“Visualizzazioni” può voler dire troppe cose

Nella maggior parte dei casi i numeri su quanto vengono visti i contenuti e i video online sono poco chiari, a volte del tutto inverosimili

Lo scorso 24 agosto si è tenuto sul canale Fox News il primo dibattito televisivo tra i candidati del Partito Repubblicano alle elezioni presidenziali statunitensi del 2024. All’evento non ha partecipato l’ex presidente Donald Trump, che ha spiegato così la sua assenza: «Perché dovrei permettere a gente che sta all’uno o al due percento, o anche allo zero percento, di farmi domande per tutta la sera?». Invece del dibattito, Trump è stato ospite del programma che Tucker Carlson, ex giornalista di Fox News, tiene dallo scorso giugno su X, il social network un tempo noto come Twitter. Qui, secondo i numeri forniti dalla piattaforma, l’intervista esclusiva avrebbe avuto 266 milioni di visualizzazioni. Secondo Trump sarebbe stato «il più grande video DI SEMPRE nella storia dei social media, più del doppio del Super Bowl». I dati ufficiali di Nielsen, azienda che si occupa di monitorare il pubblico radiotelevisivo negli Stati Uniti, hanno registrato invece 12,8 milioni di spettatori per il dibattito andato in onda su Fox.

Sin da subito in molti misero in dubbio il numero citato da Trump e X. Secondo il sito Mashable, infatti, a creare confusione sarebbe il concetto di views (o visualizzazioni) usato da X, che non indicherebbe quante volte è stato visto un video ma il numero delle sue «impressioni». «Un’impressione viene contata quando un utente visita attivamente un tweet o quando un tweet appare nella timeline di un utente dopo che è stato ritwittato da un altro. Conta anche ogni volta che un tweet appare su una timeline», spiega la stessa X nella pagina che dedica alle FAQ, le domande più frequenti sul servizio. A un singolo utente può essere quindi assegnata più di una visualizzazione dello stesso contenuto: se un utente guarda lo stesso post dal web e dal proprio telefono, vengono contate due diverse views. Quanto all’intervista di Carlson a Trump, secondo Mashable sarebbe stata effettivamente vista circa 14,8 milioni di volte, se si conta una visualizzazione per ogni utente che ha visto il video per almeno due secondi.

La difficoltà di interpretazione di un dato simile non è una novità per chi si interessa di piattaforme video, ma ultimamente sta interessando in modo particolare X. Da quando Elon Musk ha comprato il social network nell’ottobre del 2022 infatti, il sito ha avuto un approccio confuso rispetto al concetto di visualizzazioni e in generale di qualsiasi unità di misura legata alla misurazione dei suoi post. Tra le sue prime iniziative da proprietario del sito, Musk decise di mostrare il numero di visualizzazioni ricevute dai singoli tweet. Per qualche mese, il numero convisse con quelli delle visualizzazioni video, ma a partire dallo scorso maggio il social network decise di puntare solo sul primo. In un recente incontro pubblico, ad esempio, Musk ha approfondito il suo progetto per la misurazione del tempo d’utilizzo su X, spiegando che «l’ottimizzazione per Twitter è: massimizzare il tempo d’utilizzo senza alcun rimpianto. Non è una questione di “numero totale di utenti” o di altro. Solo i minuti totali degli utenti, senza rimpianti».

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Lo scorso maggio, ad esempio, Twitter ospitò la diretta streaming con cui il governatore Repubblicano della Florida Ron DeSantis lanciò la sua candidatura alle primarie del partito. La diretta fu funestata da diversi problemi tecnici ma raccolse, secondo il sito, circa 15 milioni di visualizzazioni. Alcuni utenti notarono però che l’applicazione Twitter per Android non era stata aggiornata e mostrava ancora le visualizzazioni dei video, oltre a quelle del tweet, indicando un numero più basso di spettatori, circa quattro milioni.

Ad alimentare lo scetticismo attorno a queste metriche sono stati altri casi di post “virali” che mostravano numeri poco credibili. Lo scorso giugno un tweet in cui un utente chiedeva di nominare una battaglia storica «senza cercare su Google» ottenne in pochi giorni poco meno di ventimila like, duemila retweet e un numero di visualizzazioni altissimo: circa 1,4 miliardi. Il fatto che, stando a X, un essere umano su sette avesse visto quel tweet suscitò alcuni sospetti non solo sui parametri di conteggio delle visualizzazioni, ma sulla possibilità che fosse X a gonfiare i suoi stessi numeri. Non fu la prima accusa di questo tipo rivolta alla gestione di Musk: lo scorso febbraio la newsletter Platformer pubblicò un report che sembrava dimostrare come il capo di Twitter avesse «creato un sistema speciale per mostrare a tutti i suoi tweet prima degli altri», in particolare dopo che un suo tweet sul Super Bowl aveva avuto meno successo di quello di Joe Biden.

https://twitter.com/jules_su/status/1669665423682314250

In questi mesi X è inoltre impegnato in un rilancio che vede nei contenuti video uno dei suoi punti chiave: Musk mira a fare del social network una «super-app» come la cinese WeChat, aprendosi sia al settore bancario che a quello video, appunto. Per farlo, ha bisogno di dimostrare che il social network è in crescita, nonostante i problemi tecnici e l’abbandono di buona parte degli inserzionisti. Un buon modo per farlo, come ha notato la giornalista Kara Swisher, è di «sommare il numero di persone a cui è stato presentato il tuo video, che è un dato facilmente incrementabile, alle visualizzazioni».

Già nel 2009 l’imprenditore e blogger statunitense Eric Ries indicò con l’espressione «vanity metrics» (metriche della vanità) tutti quei dati poco chiari e ancora meno affidabili utilizzati dalle startup, soprattutto per gonfiare i numeri delle visite e dei download da parte degli utenti. Anche i social network hanno molti precedenti nel fornire dati volutamente gonfiati agli utenti e agli inserzionisti pubblicitari: il caso più noto è quello di Facebook, che a partire dal 2014 spinse sempre più testate giornalistiche a investire sui contenuti video da pubblicare direttamente sulla piattaforma, innescando un processo noto come «pivot to video» (la “svolta” verso il video). Per favorirlo, il social comunicò per anni cifre sul pubblico raggiunto che erano spropositate rispetto alla realtà, ma bastarono a convincere molti giornali a puntare su questo tipo di contenuti. Nel 2016 Facebook fu costretta ad ammettere di aver «trovato un errore nel modo in cui calcoliamo con i nostri sistemi una delle metriche video». Secondo alcune stime, l’errore avrebbe gonfiato il numero di visualizzazioni dei video del 60-80%.

Alla base del problema c’è proprio l’unità di misura scelta dalla maggior parte delle piattaforme: la visualizzazione. È difficile, infatti, dare una definizione chiara e condivisa su cosa renda un contenuto video “visualizzato” dagli utenti. «In astratto,» ha scritto il giornalista John Herrman sul New York Magazine, «le metriche sono potenti non solo per quello che comunicano – potere, autorità, popolarità – ma perché implicano la misurazione sulla base di uno standard condiviso». Ciascun servizio internet, però, ha un proprio modo di calcolare una visualizzazione: «I numeri sono ovunque, e non significano niente», ha concluso Herrman.

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La difficoltà di comprensione di questi dati interessa da tempo anche il settore dello streaming, le cui aziende condividono pochi dati e con estrema cautela. Recentemente, ad esempio, Disney+ ha festeggiato il successo della serie Ahsoka, che avrebbe avuto 14 milioni di «views mondiali» nella prima settimana. Come ha sottolineato il critico Sonny Bunch, però, “view” non vuol dire né “spettatore” né “visualizzazione completata” ma è piuttosto «una media matematica». Su Disney+, infatti, una “view” si ottiene dividendo il numero di minuti visti totalmente per il tempo di riproduzione (run time) dell’episodio. Secondo i calcoli di Bunch, quindi, Ahsoka sarebbe stato visualizzato in totale per circa 756 milioni di minuti.

Quanto a YouTube, il servizio di condivisione video gratuito più noto e diffuso, le regole al riguardo delle visualizzazioni sono più chiare: il sito ne conta una ogni qual volta un utente attiva intenzionalmente un video e lo guarda per almeno trenta secondi. Anche i dati al riguardo sono visibili al pubblico e in particolare agli autori dei video, che hanno accesso a informazioni dettagliate sul comportamento dei loro spettatori.

Nel mondo televisivo tradizionale, il numero di spettatori di ogni programma viene rilevato da Auditel, che in Italia seleziona un campione statistico della popolazione per poi monitorarne i consumi televisivi attraverso un dispositivo apposito detto “meter”. Ci si aspettava che con il passaggio ai servizi digitali per lo streaming fosse possibile avere dati ancora più precisi, grazie alla sorveglianza che queste aziende possono attuare sui loro utenti. È invece successo il contrario, perché in generale solo raramente i dati sono certificati da aziende terze, e aziende come Netflix hanno imparato a mantenere il riserbo sui dati d’ascolto dei loro programmi. Anche quando Nielsen cominciò a pubblicare dati sul pubblico di Netflix, nel 2017, quest’ultima si affrettò a definirli errati. Nonostante questi errori, notò il sito The A.V. Club, Netflix non pensò di pubblicare i dati completi. Una maggiore collaborazione tra Netflix e Nielsen iniziò nel 2022, quando il servizio di streaming creò i primi abbonamenti in parte sostenuti dalle pubblicità, scelta che rese necessario fornire dati più affidabili agli inserzionisti.

Questa carenza di dati sul pubblico è stata anche una delle ragioni dello sciopero indetto dall’associazione degli sceneggiatori statunitensi in questi mesi, che si basava anche sui cosiddetti residuals, i diritti d’autore che vengono versati dalle reti tv ad autori e attori a ogni riprogrammazione di un programma o film. Servizi come Netflix non prevedono però repliche ma un consumo libero e personale, e quindi preferiscono pagare anticipatamente limitando di molto i residuals. Questo approccio ha creato un alone di mistero attorno ai prodotti dello streaming, persino quelli di maggiore successo: Maya Hawke, attrice che interpreta Robin Buckley in Stranger Things, ha sollevato la questione pubblicamente, chiedendosi come sia possibile non sapere precisamente quante persone abbiano visto la serie.

Invece di dati precisi si hanno solo informazioni opache fondate su unità di misura non convenzionali e facilmente manovrabili. Come ha scritto Herrman, «l’internet promise, tra le altre cose, la sorveglianza assoluta del pubblico, misurabilità totale e conoscenza perfetta di chi sta guardando cose, quando, e per quanto. Quello che ha realizzato, invece, sono state tonnellate cubiche di stronzate sulle metriche».