La rapina che diede il nome alla “sindrome di Stoccolma”

Avvenne cinquant'anni fa e permise di teorizzare il rapporto di fiducia e complicità che si può instaurare tra ostaggi e rapitori

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Le persone prese in ostaggio durante la rapina nel caveau della banca di Stoccolma, nell'agosto del 1973 (EPA via ANSA)
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Attorno alle 10 del 23 agosto del 1973, cinquant’anni fa, un uomo con una parrucca, la faccia truccata e un paio di occhiali da sole entrò in una banca del centro di Stoccolma. In una mano teneva un mitra e nell’altra una valigia che conteneva munizioni, walkie talkie, una corda, un coltello e una piccola radio. Parlando in inglese e simulando un accento americano, l’uomo disse: «Comincia la festa! A terra!». Iniziò così quella che nelle intenzioni di Jan-Erik Olsson doveva essere una rapina veloce, e che si trasformò invece in una vicenda durata sei giorni, con quattro persone prese in ostaggio, un noto criminale uscito dal carcere, complicate trattative con le autorità e le attenzioni della Svezia intera addosso.

Ma la rapina alla Kreditbanken di piazza Norrmalmstorg è ricordata soprattutto perché diede il nome alla “sindrome di Stoccolma”, cioè la tendenza irrazionale e apparentemente paradossale delle persone che subiscono un abuso a stabilire un legame con chi le costringe in quella situazione e a empatizzare con loro, giustificandole o diventando loro complici. È un’espressione tanto famosa quanto dibattuta, perché non descrive in maniera del tutto accurata il rapporto che si creò davvero tra rapinatori e ostaggi durante la rapina.

Nell’agosto del 1973 Olsson aveva 32 anni ed era uscito grazie a un permesso temporaneo dal carcere di Kalmar, dove stava scontando una pena di tre anni per furto aggravato. Mentre cercava di ottenere il controllo del salone della banca qualcuno riuscì a chiamare la polizia, che arrivò nel giro di pochi minuti. Ci fu uno scontro a fuoco in cui un agente rimase ferito, e poco dopo Olsson formulò le sue richieste: voleva due pistole, due giubbotti antiproiettile, una Ford Mustang e tre milioni di corone (circa 3,7 milioni di euro odierni). Voleva anche che nella banca fosse fatto portare Clark Olofsson, un 26enne che aveva conosciuto in carcere e che era detenuto a causa di una condanna per rapina a mano armata che lo aveva reso una specie di celebrità.

La polizia decise di soddisfare quest’ultima richiesta e fece liberare Olofsson, che diceva di non avere niente a che fare con l’ideazione della rapina, promettendogli uno sconto di pena in cambio della sua collaborazione per risolvere la situazione. A quel punto Olsson liberò tutte le persone che erano presenti nella banca ma tenne in ostaggio quattro dipendenti, tre donne e un uomo: Kristin Enmark, Birgitta Lundblad, Elisabeth Oldgren e Sven Safstrom. Quando arrivò anche Olofsson si rifugiò assieme a lui e agli ostaggi nel caveau della banca. Per giorni gli agenti tentarono di negoziare il rilascio degli ostaggi, ma invano. Nel frattempo disposero alcuni microfoni fuori dal locale e bucarono il soffitto per calare una macchina fotografica e capire meglio cosa stesse succedendo dentro.

In Svezia un evento simile non si era mai visto. Nel 1974 Enmark, una degli ostaggi, raccontò al New Yorker di aver creduto che cose simili potessero accadere «solo in America». Nella piazza davanti alla banca si radunarono decine di poliziotti, ma anche cronisti, fotografi e curiosi. Al tempo in Svezia esistevano solo due canali televisivi, ed entrambi cominciarono a trasmettere quasi esclusivamente le immagini della rapina in diretta. Alla sua conclusione, il 29 agosto, il 73 per cento della popolazione svedese era davanti alla tv.

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Le registrazioni e le successive testimonianze su quelle ore avrebbero poi portato la polizia a sostenere che tra le persone prese in ostaggio e Olsson e Olofsson si fosse creato un legame di fiducia e complicità. L’ipotesi deriva soprattutto da alcune accortezze che il rapinatore e il suo amico avevano avuto nei confronti degli ostaggi. Dalle ricostruzioni emerse per esempio che Olsson aveva asciugato le lacrime di una di loro, e diviso tre pere che aveva con sé in parti uguali per darne un po’ a tutti; Olofsson invece consolò un’altra impiegata perché aveva provato a contattare i suoi genitori usando il telefono del caveau ma non li aveva trovati. «Mi consolava, mi teneva la mano. Mi diceva ‘farò in modo che Jan [Olsson] non ti faccia del male’», raccontò Enmark al podcast Memory Motel nel 2017.

Allo stesso tempo, tra gli ostaggi si stava diffondendo una certa sfiducia nei confronti della polizia, che non era preparata a gestire la situazione. Tra le altre cose le forze dell’ordine non erano riuscite a identificare subito Olsson, che si era rifiutato di dire il suo nome e continuava a parlare inglese. Credendo che il rapinatore fosse Kaj Hansson, un famoso ricercato, la polizia mandò fuori dalla banca suo fratello 16enne. Quando Olsson però sparò due colpi verso di lui, la polizia si accorse di aver sbagliato: l’errore generò ulteriore confusione e preoccupazione tra gli ostaggi.

A un certo punto sia Olsson sia Enmark parlarono al telefono con il primo ministro svedese Olof Palme. In una prima telefonata Olsson minacciò di uccidere gli ostaggi e per risultare credibile mise le mani attorno al collo di Enmark, che cominciò a urlare. Il giorno seguente Enmark disse a Palme di essere «molto delusa» perché la polizia stava «giocando con le loro vite»; aggiunse che si fidava «pienamente di Clark [Oloffson] e del rapinatore» perché fino a quel momento non avevano fatto male a nessuno, e che aveva più paura di essere uccisa dalla polizia in un’eventuale irruzione.

Alla fine la rapina si concluse il 29 agosto, dopo più di sei giorni, quando la polizia fece pompare del gas lacrimogeno attraverso i fori scavati nel soffitto del caveau. Olsson fu portato fuori dalla banca in manette, circondato dai poliziotti con maschere antigas; gli ostaggi invece in barella. Rivolgendosi a Olofsson, Enmark disse con voce abbastanza forte da riuscire a essere sentita dai giornalisti: «Ci vediamo».

Il giorno seguente il medico incaricato di esaminare le condizioni di salute degli ostaggi descrisse uno shock simile a quello che provano le persone coinvolte nelle guerre. Lo psichiatra e criminologo Nils Bejerot, che aveva dato consulenza alla polizia durante la rapina, ideò invece l’espressione “sindrome di Stoccolma” per descrivere appunto una situazione paradossale in cui gli ostaggi avevano finito per esprimere sentimenti positivi nei confronti dei loro rapitori. Il caso più noto a cui venne associata l’espressione risale all’anno successivo: il celebre rapimento di Patty Hearst, la figlia di una nota famiglia di editori, che fu rapita nel suo appartamento della California da un gruppo di terroristi di estrema sinistra a cui poi si unì durante il sequestro.

In seguito la teoria di Bejerot fu approfondita ed elaborata ulteriormente da altri psichiatri, psicologi e investigatori, che hanno trovato tra i punti in comune delle situazioni in cui si manifesta la sindrome di Stoccolma la presenza di atteggiamenti percepiti dagli ostaggi come gentili, la percezione che qualcun altro (come le forze dell’ordine) non stia facendo abbastanza per aiutarli e poi una certa comprensione o compassione per i loro rapitori. L’espressione viene associata anche ad altre gravi situazioni di enorme stress psicologico, come gli abusi sessuali ripetuti nel tempo.

Nel teorizzare la sua sindrome Bejerot si riferiva in particolare alla relazione di Olsson e Olofsson con Enmark, che secondo lui ne era diventata succube. Bejerot tuttavia aveva formulato la sua teoria basandosi esclusivamente su osservazioni esterne e non aveva mai visitato Enmark, né ci aveva mai parlato al telefono. La donna, che all’epoca dei fatti aveva 23 anni, disse in varie occasioni di non aver provato alcuna simpatia per il suo rapitore e sostenne di aver fatto solo quello che era necessario fare per restare viva.

Al giorno d’oggi psichiatri e psicologi hanno pareri divergenti sulla sindrome di Stoccolma e alcuni continuano a interrogarsi sulla possibilità che non sia un fenomeno psicologico, ma descriva più che altro un comportamento inatteso nell’ambito di un’esperienza altamente traumatica. I critici della sindrome ritengono che consideri in maniera troppo passiva gli ostaggi e che sia una teoria troppo semplificata per spiegare circostanze molto complesse e i comportamenti che è possibile aspettarsi da persone sottoposte a condizioni di grande stress. Al momento la sindrome non è riconosciuta ufficialmente come disturbo psicologico e pertanto non è inclusa nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM), il manuale di riferimento per diagnosticare e classificare i disturbi mentali usato sia negli Stati Uniti che in ambito internazionale.

Olsson comunque fu condannato a dieci anni di carcere per rapina a mano armata. Venne condannato anche Olofsson, che però fu assolto in appello e negli anni seguenti divenne amico di Enmark e della sua famiglia. I due non ebbero mai una relazione sentimentale, come alcuni giornali scrissero all’epoca.