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  • Venerdì 27 ottobre 2023

Lo sciopero di chi lavora nei teatri lirici

Coristi, musicisti, tecnici e amministrativi di 12 fondazioni lirico-sinfoniche stanno bloccando le prime di ogni spettacolo perché il loro contratto è fermo al 2001

di Angelo Mastrandrea

La protesta al Teatro Regio di Torino, 21 ottobre (ANSA/TINO ROMANO)
La protesta al Teatro Regio di Torino, 21 ottobre (ANSA/TINO ROMANO)

La sera di sabato 21 ottobre i sessanta componenti del coro del Teatro Regio di Torino sono usciti all’aperto e hanno intonato “Va’ pensiero” e altre celebri arie cantate di Giuseppe Verdi. Soprani, mezzosoprani, tenori, baritoni e bassi hanno annunciato ai passanti che si erano fermati ad ascoltarli e alle persone in fila per assistere alla prima della Bohème di Giacomo Puccini che il loro contratto non viene rinnovato da più di vent’anni, e che il loro stipendio non è più adeguato al costo della vita nonostante il loro sia un lavoro qualificato che richiede uno studio costante. Lo stipendio minimo va da 1.300 euro netti al mese a poco più di 2.200 euro, a seconda dell’inquadramento e dell’anzianità di servizio. A questi vanno aggiunti alcuni benefit e indennità previste dal contratto integrativo, firmato con la fondazione che gestisce il teatro.

I dipendenti dell’amministrazione hanno stipendi minimi ancora più bassi, tra i mille e i duemila euro al mese. «Siamo la categoria di lavoratori in Europa che non rinnova il contratto da più tempo, nonostante la lirica sia considerata un’eccellenza italiana», dice Simone Solinas, che si occupa delle attività editoriali e dell’archivio storico del teatro.

Con il concerto improvvisato per strada i coristi del Regio di Torino hanno iniziato uno sciopero che i lavoratori dei teatri lirici definiscono «a macchia di leopardo temporale», perché non avviene ovunque nello stesso giorno ma prevede l’astensione dal lavoro quando è in programma la prima di ogni spettacolo. Allo sciopero hanno aderito 3.800 coristi e orchestrali, tecnici e personale amministrativo di 12 delle 14 fondazioni lirico-sinfoniche italiane. Chi lavora all’Accademia di Santa Cecilia a Roma e alla Scala di Milano non partecipa perché ha un contratto autonomo con condizioni migliori e stipendi più alti.

La sera del 21 ottobre la Bohème, una delle opere italiane più note e apprezzate, non è andata in scena al Regio di Torino. La mattina dopo gli orchestrali del Teatro San Carlo di Napoli hanno improvvisato un concerto per strada, suonando la composizione barocca nota come “Canone di Pachelbel”, una parte dell’opera Cavalleria rusticana e “’O sole mio”. Tre giorni dopo il teatro ha dovuto annullare la prima del Maometto II di Gioachino Rossini. Martedì 24 ottobre al Teatro Massimo di Palermo è stato cancellato il Don Giovanni di Mozart diretto da Riccardo Muti, un debutto molto atteso e per il quale erano stati venduti 1.300 biglietti che il teatro ha dovuto rimborsare.

L’ultimo contratto dei dipendenti delle fondazioni lirico-sinfoniche è del 2001 e da allora non è mai stato adeguato. Gli stipendi minimi furono rivisti solo nel 2006 per adeguarli al passaggio dalla lira all’euro. Nel 2014 i sindacati e l’Associazione nazionale delle fondazioni lirico-sinfoniche (ANFOLS) raggiunsero un accordo per rinnovarlo, ma la Corte dei Conti lo bloccò perché mancava la copertura economica: le fondazioni non avevano nelle loro casse i soldi per pagare gli aumenti. Anzi, la gran parte dei teatri erano indebitati. Una legge voluta nel 2013 dal ministro della Cultura Massimo Bray, del Partito Democratico, stabilì l’obbligo di avere i bilanci in attivo e per questo motivo negli anni seguenti dieci fondazioni furono commissariate e sottoposte a severi piani di risanamento, con tagli alle spese e riduzioni di personale.

All’Opera di Roma, che era in pesante deficit, il Consiglio di amministrazione nel 2014 decise di smantellare l’orchestra, il coro e il corpo di ballo, votando una procedura di licenziamento collettiva per 182 persone. All’epoca il sovrintendente era Carlo Fuortes, amministratore delegato della Rai fino a pochi mesi fa. «Pensiamo che questa strada possa sventare le decisione di una chiusura», disse. Il risparmio venne stimato in 3,4 milioni di euro all’anno.

«Ci chiesero di formare una cooperativa esterna che avrebbe lavorato nel teatro», dice Fabio Morbidelli, un musicista che suona il fagotto e il controfagotto nell’orchestra del teatro romano. Per Fuortes si trattava di «un disegno innovativo in Italia ma molto utilizzato in Europa». Ci furono molte proteste e alla fine i licenziamenti furono quasi tutti revocati. Vennero rivisti solo i benefit previsti dal contratto integrativo, Morbidelli calcola di aver perso da allora «seimila euro lordi di guadagno all’anno».

Per alleggerire i bilanci, quasi tutte le fondazioni hanno fatto a meno dei corpi di ballo. «Quando c’è stato da tappare un buco di bilancio nei nostri teatri lirici, la soluzione più gettonata è stata quella di mandare a casa i ballerini. Da cosa nasce questa decisione che sembra quasi unanime di uccidere il balletto in Italia?», si chiese il ballerino Roberto Bolle il 15 dicembre del 2021, in un’audizione davanti alla commissione Cultura della Camera che, su proposta di Michele Nitti del Partito Democratico, aveva avviato un’indagine sullo stato delle fondazioni lirico-sinfoniche. «Non certo dall’insostenibilità dei corpi di ballo, ma dalla scarsa conoscenza del settore e dalla mancanza di visione di chi ne è responsabile».

Gli unici teatri rimasti con un corpo di ballo stabile sono il Massimo di Palermo, l’Opera di Roma, il San Carlo di Napoli e la Scala di Milano. Anche in questi, però, ha spiegato Bolle ai deputati, «la gran parte dei danzatori lavora con contratti precari: l’85 per cento a Palermo, il 67 per cento a Roma, il 63 per cento a Napoli».

«Si è pensato che l’abbattimento del costo del personale fosse l’unica via d’uscita per salvare i conti economici delle fondazioni e la chiusura dei corpi di ballo ne è l’emblema», si legge in un’indagine presentata alla Camera da un gruppo di ballerini che si sono definiti “Danza Error System”.

Nel 2020 fu commissariato anche il Regio di Torino, che aveva chiuso il bilancio con un passivo di 2,3 milioni di euro. Nessuno dei soci della fondazione, né pubblici né privati, volle ripianare il debito. Il Consiglio d’indirizzo del teatro, su proposta della presidente che era la sindaca di Torino Chiara Appendino (Movimento 5 Stelle), sostituì il sovrintendente William Graziosi, che era indagato con l’accusa di concussione, turbativa d’asta e abuso d’ufficio. Al suo posto fu nominata Rosanna Purchia, ex sovrintendente del San Carlo di Napoli che rimase in carica tredici mesi, durante i quali tagliò molte spese e non rinnovò i contratti ai precari che da anni lavoravano con diverse mansioni nel teatro.

Ora le casse sono di nuovo in attivo: il 2022 si è chiuso con un guadagno di tre milioni e mezzo di euro, «a conferma del corretto cammino intrapreso verso l’equilibrio economico-finanziario e patrimoniale iniziato nel 2020», si legge nella relazione al bilancio. Anche l’Opera di Roma, dopo le difficoltà dell’inizio degli anni Dieci, nel 2022 ha chiuso il bilancio in attivo per il nono anno consecutivo.

Nonostante le drastiche misure per far quadrare i conti, i teatri lirici non hanno i soldi per pagare un eventuale aumento del costo del personale. Il ministero della Cultura ha assegnato alle fondazioni lirico-sinfoniche il 45 per cento dei 421 milioni di euro assegnati allo spettacolo nel 2023 e la legge di bilancio del 2022 ha istituito un fondo per il risanamento delle fondazioni lirico-sinfoniche che si aggiunge al Fondo unico per lo spettacolo (FUS), stanziando 100 milioni di euro per il 2022 e 50 milioni per il 2023. Tuttavia i finanziamenti statali vengono assorbiti da altri utilizzi e spesso non sarebbero neanche sufficienti per aumentare gli stipendi.

«Le risorse proprie delle fondazioni […] risultano insufficienti alla copertura dei costi gestionali, che finiscono per dipendere in larga misura dai contributi pubblici», ha scritto la Corte dei Conti in una relazione del 2020 sulla gestione delle fondazioni lirico-sinfoniche.

Il modello misto pubblico-privato delle fondazioni venne introdotto nel 1996 da una legge voluta dal ministro della Cultura Walter Veltroni, all’epoca esponente dei Democratici di Sinistra. Aveva l’obiettivo di attirare come soci o come sponsor partner privati, ma ha funzionato solo in pochi teatri: alla Scala di Milano il 38 per cento dei contributi arriva da privati, all’Arena di Verona il 23 per cento e al Regio di Torino il 17 per cento. Secono la Corte dei Conti l’85 per cento dei finanziamenti alla lirica rimane pubblico, la maggior parte concessa attraverso il FUS, mentre «le risorse provenienti dai privati rappresentano solo il 15 per cento circa».

Con la sola vendita di abbonamenti e biglietti i teatri lirici non riescono a sostenersi. All’Opera di Roma, su un bilancio di quasi 56 milioni di euro nel 2022, poco più di tre milioni sono arrivati da privati, oltre 10 milioni sono arrivati dalla vendita di abbonamenti e biglietti e 40 milioni sono fondi pubblici: 15 versati dal Comune, un milione e 700 mila euro dalla Regione e il resto dallo Stato. I 10 milioni da biglietti e abbonamenti si devono soprattutto alla stagione estiva alle Terme di Caracalla, dove vengono organizzati eventi che attirano migliaia di spettatori. «Spesso sono produzioni non nostre, come quest’anno i concerti di De Gregori e Venditti, dei Negramaro e di Zucchero», dice Fulvio Martis, un tecnico del suono.

Peraltro quando a gennaio del 2023 diversi sindacati si sono lamentati di nuovo con l’Associazione nazionale delle fondazioni lirico-sinfoniche (ANFOLS) per la questione del rinnovo del contratto, si sono trovati di fronte a un problema che sta a monte: lo statuto dei teatri lirici.

In estrema sintesi, stando a metà tra il pubblico e il privato, si sono chiesti se fosse necessario negoziare il nuovo contratto con il governo. La legge del 1996 trasformò i teatri lirici in fondazioni di diritto privato, ma nel 2011 la Corte Costituzionale in una sentenza considerò le loro funzioni «di sicuro rilievo pubblicistico». Il governo Meloni ha concluso che i dipendenti delle fondazioni, nonostante la parziale privatizzazione, siano da considerare come lavoratori del pubblico impiego, e ha mandato un proprio rappresentante alle trattative tra sindacati e ANFOLS.

«Il rappresentante del governo ci ha proposto un aumento del 3,78 per cento lordo per gli ultimi tre anni, più o meno 40 euro netti al mese in media a lavoratore, com’è accaduto per i rinnovi contrattuali degli altri dipendenti pubblici. Il nostro però non è un rinnovo come gli altri, perché dal 2001 i nostri salari hanno perso circa il 40 per cento del loro potere d’acquisto», dice il musicista Morbidelli, che ha partecipato agli incontri istituzionali come sindacalista della CGIL. «Con questi stipendi i migliori musicisti italiani se ne vanno a suonare all’estero, senza neppure partecipare ai concorsi nei nostri teatri».

Il 20 luglio il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, rispondendo alla Camera a un’interrogazione parlamentare, ha detto che «entro la fine del 2023 il lavoro sarà concluso e daremo risorse adeguate affinché si possa sottoscrivere un nuovo contratto» per i lavoratori delle fondazioni lirico-sinfoniche. I dipendenti delle fondazioni, dopo una serie di assemblee in tutti i teatri, hanno però rifiutato la proposta del governo e respinto una bozza di accordo preparata dai sindacati e dall’ANFOLS.