• di Alessandra Pellegrini De Luca
  • Storie/Idee
  • Mercoledì 20 settembre 2023

Di che cosa parliamo quando parliamo di morte

«Le persone che frequentano un Death Café spesso non si conoscono e pensano che parlare di morte serva a vivere più intensamente la propria vita. Si mangia e si beve anche per questo: sei in un momento conviviale, non in un luogo in cui chiedere aiuto. Quando l'incontro riesce bene si ride, si parla degli spazi in cui la vita esiste nonostante la morte, si racconta per esempio che "nella clinica di cure palliative in cui lavoro si celebrano un sacco di matrimoni". È sconsigliata la partecipazione a chi abbia appena subìto un lutto, abbia una malattia terminale, o magari pensieri di suicidio»

Un laboratorio dell'obitorio di Nairobi, in Kenya (AP Photo/Ben Curtis, File)
Un laboratorio dell'obitorio di Nairobi, in Kenya (AP Photo/Ben Curtis, File)
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Sono stata a un Death Café. Eravamo io, un gruppo di psicologi e una medica palliativista, seduti in cerchio a parlare di morte nella sede dell’Ordine degli Psicologi del Piemonte. Di fianco a noi c’era un lungo tavolo con sopra biscotti al burro, due torte alla crema, del caffè e del tè. «Nessun paziente terminale ti chiede “sto morendo?”: lo sa che sta morendo e sa che chiedertelo metterebbe sia te che lui in un inutile imbarazzo»; «Quando gli hanno detto che la nonna ora abitava al cimitero lui, che ha quattro anni, non riusciva a capire come fosse possibile che la nonna abitasse in quel piccolo loculo di cemento: dov’erano le porte, le finestre, gli spazi per camminare, per respirare, per guardare la tv?»; «La nostra vita è piena di morte: le foglie che cadono d’autunno, i rami che si seccano, la pelle che cambiamo».

La nostra conversazione è andata avanti così: per immagini e aneddoti, con un po’ di incertezza e un paio di momenti in cui qualcuno ha dato al discorso una sterzata spazientita: perché siamo qui? Parlare della morte è stato come farsi coraggio, andare a vedere le macerie di un enorme edificio crollato e chiedersi da dove cominciare, senza sapere bene nemmeno a far cosa.

Ho scoperto dell’esistenza dei Death Café leggendo un articolo sul fine vita in Canada. Poco dopo è morto mio nonno: non sono andata al Death Café per quello, ma inevitabilmente ho portato con me ciò che quella morte mi aveva lasciato. La tristezza, ovviamente, il mio ateismo, ma soprattutto una specie di vastissima paura di perdere altre persone, man mano che la vita procede.

Le persone che frequentano un Death Café spesso non si conoscono e pensano che parlare di morte serva a vivere più intensamente la propria vita. Si mangia e si beve anche per questo: sei in un momento conviviale, non in un luogo in cui chiedere aiuto. In un Death Café riuscito bene si ride, si parla degli spazi in cui la vita esiste nonostante la morte: «nella clinica di cure palliative in cui lavoro si celebrano un sacco di matrimoni». È sconsigliata la partecipazione a chi abbia appena subìto un lutto, abbia una malattia terminale, o magari pensieri di suicidio. In quel caso può essere necessario un altro tipo di colloquio.

Il primo Death Café si chiamava Cafe Mortel e fu organizzato in Svizzera nel 2004 dal sociologo e antropologo Bernard Crettaz. L’idea fu ripresa e ampliata dal britannico Jon Underwood, per poi diffondersi in decine di Stati di tutto il mondo, soprattutto nel Regno Unito e negli Stati Uniti. A volte si organizza in casa, a volte in un locale. Dura un paio d’ore, partecipano una decina di persone al massimo, per agevolare ma non intasare la conversazione. C’è un moderatore o una moderatrice che avvia la discussione e la mantiene all’interno del perimetro stabilito, che è elastico come un impasto appiccicoso. Si può finire a parlare di libertà di scelta sul fine vita, di esoterismo, di persone disabili a cui venga a mancare il sostegno familiare, di accompagnamento psicologico alla morte. Il tipo di conversazione dipende moltissimo dal tipo di persone che partecipano.

Al Death Café organizzato dall’Ordine degli Psicologi del Piemonte c’erano, comprensibilmente, psicologi. Ce n’era una con in cura due pazienti oncologici, entrambi con pochi mesi di vita; una psicologa dell’emergenza, che fa volontariato in un pronto soccorso e deve saper parlare con chi ha appena perso un parente; due psicologhe infantili con in cura tre bambini di circa quattro anni che hanno perso improvvisamente la nonna o il padre; uno psicologo che si occupa di dipendenze, e che ha descritto il craving, il forte e compulsivo desiderio di consumare sostanze stupefacenti per chi ne è dipendente, come un’esperienza del dolore.

Sono tutte persone che lavorano al confine tra la vita e la sua fine: maneggiano la morte e il dolore, e hanno trovato in questi incontri uno strumento per confrontarsi sul proprio lavoro, ma anche sulle proprie paure e su quelle del nostro tempo. Il Death Café è anche questo, dicono: uno spazio di condivisione in cui confrontarsi su quali strumenti abbiamo oggi, nel duemilaeventitré secolarizzato in cui facciamo di tutto per distrarci, per fare i conti con la ferita più antica del mondo e non perderla di vista, perché altrimenti resteremmo più soli, traumatizzati e incapaci.

Non è stata una conversazione semplice. Guardandoci ho pensato a uno stormo di uccelli in cerca di una qualche corrente d’aria. Ci sono stati silenzi, mani alzate tutte insieme e voci che si sovrapponevano.

La prima a parlare è stata la medica palliativista. Ha paragonato il proprio mestiere alla storia di San Martino, che dona metà del suo mantello a un mendicante per ripararlo dal freddo. Ha parlato di quanto i suoi colleghi fatichino a usare la parola “morte”: «“è mancato”, “se n’è andato”, “si è spento”, “si è addormentato”: spesso usiamo così tante perifrasi per non nominarla». Dopo di lei la psicologa che ha in cura i due pazienti oncologici ha parlato di quanto sia intenso accompagnare qualcuno alla fine, gestire il tempo di quell’attesa, a volte riuscire a non piangere. Nel giro di una ventina di minuti la conversazione si era già arenata: la morte restava lì, enorme e monolitica come una montagna al buio, una scatola chiusa. «Mi sembra che stiamo finendo per celebrarla, la morte, anziché attivare un processo di normalizzazione, provare a rompere il tabù della morte, inserirla in un contesto di vita: cercare di far venire fuori la vita, anziché lasciarla lì, la morte, quella cosa a sé che ci spaventa tutti», ha detto lo psicologo che si occupa di dipendenze. Secondo lui il senso di un Death Café è proprio questo: normalizzare la consapevolezza che finiamo come parte della vita.

A quel punto la conversazione si è animata. La medica palliativista ha parlato dei matrimoni celebrati nella clinica in cui lavora, io di come l’immagine di una foglia gialla mi avesse aiutato a far pace con la vista della salma di mio nonno: ateo, anche lui. L’immagine della foglia gialla me l’aveva regalata un professore di psicologia clinica intervistato settimane prima, sempre per i Death Café: dirige la Clinica della Crisi, un posto che fornisce aiuto psicologico per esempio per i lutti traumatici. Mi aveva detto che secondo lui viviamo in un’epoca che «non sa dove mettere la morte», che la celebra in pubblico con copioni sempre uguali ma non ha parole per raccontarne l’esperienza. Mi aveva detto che la morte fa parte della nostra vita quotidiana: «anche le bellissime foglie gialle che colorano i nostri autunni sono una morte». Qualche settimana dopo, guardando il volto cereo e immobile di mio nonno nella camera ardente, quell’immagine era riaffiorata, e per un attimo quel pallore mi era sembrato parte di un ciclo.

Uno psicologo che lavora in una residenza per anziani ha raccontato di Maga, un’infermiera congolese che secondo lui è l’unica del personale a saper parlare davvero con chi sta per morire, perché nella sua cultura la morte è vista molto più apertamente come parte del ciclo della vita: «A un signore molto anziano in fin di vita ha detto “morendo lasci spazio a tua nipote”, una bambina che lui amava moltissimo, ed è riuscita a calmarlo, e a rassicurarlo». A quel punto mi sono venuti in mente i negozi di bare visti anni prima durante un viaggio nelle baraccopoli di Nairobi, in Kenya: avevano una piccola finestra di vetro all’altezza degli occhi della persona morta. Il rivenditore mi aveva spiegato che era per farla partecipare alla festa organizzata per il suo ultimo viaggio. «Abbiamo bisogno di occhi nuovi», ha detto lo psicologo delle dipendenze.

Per qualche minuto mi è sembrato che lo stormo di uccelli indecisi avesse finalmente trovato una fragile corrente d’aria, ma la sensazione è durata pochissimo. «Mi sembra che ci stiamo perdendo un pezzo, che c’è qualcosa che stiamo continuando a non guardare»: una psicologa lì presente, tornata proprio quella mattina da un ritiro in un monastero, ci ha riportati a terra. «Tutto quello che avete detto non mi basta: cos’è che ci fa paura? Cosa sta entrando in gioco, mentre parliamo?».

Dopo qualche istante di silenzio la conversazione è ripresa. In disordine, senza più direzione, in mille traiettorie diverse. La paura e il dolore della morte restavano un fatto irriducibilmente individuale. Per qualcuno morte era paura dell’abbandono, paura che quando muore una persona che amiamo il nostro amore per lei cessi di essere corrisposto, per qualcuno era il saluto di un volto che chiuso il feretro non vedrai mai più. Per qualcuno era paura del dolore fisico, per qualcuno di soffrire, semplicemente. A un tratto l’idea stessa di normalizzare questioni così enormi mi è parsa un po’ ridicola, o almeno presuntuosa. Forse la morte è e deve restare quella cosa lì, che quando arriva fa piombare in uno stupore sordo e insapore, e basta. Forse non avere impalcature di narrazioni con cui abbellirla, ammesso che ce ne siano mai state, ci consente per la prima volta nella storia di guardarla con un minimo di crudo realismo, e cosa vuoi fare se non pensare ad altro.

O forse il senso dell’incontro era stato ancora un altro. Dire a voce alta che la morte è solo di chi muore e che l’unica condivisione possibile è quella dell’ascolto e della relazione. Parlare e ascoltare servono a capire che la morte è un fatto individuale e un momento della vita in cui possono essere fatte scelte, come per la nostra educazione, la nostra alimentazione, il nostro lavoro e il nostro tempo libero. Si può scegliere di morire in casa o in ospedale, di avere un funerale laico o religioso, di attraversare una malattia devastante fino alla fine oppure di non farlo. L’ascolto impedisce di parlare in nome di persone che non conosciamo, di decidere noi cosa è giusto per loro, di rendere la morte un astratto terreno di tutti anziché di chi lo vive.

Se la mia morte è di tutti le conseguenze sono anche politiche: dovrò scontrarmi con un muro di certezze e opinioni su come sia giusto morire, nel caso in cui a determinate condizioni non consideri più “vita” l’attività del mio organismo. O andare a morire all’estero, in paesi più laici in cui la morte, e la nascita, non sono feticci su cui imporre divieti, ma spazi in cui esercitare scelte. Senza le impalcature restano i singoli e la loro capacità di entrare in relazione, di trasmettersi un senso di sé e del mondo che sopravviva alla morte fisica: forse dovremmo cominciare da qui, ho pensato.

Ma erano passate due ore e il Death Café era finito. Uscita dalla sede dell’Ordine sono andata alla stazione di Torino Porta Susa per tornare a casa. In uno spiazzo buio dentro la stazione c’era una ragazza peruviana che ballava con uno stereo acceso, agitando in movimenti molto ampi una gonna turchese piena di balze: era piena di vita, era bellissima.

Alessandra Pellegrini De Luca
Alessandra Pellegrini De Luca

È nata a Genova nel 1991 ma ha cambiato molte città. Ha fatto un dottorato a Edimburgo, in Scozia. Fa la giornalista e lavora al Post dal 2021.

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