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  • Martedì 14 novembre 2023

Come funziona il “fine vita” per i neonati in Italia

La legge dice che i genitori devono decidere nell’interesse esclusivo del bambino, ma se c’è conflitto con i medici intervengono i giudici

ecografia neonato
Una medica impegnata nell'ecografia di un paziente neonato (Christopher Furlong/Getty Images)
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La morte di Indi Gregory, la bambina inglese di otto mesi morta lunedì a causa di una malattia definita incurabile dai medici che la assistevano dalla nascita, ha stimolato riflessioni, proteste e discussioni sulla decisione dei giudici di assecondare l’orientamento dei medici contro la volontà dei genitori della bambina. L’impossibilità di curare la malattia e soprattutto di garantire a Gregory una vita senza dolore è stata alla base della decisione di interrompere i trattamenti per tenerla in vita. Anche l’intervento del governo italiano, che ha dato la cittadinanza a Gregory per cercare di trasferirla in Italia, è stato inutile: secondo i giudici l’Italia non poteva avere giurisdizione sul caso, e hanno confermato i provvedimenti già presi nei giorni precedenti.

Il tentativo del governo italiano e la disponibilità dell’ospedale Bambino Gesù di assistere Gregory hanno aperto diversi interrogativi su cosa avrebbero potuto fare i medici italiani rispetto alle valutazioni fatte dai colleghi dell’ospedale di Nottingham, dove la bambina era assistita. La cittadinanza data dal governo e gli interventi dei legali italiani potevano far sembrare che ci fosse una soluzione alternativa, eppure in Italia le regole sul consenso informato e sul fine vita non sono molto diverse da quelle britanniche. E peraltro il fatto che Gregory fosse diventata cittadina italiana non ha cambiato molto le cose, la scelta del governo era più che altro simbolica e politica.

In Italia non esiste l’eutanasia diretta, che consente a medici di far finire la vita di un paziente che lo richiede. Ma esiste la possibilità di sospendere le terapie di sostentamento vitale: la sospensione dei trattamenti viene garantita dai medici solo dopo aver informato in modo esaustivo i pazienti. La sospensione non significa l’interruzione di qualsiasi tipo di trattamento: si inizia la terapia del dolore con alcuni farmaci e con un supporto psicologico, allo scopo di alleviare le sofferenze tramite le cosiddette cure palliative.

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Tutto questo è previsto in Italia dalla legge 219 del 2017 che dice nell’articolo 1: «Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, con le stesse forme di cui al comma 4, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso».

Nel caso dei minori il consenso informato, cioè l’approvazione dell’interruzione delle cure, è responsabilità dei genitori, ma non in tutti i casi. Sia le persone minorenni che quelle incapaci di intendere o di volere hanno diritto alla comprensione e alla decisione in merito alla loro salute. Quindi i medici devono metterle nelle condizioni di esprimere le loro volontà. Il consenso vero e proprio spetta poi ai genitori o ai tutori, ma deve essere espresso sulla base della volontà dei pazienti. In qualsiasi caso i genitori devono avere come unico obiettivo il benessere dei bambini.

La questione è più complicata nel caso dei neonati o dei bambini che non hanno ancora sviluppato capacità cognitiva. La loro incapacità di giudizio è di tipo naturale: di fatto non sono ancora in grado di esprimere un consenso. Anche in questo caso la legge prevede che i genitori insieme ai medici decidano nell’esclusivo interesse del bambino o della bambina, considerando il loro benessere e cercando di essere i più obiettivi possibili nel prendere una decisione così importante.

In questa fase il contributo dei medici è essenziale: devono informare i genitori con attenzione e chiarezza sullo stato di salute dei bambini, sulle cure possibili e sulle eventuali conseguenze. Al contrario di quanto avviene nel Regno Unito, in Italia si dà molta importanza a questa fase. Fin da quando viene preso in cura il bambino, i medici italiani cercano di sviluppare un forte rapporto di fiducia con i genitori per favorire un percorso comunicativo ed evitare conflitti. La ricerca di questa armonia viene cercata in tutti i modi, in molti casi con ostinazione.

In caso di conflitto, però, anche in Italia intervengono i giudici. L’articolo 3 della legge 219 del 2017 dice che «nel caso in cui il rappresentante legale della persona interdetta o inabilitata oppure l’amministratore di sostegno, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) di cui all’articolo 4, o il rappresentante legale della persona minore rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare su ricorso del rappresentante legale della persona interessata». Anche se non è facile esprimersi su una materia così delicata, i giudici devono considerare quali siano i benefici garantiti da una terapia e quali siano le conseguenze per la qualità della vita dei bambini. Viene considerata anche l’opinione dei genitori, che tuttavia non è vincolante.

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Luigi Manconi, intellettuale ed ex senatore, si è interrogato su molte delle questioni che riguardano il fine vita in un articolo pubblicato martedì su Repubblica. L’articolo pone molte domande, senza per forza trovare delle risposte: «Chi deve decidere della vita di una bambina di otto mesi? In altri termini: lo Stato, attraverso i giudici e le commissioni mediche, deve prevalere sulle “opzioni umane troppo umane” di coloro che hanno messo al mondo quella creatura? La scelta più razionale, appunto fondata giuridicamente e scientificamente, può ignorare la voce del cuore dei genitori?».

In Italia, scrive Manconi, c’è un grande rimosso nella discussione pubblica sul fine vita, cioè quanto il dolore e la sofferenza abbiano rilevanza nella persona umana, nel corpo e nello spirito. Il dolore continua a venire considerato come un effetto collaterale o una conseguenza inevitabile della patologia: «Per quanto riguarda il corpicino di Indi, dei cui patimenti non abbiamo conoscenza diretta, possiamo solo affidarci alla valutazione della scienza medica».

Ma allo stesso tempo, anche nel miglior interesse dei bambini, Manconi dice che si dovrebbe trovare una procedura e una cornice di cooperazione che preveda un ruolo più rilevante dei genitori, proprio per evitare il più possibile conflitti: «La contrapposizione acuta che si è manifestata in tale circostanza tra questi ultimi e i medici è qualcosa che una organizzazione sociale equilibrata non può sopportare senza danni per tutti. Non so dare una risposta precisa, ma ritengo che si debba lavorare nella direzione di una maggiore responsabilizzazione dei familiari. Consapevoli, tutti, che le questioni in gioco sono più grandi di noi: più grandi degli sviluppi straordinari delle biotecnologie, ma anche dello stesso amore di una madre e di un padre».