

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Squid Game – La sfida è stato girato in un grosso hangar a Bedford, in Inghilterra, all’interno del quale sono stati scrupolosamente ricreati i set della serie originale: uno dei commenti più frequenti tra chi l’ha visto è che la qualità estetica delle riprese del reality show è molto fedele a quella della serie originale. I giocatori hanno età, etnie, nazionalità ed estrazioni sociali diverse, e molti di loro raccontano il motivo per cui sono lì: nessuno si trova in situazioni disperate come quelle dei protagonisti della serie originale, ma ci sono per esempio giocatori che sperano di poter finalmente andare in pensione e altri che hanno bisogno di soldi per aiutare la propria famiglia.

I concorrenti dormono su letti a castello di metallo minimalisti in un dormitorio gigantesco e vengono sorvegliati e scortati in giro da guardie che indossano le stesse tute rosa e inquietanti maschere di metallo nere della serie. Dopo ogni partita guardano un gigantesco salvadanaio trasparente riempirsi di soldi per ognuno dei giocatori eliminati.

In ogni episodio i concorrenti rimasti vengono sottoposti a sfide che ricordano spesso i giochi che si fanno da bambini: chi perde non viene ucciso, chiaramente, ma deve fingersi morto facendo scoppiare un sacchetto pieno di inchiostro nero che ognuno tiene sotto ai propri vestiti e che simula il rumore di uno sparo quando viene attivato. Nel primo episodio si ripropone la prima sfida mostrata nella serie originale, diventata piuttosto famosa: una sorta di grande partita a “Un, due, tre, stella!” coordinata da una bambola gigante, che nell’originale spara ai concorrenti.

Le sfide presenti nella serie originale sono state riproposte quasi tutte, e ne sono state create di nuove. Secondo la critica è particolarmente interessante l’inserimento di piccole “prove di carattere”, progettate per rendere più complesse le relazioni tra i giocatori: all’interno di questi giochi, sempre più imprevedibili man mano che procede il gioco, ai concorrenti viene chiesto di assegnare vantaggi agli altri partecipanti o di boicottarli, inserendo nello show un elemento di “esperimento sociale” che è spesso presente nei reality show.

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Netflix ha sottolineato più volte di aver reso chiaro ai concorrenti prima dell’inizio delle riprese che sarebbero stati messi di fronte a difficoltà e a situazioni anche piuttosto provanti e drammatiche, per cercare di ricreare almeno in parte la tensione presente nella serie originale, pur senza i suoi risvolti più cruenti e pericolosi. La produzione sembra però aver fatto talvolta fatica a conciliare questa necessità con quella di garantire ai giocatori sicurezza e relativo agio. Lo show è infatti stato criticato da alcuni concorrenti per le condizioni a cui sono stati sottoposti durante le riprese: tre di loro hanno raccontato per esempio che “Un, due, tre, stella!” sarebbe dovuto durare circa due ore e che invece ne è durato quasi sette (arrivate dopo otto ore di preparazione e attesa), con temperature sotto lo zero e con diversi concorrenti che hanno avuto forti malesseri per il freddo e la fatica.

All’epoca la rivista statunitense Variety aveva ricostruito l’accaduto, scrivendo che nelle molte ore prima del gioco ai concorrenti, che per partecipare avevano dovuto fornire certificati medici di buona salute, era stato permesso di indossare cappotti (che la produzione aveva detto loro di portare) e altri indumenti oltre alle tute con cui giocavano, e che c’erano piccole stufe con cui scaldarsi. Una volta iniziato il gioco però «l’atmosfera era cambiata», perché i concorrenti avevano dovuto aprire o togliere i loro cappotti e perché si era arrivati a chiedere loro, per non essere eliminati, di restare immobili per un tempo massimo di 15 minuti (secondo una versione il tempo in cui stare immobili era arrivato fino a 26 minuti).

Secondo una delle fonti di Variety almeno quattro persone erano svenute e, in generale, molte «cadevano a terra come mosche» mentre nel frattempo la produzione insisteva perché il gioco non si fermasse. Secondo la fonte, solo dopo diversi casi in cui il personale medico era dovuto intervenire la produzione aveva leggermente allentato le regole. Anche a prescindere dal gioco, i tre concorrenti hanno parlato di un’organizzazione secondo loro spesso approssimativa, impreparata al gran numero di partecipanti al programma e alle relative difficoltà logistiche, nonché in certi casi espressamente interessata a complicare le cose per i concorrenti, anche nelle ore precedenti o successive alle riprese.

Sulla rivista specializzata SlashFilm la giornalista Danielle Ryan ha scritto che durante il reality show la difficoltà in cui si trovano i concorrenti è molto evidente, tra persone che vomitano dallo stress e cibo dall’aria disgustosa, al punto che è necessario dimenticarsi che il dolore che stanno provando è reale per potersi godere lo show. Sulla rivista Collider, Chase Hutchinson ha parlato di una serie «più spietata e crudele di quanto ci si potesse immaginare», in cui ai concorrenti viene chiesto di spiegare perché hanno bisogno di quei soldi di fronte a una possibile platea di milioni di persone, umiliandosi nello stesso modo in cui lo fanno i personaggi di finzione della serie originale.

Altri critici si sono soffermati invece su quanto siano riuscite alcune scelte di regia della produzione: Entertainment Weekly ha sottolineato per esempio che i giocatori sembrano essere stati scelti oculatamente per rappresentare gran parte degli archetipi classici dei reality show. Sul Guardian Rebecca Nicholson ha scritto che la serie è molto efficace a convincere il pubblico a interessarsi alle sorti dei giocatori, alle loro tattiche di sopravvivenza e alle alleanze che scelgono o meno di stringere, e che trova un modo di far riflettere a modo suo sulle storture del sistema economico globale, anche se in modo molto indiretto. «Le ragioni per cui le persone stanno giocando sono quasi tutte ordinarie e dolci: tutti vogliono ripagare la propria macchina, o mantenere i propri genitori, o mantenere i propri figli», scrive. «Vogliono una vita dignitosa, e il fatto che una vita dignitosa sembri irraggiungibile, e che per raggiungere la sicurezza di base sia necessario giocare a “Un, due, tre, stella!” con una bambola assassina in televisione, è silenziosamente devastante».

Su Vulture, Nicholas Quah ha sostenuto che Squid Game – La Sfida finisce per essere un adattamento molto efficace del messaggio originale della serie, utilizzando il linguaggio dei reality show moderni per dare esempi concreti di come tantissime persone facciano fatica a vivere dignitosamente al di sopra della soglia della povertà. «Il fatto che la televisione stessa sia un simbolo del capitalismo non fa altro che sottolineare il punto», dice Quah. «L’inferno sono le persone che lavorano in un sistema progettato per metterle l’una contro l’altra. Non possono rovesciare il gioco – anzi, lo accolgono con favore – quindi l’unica domanda pertinente è: chi sceglieranno di essere?».