Quanto ci ha impoverito l’inflazione?

Negli ultimi anni la perdita di potere d'acquisto è stata grossa soprattutto in Italia, e tutte le possibili soluzioni hanno dei rischi

Una protesta contro l'aumento del costo della vita, a Londra (Leon Neal/Getty Images)
Una protesta contro l'aumento del costo della vita, a Londra (Leon Neal/Getty Images)
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L’inflazione ha reso gli europei più poveri e le cose non torneranno come prima molto presto. La maggior parte dei fenomeni che l’hanno causata si è ormai esaurita, ma l’aumento dei prezzi è diventato persistente e svantaggia soprattutto chi ha redditi fissi, come i dipendenti e i pensionati: oggi con gli stessi soldi si possono fare o comprare meno cose e i risparmi sui conti correnti si sono svalutati.

Ci vorrà un po’ di tempo affinché i consumatori europei ritrovino il loro potere d’acquisto di prima della pandemia: è improbabile che i prezzi scenderanno ai livelli di prima, ma saranno i redditi a doversi adeguare al costo della vita. Il che implica che gli stipendi debbano gradualmente salire: può sembrare una soluzione ovvia, ma è un processo che rischia di alimentare ulteriori distorsioni e non è detto che le imprese saranno disposte ad adeguarsi molto presto.

Se le aziende aumentano gli stipendi è probabile che aumenteranno anche i prezzi dei beni e dei servizi che offrono per non perdere margini di guadagno. In questo modo viene però alimentata quella che in economia si chiama la “spirale prezzi-salari-prezzi”: se si aumentano i salari per compensare l’inflazione, questa di fatto non farà che crescere.

A livello sociale l’inflazione ha però delle conseguenze molto serie ed «è una questione che non ha grandi soluzioni» alternative all’aumento degli stipendi, spiega Andrea Garnero, economista dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico). Secondo gli ultimi dati rilasciati dall’OCSE, nel giro di un anno i salari reali sono diminuiti ovunque per effetto del carovita. Il salario reale misura quanti beni e servizi si possono comprare con il proprio reddito e tiene conto dell’inflazione. È diverso da quello che si vede ogni mese sulla busta paga, che è invece il salario nominale, ossia quanti euro sono pagati ogni mese al lavoratore. Se c’è inflazione i salari reali diminuiranno, a parità di salario nominale, perché con gli stessi soldi si potranno comprare o fare meno cose.

Le retribuzioni italiane sono quelle che hanno subìto una delle maggiori riduzioni del potere di acquisto: in un anno i salari reali sono scesi del 7,3 per cento, nonostante in media le buste paga siano aumentate dell’1,6 per cento. Altri paesi hanno registrato invece variazioni più contenute dei salari reali, anche grazie ad aumenti più sostanziali di quelli nominali: in Germania si sono ridotti del 3,3 per cento, a fronte di un aumento delle buste paga del 5 per cento; in Francia sono scesi dell’1,8 per cento, contro un aumento dei salari nominali del 4,2 per cento.

Nella maggior parte dei paesi, il potere di acquisto dei salari è anche inferiore rispetto a prima della pandemia: i rincari erano già iniziati prima della guerra in Ucraina per tutta una serie di conseguenze della pandemia, come il blocco dei porti, le materie prime che non si trovavano e via così. Rispetto alla fine del 2019 in Italia i salari reali si sono ridotti del 7,5 per cento, nonostante l’aumento delle buste paga dell’8 per cento. Al contrario, paesi come il Regno Unito e la Francia hanno complessivamente registrato aumenti sia per i salari reali che per quelli nominali, pari rispettivamente all’1,9 e all’1,5 per cento per i salari reali e al 17 e al 10,6 per cento per quelli nominali.

C’è da dire che già da prima della pandemia i redditi degli abitanti europei non crescevano poi molto, soprattutto quelli italiani.

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Per far fronte al costo sociale dell’inflazione, le aziende dovrebbero dunque aumentare gli stipendi. Spiega Garnero che per la maggior parte dei casi questi aumenti passeranno attraverso i rinnovi dei cosiddetti contratti collettivi, ossia contratti standard diffusissimi in tutta Europa e negoziati a livello nazionale dai sindacati, le organizzazioni che rappresentano i lavoratori, e dalle associazioni datoriali, che rappresentano le aziende. Questi contratti stabiliscono per i vari settori le condizioni di base del rapporto di lavoro, come le retribuzioni minime e durano per un periodo prestabilito, solitamente qualche anno.

In Italia il rinnovo dei contratti è spesso un problema e ci sono tantissimi ritardi: circa il 50 per cento dei lavoratori oggi lavora con un contratto collettivo scaduto da almeno due anni, con la conseguenza che i salari crescono pochissimo nel tempo: secondo Garnero una delle cause è che i sindacati italiani non hanno lo stesso potere di quelli degli altri paesi.

Comunque complessivamente in Europa «qualcosa sta già succedendo, con le rinegoziazioni dei contratti collettivi hanno ripreso a salire i salari, mentre l’inflazione scende. Bisogna capire se questo sarà sufficiente a fermare la perdita del potere d’acquisto e se e come si recupererà quello perso nel frattempo», spiega Garnero. È probabile che ci vorranno diversi anni. Secondo Garnero la questione ha due possibili soluzioni. Se si vuole fermare prima l’inflazione gli stipendi non dovrebbero aumentare affatto, perché così l’economia rallenterebbe prima e i prezzi smetterebbero di salire: questa soluzione però ha un costo sociale enorme. Se invece si vuole via via affrontare la perdita di potere d’acquisto dei lavoratori allora si può far salire gli stipendi gradualmente, al costo di una spirale prezzi-salari-prezzi, che implicherebbe dover sopportare l’inflazione ancora per un po’.

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Per mitigare questo effetto distorsivo «a un aumento dei salari dovrebbe corrispondere una compressione dei profitti delle aziende» spiega Leonzio Rizzo, professore di Scienza delle finanze all’Università di Ferrara. Le aziende dovrebbero scegliere di aumentare gli stipendi e di non riversare questo aumento sui prezzi, erodendo così i propri guadagni, ma «il problema è come far sì che accada, non è una cosa che si può imporre per legge».

Un meccanismo che potrebbe agire su questo fronte è il mercato. Spiega Rizzo che negli ultimi due anni gli aumenti dei prezzi sono stati più persistenti perché c’erano molti soldi in giro: le famiglie avevano risparmiato nel periodo della pandemia, in cui si era chiusi in casa e non si poteva spendere, e i governi e le banche centrali hanno messo in circolazione molta liquidità. I consumatori sono stati sostanzialmente meno sensibili ad aumenti di prezzo e le aziende hanno potuto aumentare i prezzi senza temere un calo delle vendite, ottenendo così grandi profitti. «Ci sono quindi dei margini per aumentare i salari senza far salire i prezzi, rosicchiando un po’ i profitti delle aziende», spiega Garnero, ma «in Italia questo margine c’è di meno».

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Le cose oggi sono però molto diverse. L’aumento del costo della vita ha svalutato i risparmi delle famiglie e ridotto i redditi. Il costante rialzo dei tassi di interesse sta progressivamente rallentando l’economia e alcuni paesi sono già in recessione, come la Germania e l’area dei paesi dell’euro. È probabile che anche in caso di aumenti delle retribuzioni le aziende non avranno più molto margine per alzare ulteriormente i prezzi senza compromettere le vendite: gradualmente quindi le retribuzioni riusciranno a recuperare il nuovo livello del costo della vita e i prezzi smetteranno di salire.

«Non sono però così convinto che le imprese e gli autonomi siano disposti a rinunciare a una quota dei ricavi che si sono garantiti in questi anni», dice Rizzo, secondo cui una soluzione potrebbe essere agevolare la concorrenza: se ci sono tante aziende in competizione tra loro è probabile che nessuna di loro abbia un incentivo ad aumentare troppo i prezzi, perché in tal caso perderebbe quote di mercato a favore delle altre.

Questo non avviene nei settori molto concentrati, in cui le aziende sul mercato sono poche: per esempio se nel settore dei pannolini c’è solo un’azienda, questa sarà libera di vendere i propri prodotti al prezzo che preferisce, tanto ci sarà sempre chi glieli comprerà; se anche ce ne fossero due avrebbero comunque il potere di imporre i prezzi che preferiscono; con l’aumento delle imprese in gioco questo potere si riduce gradualmente e si sposta ai consumatori, che sono liberi di scegliere quale marca preferiscono.

Le riforme della concorrenza sono però complesse ed è piuttosto laborioso introdurle perché ci sono molti interessi in gioco, soprattutto quelli delle categorie che perderebbero mercato: basta pensare alle difficoltà che in Italia trova il processo di liberalizzazione del settore dei taxi.

Tutte le stime che misurano la perdita del potere d’acquisto e tutti i ragionamenti che si fanno sull’inflazione si basano sui dati dei lavoratori dipendenti, sia perché i loro sono i redditi più immediati da calcolare sia perché l’inflazione danneggia di più chi riceve una somma fissa.

Non si può sapere se questi impatti ci siano stati anche per i lavoratori autonomi, che in linea di massima sono liberi di stabilire il proprio guadagno: è improbabile che le cose siano cambiate molto per i commercianti, che nella maggior parte dei casi hanno venduto semplicemente a prezzo più alto la merce; potrebbe esserci stato un impatto per i professionisti – come per esempio avvocati o commercialisti – che non è detto che abbiano tutta questa libertà di alzare liberamente le parcelle senza perdere clienti; sicuramente ci sarà stato un impatto per i cosiddetti “finti autonomi”, cioè persone inquadrate da autonomi ma che svolgono lavori di fatto da dipendenti, e che probabilmente hanno subìto la stessa perdita dei lavoratori dipendenti. Non esistono però studi e stime a riguardo.

– Ascolta Globo: Quello che non sapete dell’inflazione, con Stefano Feltri