Come se la passano le birre industriali italiane

Quasi sempre ormai hanno proprietà straniere, ma marchi come Moretti, Peroni e Nastro Azzurro si vedono sempre di più all'estero

(AP Photo/Kirsty Wigglesworth)
(AP Photo/Kirsty Wigglesworth)

All’inizio del 2023 una delle più note agenzie di ricerche di mercato, la CGA, ha pubblicato la lista delle lager più vendute nel 2022 nel Regno Unito, paese dalla grande tradizione di birra. Le lager sono le classiche birre chiare a bassa fermentazione, quelle da supermercato, ma anche le più popolari alla spina, sui banconi dei pub e dei bar. In testa alla classifica c’è la canadese (di origine) Carling, stabilmente in prima posizione dagli anni Ottanta, al secondo l’australiana Foster’s, mentre al terzo e al quarto posto ci sono Birra Moretti e Nastro Azzurro.

Per i due marchi italiani non si tratta di un risultato estemporaneo o inatteso: erano nella stessa posizione un anno prima, anche se con volumi di prodotto venduto notevolmente minori. Birra Moretti è cresciuta in un anno del 140 per cento, superando il milione di ettolitri venduti, Nastro Azzurro del 118 per cento, collocandosi intorno ai 825mila ettolitri. Si tratta quindi di un successo solido, che potrebbe far pensare a un periodo di particolare fortuna delle birre italiane all’estero. Per questi due marchi, e relativamente al Regno Unito, è probabilmente così, ma ci sono parecchi distinguo da fare.

Il primo è relativo al mercato complessivo delle birre industriali in Italia (quelle artigianali seguono logiche diverse e hanno numeri ovviamente molto minori): la bilancia commerciale italiana resta anche negli ultimi anni notevolmente in passivo: importiamo cioè molta più birra di quanta ne esportiamo. Nel 2022 l’Italia ne ha acquistata dall’estero per 590 milioni di euro, e venduta all’estero per 233 milioni. L’altro dato è un leggero calo (-1,8 per cento) delle esportazioni rispetto al 2021, anno che aveva segnato un record con una crescita dell’11 per cento rispetto al precedente.

Il secondo dato che rende quella classifica un po’ meno rappresentativa della diffusione delle birre italiane all’estero è che i marchi italiani si vendono principalmente nel Regno Unito: il mercato britannico rappresenta quasi la metà di quello totale (circa 90 milioni), poi segue quello statunitense (meno di 20) e quello cinese (15). In Europa i marchi italiani vendono principalmente in Francia e in Albania.

La terza questione, che è forse la più problematica, è che cosa si intenda per “birra italiana”: i marchi italiani più noti e venduti sono quasi tutti di proprietà di multinazionali e grandi gruppi esteri. È il caso della Birra Moretti, della Nastro Azzurro e della Peroni, ma anche della Poretti, della Messina, dell’Ichnusa, della Wührer, della Dreher e della Raffo. Fanno eccezione, fra le più diffuse, la biellese Menabrea, acquisita dal gruppo bolzanino della Forst, e alcune aziende più piccole che hanno resistito alla acquisizioni da parte delle multinazionali o hanno inventato nuovi marchi al momento della cessione dei vecchi, mantenendo lavoratori e processi produttivi: Pedavena e Castello (Udine), Morena (Potenza), Birra dello Stretto (Messina).

La concentrazione dei marchi più popolari in grandi gruppi industriali è una tendenza mondiale da alcuni decenni, che è diventata particolarmente evidente nel 2015 quando la società belga AB InBev, il più grande produttore al mondo di birra, raggiunse un accordo per l’acquisizione di SABMiller, il secondo più grande produttore al mondo. Ma le acquisizioni erano cominciate molto prima: Ichnusa fu acquistata da Heineken nel 1986, Moretti dalla stessa azienda olandese nel 1996, Peroni dal 2003 faceva parte del gruppo sudafricano SABMiller, prima di essere ceduta ai giapponesi di Asahi nel 2016. Il primo accordo del Birrificio Angelo Poretti con la società danese Carlsberg è del 1975, anche se la multinazionale acquisì il 100 per cento dell’azienda lombarda solo nel 2002.

Dirigenti della SABMiller e di Peroni per il lancio della Nastro Azzurro in Belgio nel 2007. (ANSA/EPA/ERIC VIDAL)

Se le proprietà sono quasi sempre straniere, la produzione rimane per lo più negli stabilimenti italiani, quasi sempre quelli originari. Alcune aziende italiane, senza pubblicizzarlo troppo, producono parte della birra destinata ai mercati esteri direttamente in altri paesi, con il marchio e la ricetta originaria.

Il caso più rilevante è quello della Moretti che, anche per i volumi ingenti che dovrebbero essere spostati, produce la sua birra per il mercato britannico in uno stabilimento di Manchester. Un portavoce di Heineken UK ha spiegato a BBC questa scelta come più sostenibile a livello ambientale, oltre che assolutamente irrilevante per il prodotto finale, che dice essere garantito dagli stessi ingredienti e dallo stesso procedimento e sorvegliato dalla figura di un «mastro birraio globale». In realtà la tendenza è – anche questa – condivisa dalle maggiori aziende e ispirata soprattutto da ragioni economiche: è molto più conveniente produrre in loco decine di milioni di litri di birra piuttosto che trasferirli attraverso l’Europa o, peggio, in viaggi intercontinentali.

Delle dieci birre lager più vendute nel Regno Unito nove sono straniere e otto sono prodotte direttamente nel paese, compresa l’australiana Foster’s, la belga Stella Artois, la spagnola fondata nelle Filippine San Miguel (fra le altre). Fa eccezione proprio la Nastro Azzurro, marchio della Peroni, che è stata la prima birra italiana ad avere un grande successo internazionale, già a partire da una decina di anni fa, anche in corrispondenza di alcune fortunate sponsorizzazioni che avevano come protagonista il motociclista Valentino Rossi.

Peroni, azienda nata a Vigevano nel 1846, presto trasferita a Roma e oggi di proprietà giapponese, fa della sua “identità italiana” l’elemento centrale delle campagne di marketing. «Indiscutibilmente italiana» e «Prodotta a Bari, Roma, Padova» sono slogan che compaiono ben visibili sull’etichetta. La produzione avviene appunto nei tre stabilimenti, anche per la consistente quota riservata all’estero. Nei testi promozionali presenti sul proprio sito ufficiale Peroni insiste sulla filiera produttiva tutta italiana che crea «43mila posti di lavoro indiretti» e sulla provenienza degli ingredienti: un malto italiano e un mais coltivato nel Nord Italia, chiamato il “Mais Nostrano”.

Andrea Turco, fondatore e direttore del sito Cronache di Birra, spiega che «inserire il mais come caratteristica identitaria è un’operazione di marketing particolare, visto che mais e riso sono utilizzati nella produzione industriale della birra per ridurre i costi rispetto all’uso del solo malto». Per la legge italiana – e non solo – la birra è infatti una bevanda ottenuta da fermentazione da lievito da birra, con acqua, luppolo, e una base di malto d’orzo o frumento. Quest’ultimo può essere sostituito fino al 40 per cento da mais o riso, che rispetto al malto non devono essere trattati e sono quindi più economici.

Insistere sulla provenienza degli ingredienti della birra è una scelta di marketing oggi piuttosto diffusa ma tutto sommato nuova, probabilmente mutuata da altre produzioni alimentari industriali. La birra, a differenza del vino, non è storicamente connotata dalla sua provenienza geografica. Dice sempre Turco: «Esistono birre anche artigianali di alto livello prodotte in varie parti del mondo secondo lo stile tedesco, ad esempio, o usando un malto tedesco, o con un lievito originario degli Stati Uniti. Di norma la provenienza degli ingredienti non è mai stato un grosso problema».

Il malto utilizzato in uno stabilimento tedesco (EPA/ANNA SZILAGYI)

La denominazione geografica negli ultimi anni in Italia è stata oggetto di almeno due questioni legali: una ha riguardato proprio Peroni, che nel 2018 presentò la birra Napoli, rispolverando un vecchio marchio dell’azienda Birrerie Meridionali di un secolo prima. Il prodotto era fortemente connotato con colori e simboli della città, ma il suo legame con il territorio riguardava solo l’utilizzo di orzo e grano campani. Un birrificio artigianale di Napoli, il Kbirr, fece causa all’azienda, ritenendosi danneggiata dall’uso improprio del nome di Napoli: si arrivò a un accordo, con la sospensione della commercializzazione della birra Napoli per quattro anni, fino a fine 2025 (ma il progetto potrebbe non riprendere nemmeno dopo).

L’altro caso riguarda Heineken e il marchio Birra Messina, acquisito nel 1988. A partire dagli anni Novanta Heineken iniziò a spostare la produzione nei propri stabilimenti pugliesi di Massafra, annunciando la definitiva chiusura di quelli siciliani nel 2007. Nel 2010 in seguito a un ricorso di Confconsumatori di Messina l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (l’Antitrust) obbligò Heineken a variare il modo in cui presentava il prodotto Birra Messina. In particolare da allora le bottiglie non possono più riportare le diciture “antica ricetta” e “dal 1923”, che facevano riferimento alla produzione originaria, né il simbolo della Triscele, immediato richiamo alla Sicilia. L’indicazione della sede legale della società e degli stabilimenti di produzione della bevanda sono più evidenti.

Anche per tutelare il marchio Messina da iniziative simili, dal 2019 Heineken è tornata a produrre in Sicilia un’edizione speciale della Messina, chiamata “Cristalli di sale”. Viene prodotta in collaborazione con il Birrificio Messina, produttore della Birra dello Stretto: l’azienda fu fondata nel 2015 da 15 lavoratori dell’impianto di Messina rimasti senza lavoro dopo la decisione di Heineken di spostare la produzione. Misero insieme un capitale iniziale investendo i Tfr (trattamenti di fine rapporto) ottenuti dopo il licenziamento, ebbero il sostegno della Fondazione di comunità di Messina e crearono una cooperativa che in questi anni è cresciuta ed è diventata solida: l’accordo con Heineken comprende anche la distribuzione dei marchi del birrificio attraverso i canali della multinazionale.

Anche quello che è oggi uno dei maggiori produttori di birra di proprietà italiana è nato da problemi con l’Antitrust di una multinazionale: nel 1996 il gruppo Heineken dovette vendere lo stabilimento di San Giorgio di Nogaro, in Friuli Venezia Giulia, perché con l’acquisizione di Moretti aveva acquisito una posizione dominante sul mercato italiano. L’impianto venne rilevato nel 1997 da una società creata appositamente, la Birra Castello SpA: quest’ultima è diventata una delle realtà più grandi del settore, fra quelle di proprietà  italiana, grazie all’ingresso nel capitale azionario della società bergamasca di distribuzione all’ingrosso Beverage Service Europe e all’acquisizione di marchio e stabilimenti della Pedavena. Nel 2022 ha realizzato il suo massimo fatturato, 123 milioni di euro, con la produzione di 1,3 milioni di ettolitri di birra. A luglio ha ceduto lo stabilimento di San Giorgio di Nogaro all’azienda danese Royal Unibrew.

Negli ultimi anni poi le aziende produttrici di birre industriali hanno risposto alla grande crescita di interesse intorno alle birre artigianali. Le birre artigianali sono prodotte da birrifici di dimensioni più piccole (non possono superare i 200mila ettolitri di produzione annua), ma soprattutto si distinguono per non subire una pastorizzazione, ossia una cottura che serve a sterilizzare la birra, dopo una microfiltrazione che rimuove lieviti e proteine. Con la pastorizzazione la birra si può conservare per anni, indipendentemente dalle temperature esterne, mantenendo lo stesso gusto. Le birre artigianali non sono pastorizzate e sono raramente o parzialmente filtrate: per questo hanno un tempo di conservazione e di conservazione delle proprietà organolettiche molto più breve.

Il successo delle birre artigianali è stata una caratteristica dell’ultimo decennio, anche se nelle ultime stagioni la crescita è rallentata: nel 2022 i piccoli e micro birrifici hanno raggiunto comunque la quota record di 870. Le grandi industrie del settore hanno risposto a questo fenomeno con l’introduzione di una serie di edizioni speciali, dette crafty, che pur essendo industriali richiamano quel mondo per genere di etichetta, forma della bottiglia, comunicazione, indicazioni come “non pastorizzata” o “filtrata a freddo”, distinzioni basate sul numero di luppoli o sulla provenienza regionale degli ingredienti. Ne sono un esempio l’Ichnusa non filtrata, o la Moretti filtrata a freddo, che si sono diffuse particolarmente in tempi recenti.

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