La Russia vuole rispondere alle sanzioni con le nazionalizzazioni

Lo minaccia da tempo e ora ci sono alcuni elementi concreti, ma non è ancora chiaro quanto il governo faccia sul serio

(Oleg Nikishin/Getty Images)
(Oleg Nikishin/Getty Images)
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Secondo il Financial Times il governo russo si starebbe preparando a nazionalizzare una serie di società occidentali presenti nel paese come ritorsione verso le sanzioni statunitensi ed europee. L’appropriazione delle aziende dovrebbe avvenire a quotazioni molto basse, praticamente stracciate, rispetto al reale valore di mercato, così da garantire un profitto per lo stato in caso di successiva vendita.

Il governo russo, ha scritto il Financial Times, starebbe preparando un decreto per le nazionalizzazioni, anche se non è ancora chiaro che portata potrebbe avere effettivamente: potrebbe anche rappresentare soltanto una minaccia verso i paesi occidentali che hanno bloccato i beni russi all’estero. Dmitri Peskov, il portavoce di Putin, ha detto che gli investitori e le società occidentali sono «più che benvenuti» in Russia, ma ha notato che in alcuni casi le aziende hanno smesso di pagare gli stipendi o che semplicemente hanno deciso di lasciare il paese con enormi perdite. «Se un’azienda non adempie ai propri obblighi, allora, ovviamente, rientra nella categoria delle aziende “cattive”», ha detto Peskov. «Diciamo addio a quelle aziende. E quello che facciamo con le loro risorse dopo è affar nostro».

In base agli attuali criteri della nazionalizzazione, annunciati per la prima volta a dicembre, le società occidentali sono tenute a concedere agli acquirenti russi uno sconto di almeno il 50 per cento del valore di mercato dell’azienda e a fornire una sorta di contributo “volontario” allo stato, compreso tra il 5 e il 10 per cento del prezzo dell’accordo, con cui negli ultimi mesi sono stati già incassati oltre 200 milioni di dollari.

Ad aprile la Russia aveva sequestrato i beni delle filiali locali della finlandese Fortum e della tedesca Uniper, entrambe aziende energetiche pubbliche, in risposta alle sanzioni occidentali. Il decreto del governo russo bloccava beni per 6 miliardi di dollari ed era specifico per queste due società. Nel decidere se espandere queste azioni ad altri gruppi occidentali, il governo monitorerà ciò che accade ai circa 300 miliardi di euro della banca centrale russa “congelati” in Occidente.

Oltre al motivo della ritorsione verso i paesi occidentali, ci sono anche alcune ragioni molto concrete per cui la Russia ha interesse a rilevare le aziende occidentali che sospetta possano lasciare il paese. C’è preoccupazione per il fatto che molti settori dell’economia attualmente presidiati da queste società potrebbero rimanere scoperti, soprattutto nell’ambito della manifattura e dei servizi.

In realtà non sono moltissime le aziende occidentali che hanno lasciato completamente la Russia: secondo uno studio solo il 9 per cento circa ha chiuso le proprie filiali e disinvestito del tutto. In particolare le società europee sono quelle che hanno lasciato il paese in percentuale minore (8,3 per cento) rispetto a quelle statunitensi (18 per cento).

In più il governo è anche preoccupato di perdere le entrate fiscali che queste aziende garantiscono, visto che le esportazioni di energia già sono in calo e che il governo deve continuare a finanziare la guerra.

Secondo il Financial Times, tra i funzionari russi più convinti del fatto che sia estremamente necessario limitare il deflusso delle aziende straniere anche a costo di nazionalizzarle o di minacciarle di farlo ci sarebbe anche Elvira Nabiullina, la governatrice della banca centrale russa, un’economista preparatissima e molto apprezzata anche in Occidente prima dell’invasione. La banca centrale teme che una fuoriuscita dal paese di capitali stranieri possa indebolire ulteriormente il rublo e limitare le opzioni per gli investitori russi, che si ritroverebbero con meno aziende su cui investire, per esempio in borsa.

Per questo il decreto preparato il governo richiederebbe anche alle nuove società straniere di destinare un quinto del proprio capitale alla quotazione in borsa, una mossa che sarebbe necessaria per dare ai piccoli investitori nazionali più opzioni.