Il successo dell’espressione “nonluogo”

Introdotta nel 1992 dall’antropologo Marc Augé per descrivere spazi impersonali e alienanti, è entrata in poco tempo nel linguaggio comune

aeroporto Chicago Midway
Passeggeri in attesa all’aeroporto di Chicago Midway, il 26 maggio 2023, a Chicago (AP Photo/Charles Rex Arbogast)
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Nel 1992 l’antropologo francese Marc Augé, all’epoca studioso già affermato e direttore a Parigi di uno dei più prestigiosi istituti di ricerca in scienze sociali al mondo (l’École des Hautes Études en Sciences Sociales, EHESS), pubblicò un libro che conteneva già nel titolo l’espressione non-lieux, poi tradotta letteralmente un anno dopo nella prima edizione italiana del libro: Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, di cui seguirono diverse ristampe (la più recente nel 2018).

Tra le parole italiane tratte direttamente dalle scienze umane e poi diventate di uso comune quella coniata nel 1992 da Augé, morto il 24 luglio a 87 anni, è forse una delle più popolari.

Augé la utilizzò per descrivere e chiarire una profonda differenza tra gli spazi studiati in antropologia ed etnologia, luoghi definiti dalle relazioni sociali che si instaurano all’interno, e diversi spazi pubblici tipici della contemporaneità, definiti proprio dall’assenza di relazioni, e per questo nonluoghi: sostanzialmente luoghi di transito come centri commerciali, aeroporti, grandi catene alberghiere, strutture per il tempo libero e campi profughi. Dal 2003, come affermato dalla linguista italiana Valeria Della Valle, la parola “nonluogo” è rientrata dapprima in un dizionario dei neologismi e successivamente in tutti i vocabolari della lingua italiana, anche con il significato più letterale ma improprio di «luogo virtuale, metafisico o irreale, privo di effettivi riscontri nel mondo reale».

È difficile individuare tutti i fattori che in poco più di un decennio hanno reso il concetto di nonluogo così popolare, in particolare in Italia e in Spagna, non soltanto in ambito accademico ma nel linguaggio comune. Una ragione è con ogni probabilità la familiarità dello stesso Augé con la lunga tradizione italiana di studi antropologici e la sua frequentazione dell’Europa meridionale e dell’Italia a partire dagli anni Ottanta, dopo le ricerche in Africa e in Sud America.

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Le altre ragioni riguardano la precisione e il tempismo con cui la nozione di nonlughi permise in Italia di sintetizzare e rendere comprensibili nel dibattito pubblico, all’inizio degli anni Duemila, molti aspetti di un insieme complesso di processi allora molto discussi e in rapida espansione, dall’urbanizzazione alla globalizzazione, che sono alla base della definizione stessa. La popolarità dell’espressione nonluoghi fu inoltre favorita dalla sua trasversalità e versatilità in ambito accademico, che la rese una nozione al confine tra più discipline e adatta a riflessioni di vario genere fin dalla sua prima definizione.

Augé si rifece in parte ad alcune distinzioni note del Novecento, a cominciare da quella del filosofo francese Maurice Merleau-Ponty tra spazio «geometrico», eminentemente astratto, e spazio «antropologico», distinguibile dal primo in quanto luogo di una relazione con il mondo da parte di un essere che fa esperienza del proprio ambiente. Per Augé questo secondo tipo di spazio è propriamente un «luogo», e nello specifico un «luogo antropologico», perché dotato di un senso dato dalle relazioni, dai discorsi e dal linguaggio presenti al suo interno, non da rapporti spaziali astratti, univoci e stabili.

Sono luoghi di questo tipo le case, i quartieri, i villaggi e tutti i luoghi di incontro che, proprio in quanto luoghi di relazioni sia spaziali che sociali, sono anche «identitari» e «storici». Identitari perché ciascuno di essi, definendo un preciso «insieme di possibilità, di prescrizioni e di interdetti», definisce anche l’identità di chi ne fa parte. Augé fa l’esempio dell’onomastica africana, che in alcune comunità e in alcuni casi prevede che a un bambino o a una bambina che per qualche ragione nasca fuori dal villaggio sia attribuito un nome particolare ispirato a un elemento del paesaggio in cui è nato o è nata.

I luoghi antropologici sono inoltre «storici» perché, definendo identità e relazioni, definiscono necessariamente una stabilità minima nel tempo e un contesto i cui riferimenti sono riconosciuti dalle persone che vivono in quei luoghi. Al loro interno, scrive Augé, sono presenti segni che non richiedono di essere studiati da quelle persone, segni «che occorre saper coniugare o interpretare», legati a un tempo remoto ma che viene ciclicamente riattivato e rivissuto attraverso un preciso calendario rituale. Sono luoghi, da questo punto di vista, agli antipodi rispetto a quelli definiti negli anni Ottanta dallo storico francese Pierre Nora «luoghi della memoria» (monumenti ai caduti, musei e cimiteri, per esempio), in cui sostanzialmente non viviamo la storia ma apprendiamo la differenza tra ciò che è e ciò che non è più.

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Ai luoghi antropologici Augé contrappone luoghi che non sono né identitari, né relazionali, né storici: i «nonluoghi». In concreto sono spazi destinati perlopiù alla circolazione, al consumo e alla comunicazione, spesso collocati fuori dai centri urbani: aeroporti, stazioni ferroviarie, centri commerciali, supermercati, alberghi, stazioni di servizio, impianti sportivi, villaggi turistici, ma anche campi di accoglienza per profughi. Come più volte chiarito da Augé non esistono luoghi e nonluoghi in senso assoluto, ma è chiaramente più improbabile che in luoghi di passaggio per definizione come aeroporti e stazioni possano esistere segni di legami sociali e storia collettiva.

«La coppia luogo/nonluogo è uno strumento di misura del grado di socialità e di simbolizzazione di un dato spazio», scrisse nel 2009 in una prefazione a una riedizione del libro del 1992. Spazi che sono nonluoghi per alcune persone possono inoltre essere luoghi antropologici per altre, e viceversa: andare ogni giorno a lavorare in un aeroporto definisce un’esperienza del tempo e dello spazio completamente diversa da chi va in aeroporto per prendere un volo.

Un famoso film a volte citato per spiegare quanto uno spazio possa essere allo stesso tempo luogo per alcuni e nonluogo per altri è The Terminal, diretto da Steven Spielberg e interpretato da Tom Hanks. Uscito nel 2004, prese spunto dalla storia dell’iraniano Mehran Karimi Nasseri, morto il 12 novembre 2022, famoso per essere rimasto nell’aeroporto Charles de Gaulle di Parigi per 18 anni dopo essere stato espulso dal suo paese nel 1977. Nel film il protagonista Viktor riesce di fatto a creare relazioni sociali stabili con le sole persone per cui l’aeroporto è un luogo e non un nonluogo: quelle che ci lavorano.

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Augé descrisse i nonluoghi come spazi tipici della surmodernità: un altro neologismo da lui coniato in riferimento ai fenomeni sociali, intellettuali ed economici tipici dello sviluppo delle società occidentali alla fine del Novecento, in particolare il superamento della fase postindustriale e la diffusione della globalizzazione. E attribuì a questa nuova fase della modernità la caratteristica dell’“eccesso”: eccesso di avvenimenti che gli storici faticano a interpretare; eccesso di spazi facilmente raggiungibili o fruibili, in cui si moltiplicano i nonluoghi; ed eccesso di ego, cioè la tendenza delle persone a interpretare le informazioni a livello individuale e non sulla base di un significato definito a livello di gruppo.

Nel corso degli anni il concetto di nonluogo è stato spesso utilizzato come argomento di riflessioni pessimiste sul presente e critiche verso la contemporaneità, ma il più delle volte facendo riferimento a sistemi di valori mai citati da Augé nella definizione originale.

La proliferazione dei nonluoghi ha certamente conseguenze antropologiche rilevanti sulla costruzione dell’identità individuale e collettiva, secondo Augé, ma luoghi e nonluoghi non sono mai concepiti da lui come realtà alternative. E qualsiasi «spazio geometrico» può diventare «luogo antropologico» nella misura in cui accoglie e favorisce l’interazione sociale: considerazione peraltro diventata centrale in tempi più recenti anche in ambito architettonico e urbano, come mostrano nuovi approcci che hanno progressivamente ridotto la tendenza a costruire spazi molto omologati nella progettazione dei luoghi di passaggio.