Asos non se la passa bene

Era uno degli e-commerce di abbigliamento più popolari ma è entrato in una crisi di vendite e identità da cui sembra difficile uscire

Un negozio temporaneo di ASOS nel 2022 (Gonzalo Marroquin/Getty Images for Nordstrom)
Un negozio temporaneo di ASOS nel 2022 (Gonzalo Marroquin/Getty Images for Nordstrom)

Fino al 2021 il sito di e-commerce britannico Asos era uno dei più grossi al mondo. Nato all’inizio degli anni Duemila, intorno al 2015 era diventato uno dei rivenditori di vestiti online multimarca più utilizzati soprattutto tra i giovani. Dopo un riposizionamento e un cambio delle strategie di marketing nel 2019, all’inizio del 2021 era tornato a crescere: l’azienda aveva più che triplicato i propri profitti grazie agli acquisti dell’abbigliamento comodo da casa, molto popolare durante la pandemia, e aveva anche comprato alcuni dei marchi più redditizi della multinazionale britannica Arcadia, come Topshop e Topman, che fino a qualche anno prima nel Regno Unito erano molto popolari.

Da circa un anno però l’azienda è entrata in crisi e ha registrato grosse perdite dovute, secondo i suoi dirigenti, a una lunga lista di motivi: dall’inflazione allo stoccaggio di marchi non redditizi, fino a una primavera troppo fredda. Tuttavia secondo chi si occupa del settore sembra che il problema principale di Asos sia la perdita di una propria “identità”, a causa della quale il marchio sarebbe passato dall’essere un punto di riferimento a un sito che non ha una chiara idea del pubblico a cui si vuole rivolgere.

All’inizio di novembre Asos ha reso pubblici i risultati dell’anno fiscale che si è concluso il 3 settembre, dichiarando di essere in perdita di 300 milioni di sterline ancora prima di pagare le tasse: nell’ultimo anno ha ricavato dalle vendite online 3,5 miliardi di sterline, a confronto dei 3,9 dell’anno precedente, ma questi non sono bastati a coprire i costi. L’azienda ha anche aggiunto di aspettarsi un calo delle vendite fra il 5 e il 15 per cento nel prossimo anno, ma di tornare a crescere nel 2025. Queste dichiarazioni non hanno rassicurato gli investitori e il valore delle azioni di Asos è sceso dell’11 per cento nella giornata di giovedì, per poi tornare ai livelli precedenti, che sono comunque attorno a un decimo rispetto a quelli del 2021.

José Antonio Ramos Calamonte, amministratore delegato di Asos da poco più di un anno, ha spiegato che per risollevare l’azienda sta applicando una «disciplina implacabile per ottimizzare i costi». Calamonte ha spiegato che per abbattere i costi è necessario ridurre le scorte nei magazzini e che questo porterà, alla fine del 2024, alla chiusura del suo secondo centro di distribuzione nel Regno Unito, a Lichfield, dove al momento lavorano più di 200 persone. E infatti a maggio alcuni giornali avevano pubblicato la notizia che Asos si era liberato della merce invenduta nei propri magazzini per un valore di 100 milioni di sterline: come altri brand nel campo della “fast fashion” infatti il suo modello si basa soprattutto sul vendere capi di tendenza che diventano fuori moda molto velocemente. Calamonte non ha voluto invece rispondere alle domande riguardo a una possibile vendita del marchio Topshop, che in questi due anni non è riuscito a recuperare la popolarità di un tempo.

– Leggi anche: La “fast fashion” di mezzo mondo finisce in questa discarica in Cile

Da diversi mesi i dirigenti di Asos provano a spiegare questa crisi attraverso una serie di motivazioni che riguardano per metà Asos stessa e per l’altra metà fattori esterni. Secondo Calamonte ad esempio c’entrano il fatto di aver investito in marchi che non sono piaciuti, ma anche le temperature basse della scorsa primavera nel Regno Unito, due cose che hanno portato a una diminuzione delle vendite e per cui l’azienda si è trovata a doversi disfare di più merce del solito. In più, l’inflazione e l’aumento dei costi di manodopera hanno portato ad un aumento dei prezzi dei prodotti in un momento in cui le persone stavano acquistando meno a causa dell’inflazione, con un conseguente ulteriore calo delle vendite.

Secondo le analisi interne ad Asos, anche la fine della pandemia avrebbe avuto un ruolo in questa crisi: molte persone hanno ricominciato ad acquistare vestiti nei negozi, abbandonando parzialmente lo shopping online, e la ripartenza della vita sociale ha fatto aumentare i casi di chi compra vestiti con l’intenzione di metterli una sola volta e poi restituirli e farsi rimborsare. A differenza di tutti i suoi principali concorrenti (come Boohoo, Uniqlo e Zara), che hanno da poco deciso di far pagare almeno in parte i resi al fine di scoraggiare questa tendenza, Asos ha deciso invece di mantenerli gratuiti per tutti i suoi clienti Premium (che pagano un abbonamento annuale e hanno la spedizione gratuita).

Infine, la recente popolarità di aziende che vendono vestiti estremamente economici come i siti di e-commerce cinesi Shein e Temu ha fatto perdere ad Asos una parte dei clienti. Come ha spiegato al Guardian Pippa Stephens, analista per il settore dell’abbigliamento della società di analisi e consulenza GlobalData, «oltre alle continue pressioni inflazionistiche, Asos ha visto i suoi clienti della generazione Z spostarsi verso concorrenti più agili e convenienti come Shein, mentre i suoi capi sono diventati troppo giovanili per la generazione dei millennial».

La scorsa settimana Calamonte ha detto che la sua azienda sta stringendo accordi con nuovi fornitori per offrire un maggiore numero di articoli a meno di dieci sterline e che investirà in una campagna di marketing per «tornare di moda». Tuttavia, anche secondo la giornalista britannica Sophie Benson, il problema non è tanto che Asos sia troppo caro o troppo poco di moda, ma che non abbia più una vera identità come marchio. Secondo Benson, un’azienda europea che non può competere con i prezzi bassissimi degli e-commerce cinesi dovrebbe riuscire a farsi scegliere dai propri clienti per altri motivi.

Al momento però Asos sembra non avere ben chiaro quale sia la sua clientela di riferimento. Come ricorda Benson nel suo articolo, dieci anni fa Asos era così popolare che aveva una rivista, Asos Magazine, che era fra le pubblicazioni di moda più lette del Regno Unito (ha chiuso nel 2019). Oggi ha invece un’estetica poco riconoscibile che lo rende difficilmente distinguibile da altri siti di e-commerce come Boohoo, Missguided o Pretty Little Thing. In questi anni, altre marche di fast fashion che non si potevano permettere di abbassare i prezzi, come Zara o & Other Stories, hanno cercato di staccare la propria immagine da quella dei loro concorrenti puntando su capi di maggior qualità e design più sofisticato e investendo su un sito e delle campagne pubblicitarie che ricordano quelle delle case di alta moda.

Oltre a essere praticamente impossibile, cercare di competere con aziende come Shein può anche essere controproducente, visto che molti hanno cominciato a boicottarle dopo la pubblicazione di diverse inchieste che sostenevano che prezzi così bassi sarebbero stati possibili solo attraverso pratiche di sfruttamento dei lavoratori e un impatto ambientale insostenibile.

– Leggi anche: Il goffo tentativo di Shein di ripulirsi l’immagine

Anche dal punto di vista dell’impatto ambientale Asos non è riuscita a posizionarsi fra le aziende di fast fashion che negli ultimi anni hanno cercato di mostrarsi sempre più attente al loro impatto (in molti casi facendo semplici operazioni di greenwashing): nel 2021 aveva collaborato con il Centre for Sustainable Fashion, un centro di ricerca del London College of Fashion, per pubblicare una guida sulla moda sostenibile e mettere in commercio una collezione di “design circolare”, ma nelle dichiarazioni più recenti sul futuro dell’azienda il tema della sostenibilità ambientale non è mai stato toccato.