Orgoglio, festa, protesta

«Il Pride di San Paolo mi ha emozionata, ma mi ha anche mostrato in modo chiaro e freddo le contraddizioni che parti del movimento evidenziano da anni. Così come negli Stati Uniti abbondano i casi di corporation che si allineano pubblicamente con la comunità soltanto per poi sponsorizzare le campagne elettorali di politici repubblicani retrogradi, a San Paolo mi fanno notare che l’ufficio del turismo della città dà il proprio appoggio formale sia al Pride che alla Marcia per Gesù»

Un momento della Parada do Orgulho LGBT+ di San Paolo, Brasile. Domenica 11 giugno 2023 (AP Photo/Tuane Fernandes)
Un momento della Parada do Orgulho LGBT+ di San Paolo, Brasile. Domenica 11 giugno 2023 (AP Photo/Tuane Fernandes)

In un angolo di Praça José Molina, una piccola rotonda nel centro di San Paolo, c’è un ragazzo che si cambia. È emerso dalla metro con dei jeans e una felpa col cappuccio, palesemente inadatti ai 25 gradi che si respirano nella città più grande del Brasile (e dell’intero continente americano). Ora se li leva in fretta, cacciandoli in uno zaino aperto sul marciapiedi. I jeans nascondono dei pantaloncini cortissimi, argentati. Sotto la felpa, invece, porta una canottiera di rete nera. Se sembra che stia per andare a una festa, è proprio così. È l’11 giugno, e a due passi da lì sta per cominciare l’evento a cui senza dubbio stiamo andando entrambi: la Parada do Orgulho LGBT+ de Sao Paulo, ovvero il Pride più grande del mondo.

Da anni la Parada do Orgulho LGBT+ di San Paolo non tiene più conto di quanta gente attira, anche perché sapere esattamente quanta gente c’è a una marcia che attraversa chilometri e chilometri di centro città in un flusso caotico e altalenante è praticamente impossibile. Quando le è stato conferito il Guinness dei Primati nel 2007, però, i partecipanti erano tre milioni: più degli abitanti di Roma; poco meno di quaranta volte la gente che sta in uno stadio come San Siro; dieci volte il numero di manifestanti a Genova durante il G8 del 2001. Un successo inimmaginabile per chi, poco più di cinquant’anni fa, diede inizio al movimento.

Il primo Pride fu una rivolta: quella di un gruppo di persone omosessuali e transessuali che il 28 giugno 1969 si scontrarono con la polizia di New York allo Stonewall Inn, uno dei più noti locali gay di Manhattan, stanche dell’ennesimo caso di intimidazione e violenza gratuita. L’omosessualità era considerata ufficialmente una malattia mentale dal Manuale diagnostico e statistico dell’Associazione statunitense di psichiatria, e così sarebbe rimasta fino al 1973. L’anno seguente, messo davanti alla richiesta di un permesso per tenere un corteo per ricordare i moti di Stonewall, il capo della polizia di Los Angeles disse a uno degli organizzatori che dal suo punto di vista, «permettere a un branco di omosessuali di sfilare lungo l’Hollywood Boulevard sarebbe stato come dare il permesso a un gruppo di ladri e rapinatori».

Dai primi anni Duemila, in omaggio ai moti di Stonewall, giugno per la comunità LGBTQ+ è il “pride month” (“mese dell’orgoglio” in italiano), mese durante il quale molte città del mondo organizzano marce per celebrare l’esistenza, l’accettazione e la lotta per i diritti delle persone gay, lesbiche, bisessuali, transessuali, intersessuali e queer. In alcune città queste manifestazioni sono spuntate da poco, spesso sfidando leggi e governi ancora molto ostili alla comunità LGBTQ+. In altre esistono da decenni e coinvolgono milioni di persone, nonché montagne di investimenti da parte di aziende e istituzioni.

Anche per questo da anni nella comunità, a New York come a Berlino, a Londra come a Parigi, imperversa un dibattito sul fatto che manifestazioni un tempo apertamente radicali oggi siano state istituzionalizzate e sponsorizzate lautamente da grandi aziende, forse al punto da snaturarne il senso. Il tema è riemerso anche a Milano negli ultimi giorni, dato che molti partecipanti hanno avuto la sensazione che al Pride del 24 giugno le aziende fossero molto più presenti e visibili del solito con carri all’interno del corteo.

Il Pride di San Paolo in Brasile è il più grande del mondo (AP Photo/Tuane Fernandes)

A San Paolo a sfilare sono diciannove carri elettrici, disposti in fila a comporre lo scheletro del corteo: su alcuni sono stampati i nomi delle grandi aziende che sponsorizzano la parata, in modo però molto più sobrio rispetto a quel che si è visto a Milano. Percorrono uno dietro l’altro l’Avenida Paulista, centro del potere economico e politico di San Paolo nonché sede di quasi tutte le proteste politiche che si sono tenute nella città nell’ultimo secolo: a marciarvi attorno quest’anno, secondo le stime non ufficiali, eravamo quattro milioni.

“Marciare”, però, è forse la parola sbagliata. Il Pride di San Paolo, più di qualsiasi altro a cui sia mai stata negli ultimi dieci anni, è da considerarsi soprattutto una festa. Gran parte della folla è vestita come a un festival musicale, con accessori arcobaleno o a torso nudo, trucco sbrilluccicoso e vestitini di qualsiasi stile e lunghezza, e nessuno è fuori luogo. Dai carri elettrici si esibiscono alcuni dei cantanti e dei performer più amati del paese: parte del gioco è decidere accanto a quale carro stare per poter seguire un piccolo spettacolo del proprio artista preferito. La gente balla, avvolta spesso e volentieri da bandiere vendute a ogni angolo da ambulanti agguerriti ma sorridenti. Accetta un cappellino con frontino arcobaleno offerto da Starbucks o una corona di cartoncino arcobaleno di Burger King. Ondeggia, sospinta da una massa inesorabile e leggermente claustrofobica di persone. Limona, tantissimo. Si ferma a comprare una birretta per distrarsi dal calore che alle due del pomeriggio, in una calca del genere, è al limite del tollerabile. Poi torna a ballare: It’s Raining Men e YMCA, Lady Gaga e Britney Spears, ma anche techno e un quantitativo di reggaeton di molto superiore al limite consigliato dall’Organizzazione mondiale della sanità.

È importante sottolinearlo: le rivendicazioni politiche non sono del tutto assenti. Ogni anno, l’organizzazione sceglie un tema su cui concentrare l’attenzione, stampato su carri, manifesti, magliette e post sui social. L’anno scorso, in vista delle elezioni presidenziali, era «Vote com orgulho – por uma política que representa». Quest’anno è «Políticas Sociais para LGBT+ – Queremos por inteiro e não pela metade» (“Politiche sociali per le persone LGBT+ – Le vogliamo per intero, e per tutti”): è una critica al fatto che gran parte dei diritti ottenuti dalla comunità negli ultimi anni sia stata guadagnata grazie a decisioni giudiziarie, e non attraverso politiche pubbliche discusse e approvate dal parlamento. Qui e lì si alza un coro contro Bolsonaro, che durante la propria presidenza ha più volte espresso il proprio disprezzo nei confronti della comunità. Dai carri, tra un’esibizione e l’altra, attivistə e rappresentanti di varie associazioni tengono brevi discorsi sulle condizioni in cui versa la comunità: il Brasile è d’altronde uno dei paesi con il più alto tasso di violenza nei confronti delle persone LGBTQ+ (e in particolare le persone trans) al mondo. Dei cartelli e striscioni spudorati, sfacciati, impertinenti che sono un caposaldo di tutti i Pride a cui sono stata finora, però, non c’è nemmeno l’ombra. Chiedo a un amico brasiliano se sia normale, e quasi mi ride in faccia: «Pensavo che sapessi di andare a una festa», mi dice.

Questo è il punto della storia in cui mi fermo ad ammettere che prima di quella sera un po’ appiccicaticcia a San Paolo non mi ero mai messa seriamente a riflettere su che cosa voglia dire, per me, manifestare. La mia educazione politica, come quella di tantissimi miei coetanei, è passata più dall’esposizione a meme e discussioni progressivamente più radicali sui social network che da rigorose scuole di partito. Un po’ per questo, un po’ perché come tanti altri fatico a non vivere la politica con un senso di impotenza e straniamento, sento un po’ ingenuamente che per me è politica qualsiasi situazione in cui ci si metta pubblicamente la faccia e ci si accorga di non essere soli. In cui ci si trovi circondati di persone in carne e ossa – non bot, rettiliani, automi pagati da Soros – a tracciare la linea di ciò che per noi è accettabile o meno. Che sia un Pride, un Otto Marzo, un Venticinque Aprile. Ancora meglio se c’è da ballare.

(AP Photo/Tuane Fernandes)

Per questo, il Pride di San Paolo mi ha emozionata. Ma mi ha anche mostrato in modo più chiaro e freddo che mai le contraddizioni che parti del movimento evidenziano da anni. Così come negli Stati Uniti abbondano i casi di corporation che si allineano pubblicamente con la comunità soltanto per poi sponsorizzare le campagne elettorali di politici repubblicani dalle idee estremamente retrograde in materia, a San Paolo mi fanno notare che l’ufficio del turismo della città dà il proprio appoggio formale – arrivando ad assoldare centinaia di persone per aiutare eventuali turisti in difficoltà durante la parata – sia al Pride che alla Marcia per Gesù, gigantesco evento ultracattolico che riunisce centinaia di migliaia di fedeli nelle stesse strade percorse dalla Parada do Orgulho LGBT+. Quest’anno si è tenuta la domenica precedente.

Il supporto di aziende e istituzioni è percepito da parti della comunità – a ragione – come tutt’altro che disinteressato: soltanto per rimanere a San Paolo, già nel 2017 Ian Lamond, uomo bisessuale e professore dell’Università di Leeds, sottolineava come l’ufficio del turismo di San Paolo promuovesse la parata come uno dei principali eventi culturali della città a finalità principalmente economiche. «L’attivismo è visto come una parte dell’offerta culturale della città», scrive Lamond. «Le autorità vogliono inquadrare San Paolo come destinazione per i turisti LGBT. Una recente campagna rivolta alla comunità LGBT evidenzia l’importanza di attirare in Brasile le coppie di lavoratori senza figli, percepite come un mercato chiave. (…) Eppure, l’omofobia dei membri della destra cristiana evangelica nel parlamento brasiliano e il fatto che il paese sia tra i primi al mondo per quanto riguarda gli omicidi di persone LGBT contrasta nettamente con il desiderio delle autorità turistiche del paese di vendersi come un posto accogliente per queste persone».

La principale preoccupazione di Lamond e delle persone che, come lui, criticano la commercializzazione dei Pride è che l’interferenza di aziende e istituzioni finisca per svuotare la manifestazione della propria carica politica in un momento in cui le destre sono particolarmente ostili nei confronti della comunità. Dal basso sono spuntate così una miriade di manifestazioni alternative, spesso totalmente prive di sponsor. Nelle principali città italiane sono nati diversi cortei alternativi organizzati da movimenti, associazioni e collettivi che non si riconoscono più nei pride ufficiali, tra cui la Marciona di Milano e il Priot di Roma. A San Paolo, il giorno prima del Pride più grande del mondo c’è stata una marcia per celebrare specificatamente le persone trans, senza dubbio tra le più vulnerabili della comunità. Ricordo con particolare affetto una piccola marcia in cui mi sono imbattuta a Berlino, l’estate scorsa: lo striscione in cima al corteo diceva «fuck rainbow washing, pride was a riot». L’atmosfera era festosa, ma battagliera.

Le risposte a questa critica sono varie. Alcune nascono senza dubbio dal fatto che a una fetta non trascurabile di chi i Pride li frequenta assiduamente la possibilità di partecipare soltanto a una festa non crea alcun problema: esistono persone LGBTQ+ fortemente disinteressate alla politica o che non condividono gran parte delle rivendicazioni a cui è associato il movimento. Altre risposte sono però a mio avviso molto valide. Uno degli organizzatori del Pride di San Paolo, Luiz De França, mi spiegava per esempio che il fatto di poter contare su sponsor privati e non pubblici permette all’organizzazione di stare tranquilla rispetto alla possibilità che al governo salgano di nuovo personaggi ostili ai diritti LGBTQ+.

L’obiezione a cui sono più legata me l’hanno però espressa parallelamente due attivisti brasiliani con cui ho parlato della mia esperienza con il Pride di San Paolo: in un paese in cui quasi la metà del parlamento risponde a un uomo secondo cui «l’agenda LGBT sta distruggendo la famiglia», è la propria esistenza pubblica stessa che continua a essere politica.

Il primo a ricordarmelo è Matheus Gonçalves, parte del collettivo LGBT Comunista, tra i pochi gruppi a sollevare attivamente la questione della commercializzazione della parata. «Certo, oggi la sfilata è soprattutto un evento turistico: è una delle più grandi al mondo, è organizzata con l’aiuto delle istituzioni locali e dello Stato», mi dice. «Ma tra le persone LGBTQ+ che vivono quotidianamente a San Paolo c’è tanta gente marginalizzata, che vive per strada o nelle periferie. Il Pride è un momento in cui anche loro possono venire a occupare il centro della città, a mostrare di non essere minacce, a celebrare la propria esistenza. Non siamo qui solo per fare festa: siamo qui anche per protestare visibilmente contro un processo di violenza che ci getta ai margini della società».

«Anche la festa e la celebrazione vanno intese come atto politico del movimento LGBTQ+», mi dice invece Giovanni Colau, consigliere di sinistra in uno stato storicamente conservatore, il Rio Grande do Sul. «Il primo Pride è stato una rivolta proprio contro la repressione poliziesca degli spazi di festa, svago e movida LGBTQ+. Quindi occupare le strade di una città come San Paolo, con 4 milioni di persone che festeggiano e vibrano insieme, ci ricollega all’origine del Pride: lottare per il diritto di fraternizzare, vivere, essere ciò che si è. Per alcuni è una rivendicazione cosciente, per altri meno: ma uscire a festeggiare, baciarsi sulla bocca, ballare per le strade di San Paolo, esistere pubblicamente è un grande atto politico».

Viola Stefanello
Viola Stefanello

È nata in provincia di Padova e ha vissuto a Gorizia, Parigi e Roma prima di cedere a Milano. Ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche prima, Giornalismo e diritti umani poi, ma scrive spesso di “cose da nerd”. Prima del Post ha scritto su Repubblica, Internazionale e altre testate. Passa molto tempo online.

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