Le forme del complotto

«Molti credono alle teorie del complotto perché vogliono pensare che se non ci fossero i “cattivi”, allora andrebbe tutto bene. Chi non ci crede, invece, deve ammettere che le cose brutte avvengono per caso o perché la realtà è complicata. Tutto questo, però, non ci dice come mai la nostra mente sembra predisposta a interpretare il mondo con gli occhiali del complottismo, anziché con quelli del buon senso. Per capirlo, dobbiamo fare appello alla psicologia, all’antropologia e alla biologia. E perfino all'evoluzionismo»

Una manifestante al World Wide Rally For Freedom, un raduno mondiale contro le misure decise per contenere l'epidemia di covid-19 e il vaccino. Londra, 20 marzo 2021 (Hollie Adams/Getty Images)
Una manifestante al World Wide Rally For Freedom, un raduno mondiale contro le misure decise per contenere l'epidemia di covid-19 e il vaccino. Londra, 20 marzo 2021 (Hollie Adams/Getty Images)
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Di fronte a tragedie come quella a cui stiamo assistendo oggi nel conflitto tra Israele e Hamas è solo questione di tempo prima che inizino a dilagare le teorie del complotto. Teorie con cui si cercherà di ingrandire le colpe dell’uno a scapito di quelle dell’altro o, anche più probabilmente, a ipotizzare interventi di terze o quarte potenze che agiscono nell’ombra, quando non addirittura di misteriosi burattinai che manipolerebbero dall’alto qualunque evento storico. Ma perché succede? Che cosa ci porta a vedere complotti ovunque?

Sgomberiamo subito il campo da possibili fraintendimenti, nessuno nega che complotti e cospirazioni esistano da sempre: il complotto e l’uccisione di Giulio Cesare, a opera di Bruto e Cassio, ne rappresentano forse il primo esempio famoso, se non prototipico, come sembra indicare la quantità di opere d’arte e letterarie dedicate all’episodio. Opere che di volta in volta condannano i congiurati come traditori e sacrileghi come fa Dante, per esempio, oppure, come fa Shakespeare li esaltano in quanto eroi liberatori, nemici della tirannia. La storia è lastricata di autentici complotti di ogni genere, dove è difficile se non impossibile trovare qualcosa di positivo o di eroico: l’ascesa al potere di Hitler, il Watergate, lo scandalo Iran-Contras, Ustica…

Ma i complotti veri sono cosa ben diversa da quelli solo immaginati, come le bufale su scie chimiche, QAnon, i finti allunaggi, il 5G o la Terra Piatta, e non è sempre semplice distinguerli. Un elemento tipico di una cospirazione fasulla è la logica “a cascata”, per esempio, secondo la quale i teorici della cospirazione, incapaci di trovare prove per ciò che affermano, non possono fare altro che allargare sempre di più il numero dei cospiratori, sostenendo che se qualcuno critica la teoria della cospirazione o non ci crede è perché anch’egli fa parte del complotto.

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Un altro riguarda la potenza esagerata attribuita ai cospiratori, necessaria per spiegare come potrebbero intimidire così tante persone e nascondere così bene le proprie tracce. Nella realtà, invece, più estesa e potente è la presunta cospirazione e più è facile che venga scoperta. Nel presunto complotto per falsificare lo sbarco sulla Luna, per esempio, bisogna presumere che siano coinvolte centinaia di migliaia di persone che hanno lavorato per la Nasa, ma a queste vanno aggiunti anche gli astronomi sovietici e quelli di tutto il mondo che hanno seguito l’evento sui loro strumenti: un’ipotesi assolutamente implausibile. Al contrario, l’idea che pochi individui vicini al presidente Nixon abbiano cospirato per entrare negli uffici dei Democratici al Watergate era plausibile e appariva degna di indagine, al punto da rivelarsi poi vera.

Pier Paolo Pasolini diceva che il complotto ci fa delirare perché ci libera dal peso di doverci confrontare da soli con la verità. E Umberto Eco era d’accordo. «La psicologia del complotto» diceva «nasce dal fatto che le spiegazioni più evidenti di molti fatti preoccupanti non ci soddisfano, e spesso non ci soddisfano perché ci fa male accettarle. Si pensi alla teoria del Grande Vecchio dopo il rapimento di Aldo Moro: com’è possibile, ci si chiedeva, che dei trentenni abbiano potuto concepire un’azione così perfetta? Ci deve essere dietro un Cervello più avveduto. Senza pensare che in quel momento altri trentenni dirigevano aziende, guidavano jumbo jet o inventavano nuovi dispositivi elettronici, e dunque il problema non era come mai dei trentenni fossero stati capaci di rapire Moro in via Fani, ma che quei trentenni erano figli di chi favoleggiava il Grande Vecchio.

– Ascolta anche anche: Il Grande Vecchio. La vera storia di un falso complotto

Il fatto è che, paradossalmente, le teorie del complotto offrono un conforto perché dividono il mondo in bianco e nero, banalizzano all’estremo realtà complesse, forniscono comodi capri espiatori e fanno sembrare il mondo più semplice e controllabile. Molti finiscono così per credere che se non ci fossero i “cattivi”, allora andrebbe tutto bene. Invece chi non crede nelle teorie del complotto deve ammettere semplicemente che le cose brutte avvengono, a volte per caso e a volte perché non è facile come sembra districare realtà complicate.

Tutto questo, però, non ci dice come mai la nostra mente sembra predisposta a interpretare il mondo con gli occhiali del complottismo, anziché con quelli del buon senso. Per capirlo, dobbiamo fare appello alla psicologia, all’antropologia e persino alla biologia.

Guardate questa immagine, che cosa ci vedete?

È difficile dare una risposta immediata, visto che è un’immagine di bassa qualità, con varie macchie nere su fondo bianco. Ma la nostra mente immediatamente parte alla ricerca di un significato: forse si tratta di un bosco? Oppure di un campo di battaglia? Un cielo stellato? O magari è una creatura extraterrestre?
Ruotare l’immagine forse può aiutarci:

ma ancora non sembra possibile riconoscere in queste macchie qualcosa che abbia un senso. Almeno finché non ci viene svelato che la foto ritrae… una mucca! Se osservate attentamente sulla sinistra, vedrete il muso di una mucca bianca, con le orecchie nere, le narici scure e gli occhi. E ora che l’avete vista… è impossibile non vederla.
Quella che abbiamo appena sperimentato è una sensazione che il nostro cervello insegue in ogni istante, vale a dire la necessità di dare un significato al mondo che ci circonda, sforzandosi di individuare schemi dappertutto. È una funzione fondamentale del cervello che l’evoluzione ha plasmato per aiutarci a relazionarci con il mondo e permetterci così di sopravvivere. Il motivo risiede nel fatto che questa abilità ci consente di rilevare situazioni di pericolo anche in presenza di pochi indizi. Per esempio aiutandoci a scorgere un predatore mimetizzato. Il problema è che, ogni tanto, ci trae in errore.

Per gestire con efficacia il numero impressionante di informazioni che la mente riceve simultaneamente, infatti, il cervello deve semplificare la realtà. E la ricerca costante di schemi ricorrenti, di puntini da collegare, di connessioni da trovare ci induce a trovarne anche quando questi schemi e queste connessioni non ci sono veramente, creando così delle illusioni (e qui avrebbe molto da dire la psicologia della Gestalt, la corrente della psicologia nata in Germania agli inizi del ‘900 che rifletteva su come la nostra percezione costruisca le forme che percepisce in base all’esperienza).

Un esempio di questa tendenza a trovare significati anche dove non ci sono prende il nome di pareidolia. Osservate questa foto della superficie di Marte, dove sembra di vedere una gigantesca “Sfinge” scolpita nella pietra, e rivelatasi poi solo un gioco di luci e ombre favorito dalla nostra tendenza a vedere volti ovunque:

La regione di Cydonia su Marte in una fotografia del satellite Viking 1 e diffusa dalla NASA/JPL il 25 luglio 1976

O quest’altra che mostra un dolce alla cannella divenuto celebre perché sembrava mostrare il volto di Madre Teresa di Calcutta:

La nostra abilità di vedere un significato nel caos ha qualcosa di straordinario, di magico quasi. Dalla capacità di scovare adeguate analogie all’invenzione di nuove tecnologie che cambiano la vita, il pensiero creativo dipende proprio dalla necessità di individuare le giuste connessioni. La scienza stessa dipende da questa capacità.

Un cervello che cerca un senso ovunque è uno dei nostri maggiori pregi, ma c’è un prezzo da pagare per questa abilità straordinaria, il fatto cioè che a volte i puntini che colleghiamo non appartengono allo stesso disegno. E, oggi, questa capacità straordinaria del nostro cervello a trovare schemi, collegamenti e significati nel caos più assoluto raggiunge il suo culmine nel proliferare delle teorie del complotto.

Il 15 aprile del 2019 uno spaventoso incendio, scoppiato nel sottotetto della guglia, devasta la cattedrale di Notre-Dame. Il pubblico di tutto il mondo osserva sgomento in tv e sui social le drammatiche immagini, mentre le fiamme si propagano rapidamente al tetto di legno e, nel giro di un’ora, divorano per intero la guglia di uno dei simboli più conosciuti d’Europa. Il presidente francese Emmanuel Macron diffonde su Twitter il sentimento che prova e che non riguarda solo i francesi: «Sono triste nel vedere questa parte di noi bruciare».

Una volta domato l’incendio e messo in sicurezza l’edificio, le prime indagini sembrano escludere il dolo, ipotizzando un incidente. Tuttavia, prima ancora che le fiamme si fossero spente, sui siti web dove la mentalità cospirazionista non solo è ammessa ma incoraggiata dilagano le teorie di ogni tipo. È un attentato di matrice islamica, dichiarano sicurissimi alcuni esponenti e commentatori di estrema destra. No, è colpa degli ebrei, strillano altri estremisti. Ma no, è stato lo stesso governo francese ad appiccare l’incendio da solo. I paragoni con gli attacchi terroristici dell’11 settembre si sprecano e, ben presto, arrivano ipotesi sempre più assurde, come quella secondo cui l’incendio sarebbe legato ad altre devastazioni verificatesi in alcune chiese francesi negli anni precedenti. Il motivo? Chi ha bruciato Notre-Dame aveva bisogno di un pretesto per allontanare i fedeli e condurre scavi non autorizzati, al fine di scoprire (o nascondere) tesori lì sepolti nientemeno che… dai cavalieri templari!

Ma non c’è da sorprendersi, è un copione che si ripete identico ogni volta che si verifica un evento sconvolgente e con un forte impatto emotivo: naufragi, aerei che precipitano, attacchi terroristici, guerre, ma anche devastazioni naturali, alluvioni, frane o terremoti, sono tutti avvenimenti capaci di suscitare istantaneamente teorie cospirative tra coloro che abitualmente dubitano di qualunque lettura ufficiale delle notizie. Perché succede, allora? Perché il ricorso a questo tipo di interpretazione immancabilmente prevenuta e distorta della realtà è una reazione così facilmente prevedibile?

È ormai chiaro che le teorie del complotto rappresentano spesso storie coinvolgenti dal potente appeal: per molte persone credere a cospirazioni immaginarie rappresenta una chiamata all’avventura, un’esperienza irresistibile, perché fa sentire chi si convince di averle scoperte come l’eroe di un gioco di ruolo calato nella realtà. E ci sono diverse ragioni psicologiche per cui questo tipo di idee e storie possono sembrarci molto credibili, dalla dissonanza cognitiva all’illusione di riportare ordine nel caos, fino al bisogno di difendere la propria identità.

Spesso, poi, c’è anche il desiderio di abbracciare posizioni che sfidano l’ortodossia e incoraggiano la sensazione di essere più furbi e svegli della maggioranza delle persone, alimentando un’illusione di comprensione. Chi sovrastima quel poco che sa davvero circa un dato problema, solo perché magari ha visto qualche video o letto qualche post sui social, può cioè finire per illudersi di avere capito tutto e di avere scoperchiato qualche oscuro segreto custodito da potenti malvagi.

Ma un fondamentale meccanismo riscontrabile nelle teorie del complotto risiede proprio nella nostra tendenza a unire i puntini, a trovare, cioè, un senso in mezzo alla casualità o alla confusione. E non si tratta di una moderna degenerazione delle nostre capacità cognitive, anzi: gli studi ci dimostrano che l’inclinazione per le teorie del complotto esiste da quando esiste Homo sapiens.

In fondo, che cos’è una teoria del complotto? È il sospetto che un gruppo di persone abbia sottoscritto un accordo segreto per pianificare atti malvagi. Certo, anche singoli individui possono pianificare gesti eclatanti e violenti, ma si parla di cospirazione solo quando sono coinvolte due o più persone. Inoltre, la definizione presuppone che chi si unisce per pianificare malefatte sia necessariamente un nemico: sono “loro” che mirano a danneggiare “noi”. Si potrebbe obiettare che i cittadini spesso credono a teorie cospirative anche sulle azioni del proprio governo. Come si può credere che il “nostro” governo complotti proprio contro di “noi”? Se ci si sente impotenti, privi di diritti o estranei alla politica, si può facilmente diffidare anche del proprio Paese e di chi lo governa. Negli Stati Uniti, per esempio, con due soli partiti, i Repubblicani immaginano teorie del complotto governativo quando i Democratici sono al potere, e viceversa. Dunque è quando un governo è percepito come “loro” e non come “noi” che le teorie del complotto dilagano in un dato gruppo di persone o di elettori.
Se davvero la radice del pensiero cospirativo risiede nel nostro antico istinto di dividere il mondo sociale nelle categorie del “noi” e del “loro”, allora ci si potrebbe aspettare che le teorie della cospirazione fossero già comuni millenni fa, quando gli esseri umani vivevano come cacciatori-raccoglitori in un ambiente paleolitico.

Partendo da questo presupposto, Jan-Willem van Prooijen e Mark van Vugt, psicologi comportamentali all’Università di Amsterdam, hanno cercato di ricostruire le origini evolutive delle teorie della cospirazione. Prima che partisse la rivoluzione agricola, circa 12.000 anni fa, e si iniziassero a formare i primi insediamenti stabili, gli esseri umani vivevano in piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori. Certo, allora non esistevano Twitter e Facebook, populisti e suprematisti bianchi, Democratici e Repubblicani, ma non c’erano nemmeno diversità etniche o religiose.

«Ciò che molte di queste società avevano, tuttavia, era il conflitto letale nei confronti di altri gruppi», dice van Prooijen: «Sebbene la prevalenza della guerra tribale variasse sostanzialmente a seconda delle epoche e dei luoghi, in media gli esseri umani antichi dovevano stare in guardia dai gruppi nemici molto più di quanto non facciano gli esseri umani moderni. Le testimonianze archeologiche suggeriscono che era relativamente comune per gli esseri umani ancestrali morire in conflitti violenti con coalizioni o gruppi ostili; porzioni consistenti di resti fossili trovati in varie località del mondo mostrano prove di morti violente, molto probabilmente dovute a coalizioni ostili».

Gli psicologi osservano che questo tipo di scontri e violenza tribale sopravvive ancora oggi nelle società di cacciatori-raccoglitori contemporanee. Per esempio, tra gli Yanomami, in Sudamerica, si scatenano sanguinose faide, che possono continuare per generazioni, in cui i tassi di vittime letali sono altissimi (circa il 22 per cento di tutte le morti tra gli Yanomami sono dovute a questo tipo di scontri violenti). Senza nessuna regolamentazione e protezione esercitata dallo stato di diritto, le coalizioni violente – vale a dire vere e proprie cospirazioni – rappresentano un pericolo reale e grave per la vita e il benessere delle persone.

Quali sono, si sono chiesti i ricercatori, le caratteristiche psicologiche che aumentano la probabilità di sopravvivere ai pericoli della violenza commessa da altri gruppi? «Un fattore importante è la capacità umana di fare ipotesi sulle intenzioni degli altri», rispondono gli studiosi: «L’altra tribù nelle vicinanze ha intenzioni positive e pacifiche? Oppure ha intenzione di attaccarci e ucciderci per confiscarci il territorio e le risorse? Facendo queste ipotesi, le persone valutano la pericolosità dei diversi gruppi prima che questi colpiscano. Questa capacità di previsione empatica consente alle persone di intraprendere in tempo azioni appropriate e salvavita».

Se gli esseri umani ancestrali ritenevano che un altro gruppo stesse cospirando per far loro del male, potevano, per esempio, migrare in un ambiente più sicuro; potevano sviluppare un solido sistema di difesa; potevano persino sferrare essi stessi un attacco a sorpresa (un “attacco preventivo”) per scacciare o uccidere il sospetto cospiratore. In ogni caso, le persone potrebbero proteggere se stesse e i loro parenti dalla violenza letale, riconoscendo precocemente le intenzioni ostili di altri gruppi. Sviluppare un’inclinazione al sospetto, dunque, potrebbe essere stata una delle chiavi per la sopravvivenza della nostra specie.

Certo, a volte i sospetti sono del tutto infondati. A volte, quell’ombra che si muove tra le frasche è solo il vento, e fuggire può sembrare una reazione esagerata. Ma non tutti gli errori hanno lo stesso prezzo. A volte l’ombra si rivela essere davvero un predatore, una belva pronta a ghermirci e a trasformarci nella sua colazione, e non fuggire per tempo può rivelarsi fatale. Per questo, le nostre reazioni istintive e impulsive hanno spesso la meglio su quelle più ponderate e razionali: perché quando il costo di un falso positivo (vedere, per errore, un predatore che non c’è) è molto diverso da quello di un falso negativo (non vedere, per errore, un predatore), la selezione naturale favorirà la tendenza a commettere il tipo di errore meno costoso e, dunque, a eccedere nei falsi positivi.

Allo stesso modo, propongono i due psicologi olandesi, il sospetto nei confronti del gruppo rivale è sempre favorito dalla selezione naturale. «Quando un membro degli Yanomami muore in circostanze misteriose, i membri della tribù spesso danno la colpa della morte a una maledizione scagliata da membri di un altro villaggio», osserva van Prooijen: «È improbabile che questa accusa cospiratoria sia vera, eppure può causare conflitti e persino omicidi per vendetta. Questo falso positivo implica un conflitto inutile con un gruppo che potrebbe essere un utile alleato o un partner commerciale. Si tratta certamente di un’opportunità sprecata e quindi costosa. Tuttavia, in un ambiente in cui il conflitto letale tra gruppi è comune, il prezzo di un falso negativo è probabilmente molto più alto».

Meglio sospettare sempre degli altri e sbagliarsi, insomma, che non sospettare mai e finire distrutti l’unica volta in cui il sospetto sarebbe stato giustificato. Ma qui sorge un paradosso. Scoprire che le teorie del complotto si sono evolute per una buona ragione nel passato non significa che sia desiderabile credere alle teorie del complotto nel presente. Molte teorie cospirative dei nostri giorni, infatti, portano a scelte sbagliate, se non letali, come il rifiuto dei vaccini, il negazionismo climatico, l’ostilità, la xenofobia, il radicalismo e, in casi estremi, la violenza.

Rispetto ai nostri antenati, abbiamo meno probabilità di essere uccisi dai nemici e siamo relativamente ben protetti dal sistema legale, per citare solo un paio di differenze. Tuttavia, il fatto che il nostro ambiente sia cambiato non significa che il nostro cervello evoluto e ancestrale sia riuscito a rimanere al passo e a evolversi con esso.

C’è, insomma, un disallineamento evolutivo nell’ambiente sociale. Significa che negli ultimi 12.000 anni il modo in cui gli esseri umani vivono è cambiato rapidamente e in maniera radicale: siamo letteralmente passati dalle caverne ai viaggi nello spazio. Ma su scala evolutiva, 12.000 anni sono solo una piccola frazione di tempo, e le nostre predisposizioni innate non sono cambiate di molto. L’evoluzione biologica è lenta, insomma, mentre l’evoluzione culturale è molto veloce e la prima non ha potuto restare al passo con la straordinaria rapidità della seconda. Per dirla in altro modo, abbiamo un cervello adatto per l’età della pietra, ma ci ritroviamo a impiegarlo in una società profondamente tecnologica.

In effetti, sono tanti i tratti che un tempo erano utilissimi e oggi non lo sono più. Un esempio è il desiderio e il piacere di cibarsi di cibo dolce. Nel Paleolitico, la preferenza per i sapori dolci era adattativa, perché stimolava le persone a mangiare cibi nutrienti provenienti dalla natura, come bacche, frutta e patate dolci, in condizioni in cui il cibo oggi c’era e domani chissà. Oggi, però, la medesima preferenza porta gli individui a consumare quantità eccessive di bevande zuccherate e dolciumi, causando obesità e costosi trattamenti dentali. «Proprio come i medici che ci esortano a superare il nostro appetito evoluto per lo zucchero», osserva ancora van Prooijen, «un’importante sfida futura potrebbe essere quella di superare il nostro retaggio evolutivo di rivolgerci alle teorie cospiratorie ogni volta che ci sentiamo insicuri».

Tutto questo dovrebbe farci capire che chi crede alle teorie del complotto non necessariamente ha perso la testa, è diventato paranoico o è in malafede. Nelle giuste circostanze possiamo finire tutti per crederci, sia perché queste teorie fanno leva su timori, dubbi, preoccupazioni e sospetti che tutti possiamo nutrire, e che non di rado sono fondati, ma anche perché, come abbiamo visto, sono spesso in risonanza con alcuni degli istinti che l’evoluzione ha incorporato nel nostro cervello e con i preconcetti e le scorciatoie che il nostro pensiero tende a prendere, attingendo dal pozzo dei nostri più profondi desideri, delle nostre paure, delle nostre presupposizioni sul mondo e sulle persone che ci vivono.

– Leggi anche: La finta teoria del complotto che non crede all’esistenza degli uccelli

Massimo Polidoro
Massimo Polidoro

Fa lo scrittore, il divulgatore e il docente di Comunicazione della scienza all'Università di Padova e al Politecnico di Milano. È tra i fondatori del CICAP e autore di podcast, tv, serie YouTube e oltre 60 libri, tra cui l’ultimo: La scienza dell’incredibile (Feltrinelli). Ora è ospite del Dipartimento di Storia della scienza dell’Università di Harvard come “Visiting scholar” per indagare i legami tra scienza, illusionismo e tecniche dell’inganno.

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