Il concetto di soglia di povertà aiuta fino a un certo punto

Ha avuto un ruolo enorme negli studi sullo sviluppo e sui sussidi, ma da tempo si discute dei suoi limiti

(AP Photo/Natacha Pisarenko)
(AP Photo/Natacha Pisarenko)

Non è semplice rispondere alla domanda: quante persone povere ci sono nel mondo? Questo perché la povertà è un fenomeno complesso, che tiene dentro non solo diversi aspetti della vita delle singole persone – dalla semplice necessità di sopravvivere al diritto a un’esistenza dignitosa a livello umano e sociale – ma anche questioni più collettive, che riguardano il funzionamento degli stati e dei sistemi economici, nella misura in cui agiscono per contrastare o per assecondare le diseguaglianze sociali.

La povertà esiste da sempre, eppure le società e la teoria economica se ne occupano in maniera attiva relativamente da poco: la misurazione della povertà è diventata una preoccupazione concreta solo quando le società sono diventate abbastanza ricche da decidere che si debba fare qualcosa per chi è più povero. Questo tipo di obiettivo politico richiede di stabilire degli strumenti per individuare chi si trova davvero in questa situazione: il più comune è la definizione di una cosiddetta soglia di povertà, intesa come reddito sotto al quale una persona ha bisogno di aiuto, e sopra il quale invece no.

È un concetto semplicistico per definizione, efficace nell’obiettivo di capire a chi rivolgere sussidi, e che ha avuto un grande ruolo storico nel far comprendere il concetto di povertà. Ma proprio la sua semplicità rischia di banalizzare un fenomeno con tante manifestazioni, e da tempo quindi economisti ed esperti discutono di come potrebbe essere migliorato.

Il primo a definire il concetto di soglia di povertà nell’ambito della teoria economica fu lo studioso britannico Seebohm Rowntree nel 1901. Stabilì un livello di reddito necessario per vivere nella città di York, fissandolo a 18 scellini e 10 pence a settimana per una famiglia di due adulti e due bambini (aggiustandolo verso l’alto o verso il basso in base alle dimensioni della famiglia). Questo era il reddito necessario per il cibo, il riscaldamento, l’affitto e i vestiti. Si basava sul presupposto che fosse possibile calcolare, con metodi scientifici, quanto servisse per vivere in modo dignitoso, e non solo per sopravvivere a livello biologico. Definì per la prima volta quella che oggi è nota come soglia di povertà assoluta.

Proprio perché deve garantire una vita dignitosa e non solo la sopravvivenza, questa soglia deve adattarsi alla specifica realtà socioeconomica a cui si riferisce: per esempio la soglia di povertà assoluta calcolata per gli Stati Uniti è più alta di quella della Cambogia. Non solo perché i prezzi sono più alti negli Stati Uniti che in Cambogia, ma soprattutto perché per condurre una vita integrata in società avanzate e complesse (cioè, più ricche) è normale accedere a una maggiore varietà di beni e servizi. In Italia l’Istat calcola la soglia in base all’area geografica di riferimento (Nord, Centro, Sud e Isole) e alla dimensione del comune di riferimento: il costo della vita cambia notevolmente tra grandi città e piccoli centri o tra Nord e Sud. Le soglie di povertà assoluta sono riviste anche nel tempo per tenere conto dei cambiamenti delle società e dei consumi.

L’approccio di Rowntree si diffuse in tutto il mondo e la soglia di povertà assoluta resta ancora oggi uno dei metodi più usati per stabilire quante persone sono povere in un paese e soprattutto per capire come e verso chi indirizzare le varie misure a sostegno di chi ne ha bisogno. Per esempio, in Italia il reddito di cittadinanza è fu fissato proprio sulla soglia di povertà assoluta: l’importo massimo erogabile era 780 euro, pari all’incirca alla soglia di povertà assoluta che l’Istat aveva calcolato per un singolo adulto che viveva in un grande centro dell’Italia centrale.

La soglia di povertà assoluta è efficace perché è un valore semplice, ma è proprio la sua semplicità che la rende spesso un po’ troppo limitata.

Massimo Baldini, docente di economia all’Università di Modena e Reggio Emilia nonché uno dei più grandi esperti italiani su questi temi, spiega che «la povertà è un fenomeno complesso, che comprende tantissime dimensioni». Solitamente la misura della soglia di povertà si basa o sul reddito o sui consumi necessari alla vita dignitosa, riconducendo quindi il fenomeno a una dimensione puramente finanziaria ed escludendo tutti gli altri aspetti che servono per avere non solo una vita dignitosa, ma «piena e appagante». Baldini spiega che è possibile anche un approccio multidimensionale, che tenga conto del tenore di vita, della salute, dell’istruzione e delle relazioni sociali, ma «diventa tutto più complicato perché si devono considerare tante dimensioni e dare un peso anche a una dimensione rispetto all’altra».

Un altro problema della soglia di povertà assoluta è legato all’arbitrarietà con cui vengono stabiliti i beni e i servizi necessari a una vita dignitosa. Dice Baldini che la soglia «riflette il giudizio, la valutazione e le scelte metodologiche degli esperti, che per loro natura sono arbitrarie ma che in alcuni casi possono essere anche sbagliate o rivedibili».

In più spesso le politiche pubbliche si concentrano in modo indiscriminato verso le persone che stanno sotto tale soglia: non solo esistono vari gradi di povertà, ma quelli che stanno poco sopra la soglia vengono in questo modo esclusi nonostante non siano in condizioni così migliori di quelli considerati “ufficialmente” poveri. «La soglia di povertà assoluta ha il grande pregio della semplicità e dell’immediatezza, però il difetto che non valuta la distanza della soglia e non considera neanche chi sta poco sopra» dice Baldini.

Questo limite si può comunque superare con politiche pubbliche mirate che tendano conto delle differenze fra i poveri e che usino indicatori complementari che arricchiscano le informazioni basilari che dà la soglia di povertà. C’è la povertà relativa, che è fissata a una certa quota del reddito medio o mediano della collettività di riferimento, solitamente tra il 50 e il 60 per cento. La differenza sostanziale tra soglia assoluta e soglia relativa è che, una volta fissata, la prima non cambia nel tempo e viene solo rivista ogni anno in base all’inflazione; la seconda invece cambia nel tempo a seconda dell’andamento dei redditi del paese. Ci sono poi anche altri indicatori, come il rischio di povertà o esclusione sociale, oppure la deprivazione materiale, più o meno grave, o la cosiddetta povertà multidimensionale, energetica o alimentare. La varietà di definizioni e concetti legati alla povertà che esiste nella teoria economica può apparire anche eccessiva, ma mostra il carattere complesso di questo fenomeno.

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La soglia di povertà assoluta resta comunque uno dei metodi che mettono più d’accordo gli studiosi e soprattutto quello che consente di fare meglio confronti nel tempo. Baldini spiega che tale soglia «ci ha permesso di vedere l’incremento della povertà durante e dopo le crisi del 2008 e del 2012. Se avessimo usato la soglia di povertà relativa, per esempio, la povertà sarebbe rimasta più o meno costante dato che si è ridotto il reddito a livello generale. Avremmo quindi avuto tra le più grandi crisi economiche degli ultimi decenni senza vedere effetti sulla povertà. Sarebbe stato un po’ strano, no?».

Dagli anni Settanta in poi gli studi economici hanno fatto ulteriori passi avanti e da soglie che misuravano la povertà nei vari paesi si è arrivati a calcolare delle soglie per misurare la povertà a livello globale, non senza grosse difficoltà tecniche e metodologiche legate al diverso costo della vita nei vari paesi e soprattutto al diverso tenore di vita.

In questo ebbe un grande ruolo Martin Ravallion, un economista australiano che, insieme ai suoi colleghi Gaurav Datt, Dominique van de Walle ed Elaine Chan, riuscì a evitare queste difficoltà con un’intuizione: quella di usare come soglia minima globale una media tra le soglie di povertà assoluta dei paesi più poveri al mondo, che avrebbe rappresentato quindi il minimo globale per la sussistenza umana. Dopo un enorme lavoro di raccolta e analisi dei dati, questi studiosi arrivarono a calcolare una soglia che cambiò tutto il dibattito sullo sviluppo globale: la soglia di povertà media ammontava a circa un dollaro al giorno. Nel 1990, quando fu pubblicato questo risultato, circa un miliardo di persone viveva al di sotto.

“Un dollaro al giorno” (in inglese “dollar a day”) divenne rapidamente un concetto diffusissimo non solo tra gli studiosi di sviluppo e nelle organizzazioni internazionali, ma anche tra i cittadini. Tanto che aiutare chi viveva sotto questa soglia divenne uno dei noti “Obiettivi di sviluppo del Millennio”, otto traguardi che tutti i 193 stati membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite si impegnarono a raggiungere entro il 2015 (non è successo).

Il dibattito quindi si spostò dalla dimensione più individuale della povertà a quella collettiva, ed ebbe come risultato anche l’aumento degli aiuti internazionali ai paesi in via di sviluppo. Il passaggio a un’unica soglia di povertà globale ha però mantenuto tutti i punti deboli tipici della soglia di povertà assoluta. È stata dunque presa una soglia di povertà “imperfetta” ed è stata messa al centro delle strategie internazionali per lo sviluppo.

Tra gli esperti di lotta alla povertà c’è ancora molto dibattito su questo indicatore e non c’è consenso su come fare per migliorarlo, tra chi dà più importanza all’immediatezza garantita dalla soglia di povertà e chi invece insiste sul rischio di trascurare o banalizzare certi aspetti in realtà fondamentali nella comprensione del problema della povertà al giorno d’oggi. In questo contesto, e proprio per dare una maggiore profondità al fenomeno, è stato sempre più affiancato alla soglia della povertà assoluta anche il concetto di disuguaglianza, ossia di come il reddito è distribuito in modo non uniforme nelle società e di come si concentri nelle fasce più ricche della popolazione. In questo modo si riesce a capire che, nonostante a livello globale da anni sia in costante riduzione la quota di persone in condizioni di povertà assoluta, c’è un costante aumento del divario tra ricchi e poveri.

Anche su come calcolare la disuguaglianza non esiste un consenso tra gli economisti, ma è comunque considerata un concetto importante e complementare alla soglia di povertà per capire lo stato di benessere di una società. «Paradossalmente potrebbe esistere una condizione in cui non ci sono persone che vivono sotto la soglia di povertà, ma in cui c’è tantissima disuguaglianza», dice Baldini.