Terziario, triste e solitario

«Lavorare non piace a nessuno, ma la situazione, ultimamente, sembra peggiorata. Forse perché la manifattura, l’atto di produrre fisicamente una merce, si è spostata così lontano da noi che ci guadagniamo da vivere producendo qualcosa che non si può toccare, e che spesso siamo incapaci di spiegare. Qualcosa di indimostrabile. Per fotografare questi tempi frammentati, bisognerebbe fondere la spensieratezza vanesia di Yuppies con l’angoscia di Fantozzi. Costruire un set popolato da partite Iva forfettarie, creativi da soma, motivatori demotivati, streamer sull’orlo del burnout, e influencer-filosofi pronti a insegnarci che il riposo è un atto politico»

Un hotel a capsule in Giappone convertito a spazio di coworking a causa del covid. Hotel Anshin Oyado, Tokyo, 17 dicembre 2020. (Yuichi Yamazaki/Getty Images)
Un hotel a capsule in Giappone convertito a spazio di coworking a causa del covid. Hotel Anshin Oyado, Tokyo, 17 dicembre 2020. (Yuichi Yamazaki/Getty Images)
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Non so esattamente che nome abbia quel senso di inquietudine che inizia a formicolarmi addosso alla vigilia dei weekend, proprio quando il venerdì sera sta per dispiegarsi in tutta la sua salvifica potenza. Non ci sono mail inattese, call né impicci dell’ultimo minuto, ma qualcosa dentro di me non combacia con la felicità e un po’ me ne vergogno. «Dio creò il mondo, lo contemplò e vide che era cosa buona; e nel settimo giorno cessò da ogni suo lavoro». Se penso che persino Dio era contento di riposarsi, il mio mal di pancia del fine settimana rischia di suonare quasi blasfemo. Un capriccio da bambini. E mi risuona in testa una frase di un libro di trent’anni fa – L’uomo di marketing e la variante limone di Walter Fontana – che Bompiani ha appena deciso di ripubblicare: «L’azienda è un luogo dove persone adulte subiscono continuamente traumi infantili».

Ora che ci penso, a differenza di Dio, io non ho un creato da contemplare. Ho lavorato, certo, o almeno credo; ma il frutto della mia fatica («Chiamala fatica», grida qualcuno in lontananza) non si può tenere tra le mani, è impossibile saggiarne al tatto la fattura, o la cura del dettaglio. So bene di essere in vasta compagnia: faccio parte di quel gruppo di persone che, di mestiere, comunicano. Affrancati dal lavoro manuale, noi costruiamo narrazioni, creiamo visioni, alimentiamo connessioni. Non rischiamo di cappottare a bordo di un trattore, né di lasciare qualche arto in una pressa – cosa che inevitabilmente accadrebbe – e di questo siamo sollevati e felicissimi; eppure quello strano malessere, quel senso di vuoto, non se ne va.

Si potrebbe obiettare che un simile sconforto, nei secoli dei secoli, è sempre esistito: lavorare non piace a nessuno, tantomeno ci piace fare qualcosa che qualcun altro ci ordina di fare, e le scorie di quel che ci tocca ingoiare ce le portiamo appresso anche nelle ore di libertà. Ma la situazione, ultimamente, sembra essere peggiorata. Forse perché la manifattura, l’atto di produrre fisicamente una merce, si è spostata così lontano da noi che non solo non facciamo più le cose, ma nemmeno più conosciamo qualcuno che le fa. Ci guadagniamo da vivere, noi e le persone che frequentiamo, producendo qualcosa che non si può toccare, e che spesso siamo incapaci di spiegare. Qualcosa di indimostrabile.

E anche la rappresentazione del lavoro nell’arte, nella narrativa, nel cinema sembra patire lo stesso disagio. Rappresentare la normalità – scriveva Umberto Eco – è una delle cose più difficili per qualsiasi artista; al contrario, non c’è nulla di più semplice che rappresentare la deviazione e l’eccesso. Sarà per questo, pensavo, che nelle moderne forme di intrattenimento capita di rado di trovare parti significative in cui i protagonisti, semplicemente, lavorano. Nella classifica dei film più visti nell’ultimo anno – tra bambole, supereroi e personaggi di fumetti – già si fatica a scorgere figure ascrivibili al genere umano, figurarsi a trovarne che facciano lavori normali.

Ma esistono ancora, i lavori normali? E soprattutto: interessano a qualcuno? Oggi, quando si pensa a cosa fare nella vita, il lavoro è solo una delle possibilità, e non certo la più attraente; dicono che in Italia più della metà dei giovani sotto i 28 anni non abbia la minima idea di ciò che farà in futuro. Ovvio che chiunque offra scorciatoie, o comunque prospettive di guadagno alternative, non fatichi a trovare un pubblico: la mia timeline pullula di esperti di borsa, maghi delle scommesse, funamboli delle criptovalute. E, naturalmente, di guru del marketing che promettono di centuplicare il fatturato di chiunque decida di affidarsi alla loro consulenza.

Da un po’ di tempo, guarda caso, l’algoritmo social continua a propinarmi video, divenuti virali per la loro involontaria comicità, di un giovane imprenditore che, professandosi multimilionario, dispensa originalissimi consigli di vita, come svegliarsi molto presto («Mentre gli altri sbadigliano, io sono già in call») ed essere inflessibile con i dipendenti («Per chi sbadiglia, scatta la multa del 3 per cento»). Mentre mi domando quale conoscenza del diritto del lavoro possa avere un capo che si vanta di multare i sottoposti a ogni sbadiglio, sbircio sul suo sito, ove campeggia l’invito a partecipare a un esclusivo seminario: sono rimasti pochissimi posti, chi compra i biglietti oggi avrà lo sconto, non perdete l’occasione, ho cambiato la mia vita, cambierò anche la vostra.

Certo non ho mai visto un multimilionario cercare di vendere sé stesso con tanta foga. Vorrebbe, immagino, essere un ammaliatore come Jordan Belfort di The Wolf of Wall Street, ma al massimo a me sembra un incrocio tra Salvatore Aranzulla e il Milanese Imbruttito, prosciugati di qualsiasi sfumatura ironica. Mi è venuto da pensare al finale di Yuppies, scollacciata commedia dei fratelli Vanzina nella quale i protagonisti, giovani (o quasi) professionisti in carriera con il mito di Gianni Agnelli, crollano davanti al conto astronomico di un ristorante di Cortina. Forse, se i Vanzina fossero stati quarantenni in questa epoca, dentro Yuppies ci avrebbero messo un personaggio così, distantissimo dai protagonisti originali ma animato dalla stessa spacconeria, la stessa necessità di affermarsi di quegli anni Ottanta dai quali, me ne rendo conto ora, non siamo mai usciti; semplicemente ci siamo ancora dentro, solo con molti meno soldi.

E, naturalmente, molta meno allegria. I personaggi vanziniani erano goderecci, nottambuli e spendaccioni; il nostro eroe, invece, rivendica con orgoglio di andare a letto alle dieci di sera, così da potersi rimettere in moto già alle cinque. Cerca fortissimamente, nonostante gli orari da tornitore, di convincerci di essere felice e realizzato, ma a me dà l’impressione, magari sbaglio, di una persona che nella vita non si è divertita una singola volta – cosa che, per un multimilionario, mi sembra imperdonabile. È come se quell’euforia della Milano da bere, edonista e festaiola, si fosse trasformata in un’inquietudine psicotica fatta di sveglie antelucane, brioche senza glutine e cappuccini di soia, con il Lexotan al posto della cocaina per scacciare la tragica consapevolezza che tutto finirà, o forse sta già finendo.

Non lo si può negare: la sensazione di stare assistendo a una sorta di ultimo tango del capitalismo (di questo capitalismo, almeno; non facciamoci illusioni) ce l’abbiamo tutti da un po’ ma abbiamo scelto di ignorarla, come se la minaccia non fosse reale finché non le prestiamo attenzione. Come in quei cartoni animati in cui Willy il Coyote, finito di slancio oltre l’orlo del crepaccio, resta sospeso nel vuoto, rassegnato a precipitare ma consapevole che la caduta non comincerà finché non guarderà in basso.

Non esattamente lo scenario ideale per una commedia scanzonata. O forse sì, ma ci vorrebbero Scola, Germi, Monicelli, Wertmüller. Oppure quel Luciano Salce che riuscì a dare una forma cinematografica alla maschera di Fantozzi, esempio di satira lavorativa solo apparentemente lontano dalle nevrosi odierne. Certo, i tempi sono cambiati e il posto fisso non è un traguardo così appetibile, ma la disperazione di Fantozzi non mi sembra così diversa da quella che si respira negli uffici di oggi, in cui nessuno più viene chiamato ragioniere o geometra perché anche i lavori hanno smesso di avere nomi comprensibili in favore di locuzioni anglofone sempre e comunque altisonanti, ottime per dare a tutti noi comunicatori l’illusione di essere indispensabili.

L’irrilevanza dell’impiegato della Megaditta – ingranaggio anonimo e minuscolo, al punto da finire murato vivo nella totale indifferenza – ha lasciato spazio a un nuovo tipo di irrilevanza, un’irrilevanza individualista e performativa (quella che ci fa dire «Noi facciamo», «Noi produciamo» quando parliamo dell’azienda in cui lavoriamo, cosa che Fantozzi non si sarebbe mai sognato di fare) alla quale ci siamo arresi con entusiasmo scegliendo di de-sindacalizzarci, de-regolamentarci, de-umanizzarci pur di emergere, o quantomeno galleggiare in quel mare che una volta si chiamava “terziario avanzato” e adesso è semplicemente l’acqua in cui nuotiamo, ognuno per sé, sbracciando e gridando per farci notare. Ne conosco tanti, che in ufficio ci si murano vivi da soli. L’ho fatto anche io. Perché?

Forse, per fotografare questi tempi frammentati, bisognerebbe fondere la spensieratezza vanesia di Yuppies con l’angoscia di Fantozzi. Costruire un set interamente popolato da partite Iva forfettarie, creativi da soma, motivatori demotivati, streamer sull’orlo del burnout, e influencer-filosofi pronti a insegnarci che il riposo è un atto politico e che se potessimo campare senza lavorare vivremmo meglio. Un’opera liquida, senza un vero protagonista, fatta di una moltitudine di singole voci.

Immagino non sia un caso se Bompiani proprio in questo periodo abbia deciso di ristampare L’uomo di marketing e la variante limone di Walter Fontana, romanzo ambientato in quella terra di conflitto che sta tra azienda e agenzia pubblicitaria, in cui il racconto è portato avanti da personaggi senza nome, ombre dantesche che tirano avanti tra paure e frustrazioni, prorompendo di tanto in tanto in un soliloquio prima di scomparire nell’oscurità.

«Ho fatto una riunione di sedici ore. Quanti anni ho? Ha senso?
Questa dev’essere la famosa vita di cui sentivo parlare gli adulti: ci siamo staccati dalle alghe, ci siamo distinti dai rettili, abbiamo acquisito forma di mammifero, voluto il fuoco, lavorato i metalli, piegato la materia, usato la natura per arrivare a discutere sedici ore di un detersivo».

Il lancio di un banale detersivo per pavimenti è il pretesto per fotografare satiricamente dinamiche ben note a chiunque abbia frequentato un’agenzia di comunicazione: i rimpalli tra committenti ed esecutori, i soprusi a cascata verso i subordinati, l’approssimazione, lo scaricabarile, l’isteria che precede ogni scadenza, i superconsulenti strapagati che si eclissano dopo aver aggravato i problemi che erano stati chiamati a risolvere. E poi le chiacchiere, le pause pranzo e le fantasie da scrivania, quelle che aiutano a non impazzire. Come l’impiegato che per sopravvivere immagina l’ufficio come una gigantesca stampante dalla quale fuoriesce lentissimamente una banconota: lo stipendio della giornata.

«Otto ore per 15,6 cm di banconota. Vuol dire circa due centimetri all’ora o più precisamente 0,0000195 km/h. E allo scoccare delle sei di sera, la banconota fa l’ultimo mezzo millesimo di millimetro, è tutta fuori, è libera, è mia. La prendo e me la metto in tasca. E domani ancora. E domani ancora. E così per sempre».

Al netto di alcuni segni del tempo (tutto succede in lire, le comunicazione urgenti vengono inviate via fax, sulla famosa banconota c’è il volto di Caravaggio) il libro non ha perso un grammo della sua efficacia satirica, anzi oggi potrebbe divertire un pubblico molto più ampio; in fondo negli anni Novanta la comunicazione era ancora un settore ristretto e privilegiato, mentre oggi più o meno ci siamo tutti dentro e in quelle situazioni, paradossali ma non troppo, possiamo comodamente specchiarci. Perché tutti noi lavoratori della comunicazione, almeno una volta nella vita, abbiamo avuto la nostra Variante limone: un incarico dalla massima priorità che non interessava a nessuno, inutile e insieme urgentissimo, al quale abbiamo dedicato tempo ed energie, tonnellate di debrief e rework per poi vedere tutto dissolversi in un secondo.

Non c’è da meravigliarsi se il confine tra fiction e realtà ci sembra così sottile: il libro di Fontana non fa altro che ricordarci che siamo tutti, noi lavoratori della comunicazione, attori e spettatori di una gigantesca commedia, nella quale è obbligatorio reggere la parte (e guai a sbadigliare) performando a testa bassa tra un’insalatona e un ansiolitico. Almeno finché i soldi non finiranno per davvero.

Tag: lavoro
Stefano Andreoli
Stefano Andreoli

Romagnolo trapiantato a Milano, parla tutte le mattine dalle 7 alle 10 su Radio Monte Carlo, nel programma Bonjour bonjour. Come autore, ha scritto per alcuni tra i più grandi comici italiani tra i quali Roberto Benigni, Maurizio Crozza, Geppi Cucciari, Claudio Bisio, il mago Forest, Luca e Paolo, Edoardo Ferrario e Valerio Lundini. Insieme ad Alessandro Bonino ha creato il sito satirico Spinoza.it. Collabora da anni con La Settimana Enigmistica e altre riviste come autore di rebus, indovinelli ed enigmi.

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