L’amministrazione di sostegno non funziona come dovrebbe

È lo strumento che permette di affidare a terzi la gestione della vita e del patrimonio delle persone non autonome, ma ha diversi problemi

di Isaia Invernizzi

un anziano che cammina
(AP Photo/Alvaro Barrientos)
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Quando nel 2004 il parlamento approvò la legge 6 che introdusse l’amministrazione di sostegno, le associazioni che si occupano dei diritti delle persone in ambito psichiatrico e giuridico dissero di essere molto soddisfatte. Psichiatri, psicologi, esperti di diritto e di inclusione sociale si confrontarono a lungo per definire le regole contenute nella legge, pensata per assistere e tutelare le persone non in grado di provvedere ai propri interessi, non autonome in modo definitivo o temporaneo. Come chi ha disturbi psichiatrici, ma anche anziani, persone con disabilità, pazienti affetti da malattie degenerative o in fase terminale, in coma e in stato vegetativo. 

La legge per prima cosa introdusse la figura dell’amministratore di sostegno, chiamato ad assistere le persone che ne hanno bisogno. L’amministratore di sostegno viene nominato dal tribunale, da un giudice chiamato tutelare, e provvede ad alcune esigenze quotidiane della persona come la gestione delle sue cure e del suo patrimonio, della casa in cui vive, assicurando ascolto costante nel rispetto delle sue volontà. I giudici dovrebbero preferire la nomina di un familiare, anche se negli ultimi anni è aumentato il ricorso ad amministratori di sostegno estranei alla famiglia, come avvocati e commercialisti. Questa tendenza dipende dalla sproporzione tra il numero di giudici tutelari, pochi, e le pratiche da seguire, molte. 

Negli ultimi anni sono aumentate anche le denunce presentate dai beneficiari o dai loro familiari: tra gli altri, sono emersi casi di persone sottoposte all’amministrazione di sostegno contro la loro volontà o addirittura a loro insaputa. L’aumento delle denunce ha portato molti addetti ai lavori e persone coinvolte nel sistema dell’amministrazione di sostegno a interrogarsi sull’efficacia della legge 6. Ne è nato un dibattito tra esperti che difendono i principi della legge e chi invece sostiene che siano necessarie modifiche per adattare le norme e risolvere i problemi. Anche se con diverse sfumature intermedie, quasi tutti però sono concordi nel sostenere che sia una buona legge che non sta funzionando come dovrebbe. 

L’amministrazione di sostegno fu introdotta come uno strumento flessibile e adattabile alle necessità di ogni persona. L’articolo 1 dice che la legge «ha la la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente». L’affiancamento di un amministratore di sostegno può essere chiesto dagli stessi beneficiari, dal coniuge o dal convivente, dai parenti entro il quarto grado, dai pubblici ministeri e dai servizi sociali. La nomina viene gestita dal giudice tutelare, che deve scegliere l’amministratore di sostegno «con esclusivo riguardo alla cura e agli interessi della persona beneficiaria». Significa che i giudici devono ascoltare con attenzione i beneficiari e prediligere le loro volontà. Secondo la legge, va preferita la nomina di un coniuge, di una persona stabilmente convivente o comunque di un parente. Soltanto in presenza di gravi motivi il giudice può nominare un soggetto terzo di propria fiducia, spesso un avvocato o un commercialista.

L’amministratore di sostegno ha il compito di assistere la persona nelle sue cure, per esempio nella scelta di trattamenti sanitari, nei rapporti con il personale medico e nella gestione di tutti gli aspetti relazionali e sociali della sua vita. L’amministratore inoltre cura il patrimonio del beneficiario con l’obiettivo di conservarlo per soddisfare le necessità ordinarie come l’acquisto del cibo e dei medicinali, il pagamento delle tasse e delle utenze. La legge dice che l’amministratore di sostegno è chiamato a svolgere il suo ruolo gratuitamente, tuttavia nel caso in cui l’amministratore sia un soggetto estraneo alla famiglia è possibile il riconoscimento di un’indennità calcolata sulla base del patrimonio e della difficoltà nell’amministrarlo.

Ma la gestione dell’amministrazione di sostegno è molto complessa per i giudici tutelari, a cui è richiesto di seguire costantemente le richieste dei beneficiari che hanno il diritto di esprimere la loro volontà e farla valere. Ogni pratica può richiedere moltissimi decisioni e atti, quindi è complicato avere dati precisi sul lavoro richiesto ai giudici tutelari: secondo il ministero della Giustizia, tra il 2020 e il 2021 sono state aperte 48.639 procedure di amministrazione di sostegno, che si sono aggiunte alle 299.163 già in vigore. In totale – e il dato corrisponde alle stime fatte da diversi esperti – in Italia sono circa 350mila le persone che hanno un amministratore di sostegno.

Paolo Cendon, professore ordinario di diritto privato all’università di Trieste, è chiamato “il padre dell’amministrazione di sostegno” perché la legge si basa per la maggior parte sul suo lavoro ventennale su questo tema. Non si aspettava che in pochi anni si raggiungesse il numero di 350mila beneficiari, un numero difficile da gestire perché ogni caso è diverso dall’altro.

Idealmente, spiega Cendon, tutte le amministrazioni di sostegno dovrebbero seguire il modello utilizzato per le persone con disabilità: i giudici hanno pochi dubbi sulla necessità di un aiuto e gli amministratori, quasi sempre parenti, accompagnano i beneficiari nella loro vita quotidiana con estrema attenzione e cura in un contesto in cui è garantita libertà all’individuo. Le difficoltà emergono quando le condizioni non sono tali da poter dire con certezza se sia necessario un sostegno, oppure nei casi di malattie e dipendenze. «È giusto insistere affinché una persona con disabilità, poco autosufficiente e non a rischio, venga aiutata dal giudice tutelare o dall’amministratore di sostegno a fare tutto quello che desidera al mondo», spiega Cendon. «Ma tutto ciò non vuol dire che la stessa linea dovrà valere rispetto alle decine di migliaia di fragili autodistruttivi, ossia rispetto a coloro che minacciano di fare cose palesemente a danno di sé stessi o dei loro cari, o minacciano di non fare cose assolutamente indispensabili per la loro salute».

Per questo ogni amministrazione di sostegno deve essere valutata in modo molto approfondito attraverso una combinazione tra i vari gradi di autonomia, diversa per ogni beneficiario. Quando una persona fa del male a sé stessa deve essere applicato per esempio il principio di solidarietà: non lasciare solo chi soffre, chi non ce la fa. Deve essere valutato se il male è davvero un male, magari irreversibile, e quindi impedire alla persona di procurarselo senza dimenticare di ascoltarla.

Secondo Cendon la maggior parte delle amministrazioni giudiziarie aperte dai giudici rispetta questi principi, ma in molti casi c’è stata una “giuridicizzazione” della fragilità. Le pratiche vengono affrontate soltanto come un lavoro burocratico da svolgere. Molti decreti vengono firmati quasi in bianco, dopo un ascolto approssimativo dei beneficiari, e con un’eccessiva considerazione dei servizi sociali, che negli anni hanno scaricato sui giudici la gestione dei problemi. Con troppe pratiche da gestire, i giudici tutelari non sempre possono seguire tutti con attenzione. «Fanno quello che possono», dice Cendon. «Alcuni se ne fregano, ma secondo me sono eccezioni. La maggior parte agisce correttamente».

La conseguenza dell’eccessiva mole di lavoro dei giudici tutelari è un lavoro di nomina degli amministratori di sostegno poco accurato, spesso non rispettoso dei principi della legge 6. I giudici preferiscono nominare avvocati o commercialisti conosciuti, una soluzione veloce e poco impegnativa. Molti professionisti si ritrovano a gestire più beneficiari, in alcuni casi anche decine. In questa situazione è impensabile seguire una persona costantemente e con le dovute attenzioni e conoscenza del caso specifico. L’eccessiva concentrazione di beneficiari è al centro di molte denunce fatte da diverse associazioni che da tempo criticano l’applicazione distorta della legge 6.

L’UNASAM, unione nazionale delle associazioni per la salute mentale, per esempio sostiene che l’amministrazione di sostegno si sia trasformata in una sorta di una professione remunerata attraverso il pagamento della quota mensile stabilita dai giudici tutelari. Anche se teoricamente dovrebbe essere un compito svolto gratuitamente, spesso i giudici fissano un contributo economico che va da 250 a 300 euro al mese. Questa quota è a carico dei beneficiari anche nei casi in cui abbiano come uniche entrate economiche l’invalidità civile o l’indennità di accompagnamento.

Bruna Bellotti, presidente dell’associazione Diritti senza barriere, si batte per denunciare le storture dell’amministrazione di sostegno. Negli anni ha raccolto moltissime segnalazioni e denunce di beneficiari e familiari che hanno segnalato abusi nell’applicazione della legge. Diverse persone sono state poste sotto amministrazione di sostegno contro la loro volontà, senza essere ascoltate. In molti casi l’amministratore decide il trasferimento in residenze sanitarie, dove parenti e amici non possono entrare. «Dicono che la colpa è del fatto che i giudici tutelari sono sommersi di lavoro», dice Bellotti. «Se ogni giudice deve seguire costantemente 300 o 400 pratiche che richiedono un grosso lavoro è normale che la maggior parte sia seguita in malo modo. Il disinteresse o comunque le difficoltà dei giudici tutelari lasciano mano libera agli amministratori di sostegno, che agiscono senza controlli».

Bellotti è coinvolta personalmente in un caso. Era infatti stata nominata amministratrice di sostegno della sorella, di 69 anni, che ha una malattia mentale. Per assicurare alla sorella cure continue e una migliore assistenza, Bellotti aveva sottoposto al giudice tutelare diverse richieste di intervento dei servizi psichiatrici, mai prese in considerazione. Il tribunale aveva iniziato a interessarsi del suo caso in seguito a una sorta di sciopero delle rendicontazioni economiche, portato avanti per protesta da Bellotti. Dopo aver esaminato le pratiche e riscontrato la mancanza di rendicontazione, nel marzo del 2021 il giudice tutelare aveva nominato un nuovo amministratore, un avvocato esterno alla famiglia.

Da allora Bellotti ha continuato a occuparsi della sorella vigilando sull’operato del nuovo amministratore. «È una figura inesistente», spiega. «E per di più ha autorizzato un nuovo piano assistenziale di cura senza conoscere la persona malata e senza parlarci». Nel 2022 la sorella è stata trasferita in una struttura contro la volontà di Bellotti, con pochissime possibilità di uscire.

Una vicenda di cui hanno scritto diversi giornali locali toscani riguarda invece Dora Piarulli, una donna di 80 anni di Camaiore che lo scorso febbraio era stata trasferita in una residenza sanitaria dall’amministratore di sostegno esterno alla famiglia contro la sua volontà. Anche in questo caso la nomina di un esterno era arrivata dopo la rimozione di un familiare, la figlia Anna Estdahl. Il trasferimento nella residenza sanitaria era stato autorizzato dal tribunale. Il giudice aveva ritenuto che la volontà di Piarulli di vivere a casa sua fosse stata «inficiata dall’età avanzata», dal «decadimento cognitivo» e dall’influenza della figlia. «Se non mi mandano a casa, preferisco morire», aveva detto Piarulli al Corriere della Sera. Soltanto alla fine di marzo il tribunale di Lucca ha autorizzato la donna a tornare a casa. Per entrambi questi due casi non è stato possibile ricostruire le ragioni che hanno portato i giudici a nominare amministratori di sostegno esterni alla famiglia.

Molti abusi sono conclamati, mentre per molte altre vicende è complicato capire se l’allontanamento dalla famiglia deciso dai giudici sia una forma di tutela. Negli ultimi anni, come dimostrano alcuni casi piuttosto noti, le denunce e le rivendicazioni di familiari e conviventi hanno nascosto anche situazioni familiari difficili, conflitti per la gestione del patrimonio, tentativi di soggiogare la persona bisognosa di aiuto. E di conseguenza la nomina di amministratori estranei alla famiglia era effettivamente necessaria per proteggere i beneficiari.

Il dovere di riservatezza imposto ai giudici tutelari permette alle pretese dei familiari di emergere molto di più nel dibattito pubblico su questo tema, senza che sia davvero chiaro il processo decisionale che porta alla nomina dell’amministratore di sostegno. «O riteniamo che i giudici tutelari non siano capaci di controllare e verificare, ma non credo sia così, oppure dovremmo insistere nel potenziare la loro attività», dice Giuseppe Arconzo, professore di diritto costituzionale e docente di diritti delle persone con disabilità all’università Statale di Milano. «Ci sono moltissimi casi che funzionano in modo corretto, anzi sono la maggior parte, ma fanno meno rumore rispetto ai problemi. Il fatto è che i giudici tutelari hanno un compito delicatissimo e sono oberati di lavoro».

Una delle soluzioni, spiega Arconzo, sarebbe un’analisi accurata delle nomine a livello nazionale e regionale. Capire quale sia l’incidenza dell’amministrazione di sostegno sulla popolazione, quanto si ricorra alla nomina di amministratori esterni nei diversi territori. «In definitiva, cercare di capire se queste nomine siano motivate oppure no», dice Arconzo. «Non è un’analisi semplice soprattutto perché la legge stessa impone l’individualizzazione della misura, però è indispensabile controllare e nel caso ripensare il complesso sistema che ruota intorno al tema della disabilità e della fragilità».

L’ANFFAS, l’associazione nazionale di famiglie e persone con disabilità intellettive e disturbi del neurosviluppo, ha scritto ai ministri della Giustizia e delle Disabilità, Carlo Nordio e Alessandra Locatelli, per chiedere una riforma dell’amministrazione di sostegno. L’associazione si è appellata alle raccomandazioni fatte all’Italia dal comitato dell’ONU che si occupa di questi temi. Secondo la convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, del 2006, l’Italia dovrebbe abrogare tutte le leggi che «permettono la sostituzione nella presa di decisioni da parte dei tutori legali, compreso il meccanismo dell’amministratore di sostegno e gli istituti dell’interdizione e inabilitazione».

Più che un’abrogazione, le associazioni italiane che si occupano di diritti delle persone con disabilità chiedono una riforma dell’amministrazione di sostegno. In particolare l’UNASAM sostiene che sarebbe opportuno un accordo tra tribunali e associazioni di categoria per sottoscrivere linee guida o protocolli nazionali o territoriali con l’obiettivo di fissare regole e limiti legati alla gestione dei casi e risolvere almeno in parte le storture denunciate negli ultimi anni. Nella sua proposta di linee guida, l’associazione ha chiesto al ministero della Giustizia di imporre ai tribunali con più convinzione la nomina di amministratori di sostegno tra i familiari o i conviventi, di assicurare incarichi volontari e gratuiti, di definire un numero massimo di beneficiari per gli amministratori di sostegno, di rafforzare gli organici dei tribunali per sollevare i giudici tutelari dalla burocrazia e permettere loro di avere un rapporto più diretto con i beneficiari.