La stasi e la fine dell’immaginazione

«La descrizione del Paese oscilla tra due dominanti assai diverse. La prima è quella del cambiamento, anche molto netto, degli stili di vita, nuove abitudini tecnologiche, alternarsi di leader salvifici che annunciano il cambiamento giusto e definitivo. L’altra dominante è quella del declino: l’Italia che peggiora, il rimpianto degli anni Sessanta e Settanta in cui esisteva una grande coscienza collettiva e si progettavano rivoluzioni, o degli anni Ottanta in cui l’economia cresceva. Ho un’impressione diversa: né cambiamento, né declino: ma un invincibile, costante e ubiquo immobilismo»

Barche in secca sul fiume Po asciutto per la siccità. Torricella, Cremona, 19 aprile 2023 (AP Photo/Luca Bruno)
Barche in secca sul fiume Po asciutto per la siccità. Torricella, Cremona, 19 aprile 2023 (AP Photo/Luca Bruno)

Dopo le ultime elezioni, passati vent’anni in cui è successa qualsiasi cosa, sembriamo essere tornati al via, con un robusto governo di centrodestra e un’opposizione litigiosa piena di moralismo e scarsa di politica. Detesto i luoghi comuni e dire che in Italia «non cambia mai niente» è uno dei peggiori. Cambiano un sacco di cose! E se non cambiano quelle che vorresti cambiassero, puoi sempre scrivere sul Post.

Però. Forse è solo l’incedere dell’età, ma gli elementi di continuità in Italia, anche minuti, a cui da dopo le elezioni ho cominciato a fare caso danno luogo a una lista estesissima. Mi rendo conto che questa osservazione possa dare l’impressione che io sia intento a spiegare l’acqua calda con stupore. Però se ci pensiamo, la descrizione del Paese a cui siamo abituati ha due dominanti assai diverse tra cui oscilla.

La prima è quella del cambiamento, e del cambiamento anche molto netto. Il cambiamento degli stili di vita, le nuove abitudini tecnologiche, la rivoluzione nel modo di articolarsi dell’opinione pubblica, le crisi dopo le quali «nulla sarà più come prima». Abbiamo quindi assistito a ripetute montagne russe di leader salvifici che durano solo qualche anno, e mantengono così viva quindi la retorica del cambiamento, ché quello di adesso è proprio quello giusto e definitivo e vero.

L’altra dominante del racconto è quella del declino. L’Italia che peggiora. Il rimpianto degli anni Sessanta e Settanta in cui esisteva una grande coscienza collettiva e si progettavano rivoluzioni. O degli anni Ottanta in cui l’economia cresceva e la piccola Italia superava i grandi, e ci si divertiva anche! Tutto comunque meglio rispetto a oggi: gli altri Paesi sono più ricchi di noi, ma anche più civili. Hanno leggi più avanzate sui diritti e sistemi di welfare più protettivi. Hanno sinistre, loro sì, capaci di farsi sentire. Per non parlare del rigore dei conservatori del nord Europa, altro che la nostra destra statalista. Naturalmente i nostri populisti sono i peggiori, specchio di un elettorato stupido e ignorante, reso manipolabile dall’analfabetismo di ritorno. Quest’ultimo è sempre presentato come il dato definitivo, la prova indiscutibile (per quanto risibile e fragile, a ben guardare, ma qui sto parlando d’altro) che dimostrerebbe, appunto, il declino.

Ho un’impressione diversa: né cambiamento, né declino: ma una invincibile, costante e ubiqua continuità, stabilità, immobilismo. Le cose che contano, quelle che ne determinano altre, la dominante vera: l’odiato luogo comune.

Nel 1996 usciva un libro che fece un po’ di rumore, e che prendo in prestito per mostrare, piuttosto che spiegare con noiose statistiche, quel che intendo. Era il 1996 (retorica del cambiamento: «Era un altro mondo!»), Internet appena arrivato praticamente vuoto, niente telefonini, niente social, Prodi-Berlusconi. L’autore era un ragazzo che si chiamava Giuliano Da Empoli – si chiama ancora così ma naturalmente non è più un ragazzo – che studiava giurisprudenza a Roma. Il libro si intitolava Un grande futuro dietro di noi, edito da Marsilio. Gad Lerner incrociò il libro, ne scrisse un editoriale che generò un meccanismo di causa-effetto oggi impensabile: Da Empoli divenne il giovane alla moda, invitato ovunque, molte pacche sulle spalle: «Quanto hai ragione!».

Tuttavia, alle pacche sulle spalle non corrisposero grandi consapevolezze. Al netto dei riferimenti ai fatti di quegli anni e di qualche ingenuità nelle proposte (per fortuna, dato che aveva 23 anni), il libro sosteneva una duplice tesi: primo, il sistema politico italiano scarica i costi dei suoi problemi sulle generazioni più giovani, su cui non investe affatto anzi disinveste, e che ne rimangono schiacciate. Secondo: questo accade perché i partiti del dopo Tangentopoli hanno perso la capacità di sviluppare politiche complesse e di lungo periodo, concentrati, come sono, solo sul presente e sul consenso di breve periodo. A ben guardare sono due sintesi utili per raccontare sia cosa è successo negli ultimi venticinque anni, che cosa succede anche oggi. Con una differenza: i giovani di cui parlava Da Empoli oggi non lo sono più, e portano sulle loro biografie tutte le conseguenze di quel che raccontava il suo libro. E non essendo più giovani potrebbero rendersi conto di come la stessa promessa di nulla è quella che viene riservata ai giovani di oggi.

A questo punto ci starebbe bene una filippica sul blocco solo italiano – poi rientrato – di ChatGPT, la chat di intelligenza artificiale. Un potente avviso per giovani e giovanissimi sugli inciampi inaspettati e irragionevoli che verosimilmente incontreranno in patria. Invece, per prendere atto della continuità con il “grande futuro dietro di noi”, è sufficiente una parzialissima lista: reali e profondi miglioramenti della scuola, dell’università e della ricerca non sono avvenuti; non abbiamo un welfare più equilibrato tra giovani e anziani per – una cosa a caso – rendere più facile uscire di casa presto; gli asili nido sono largamente insufficienti, soprattutto al sud, per aiutare le giovani famiglie e le donne in particolare; la distanza economica e sociale tra nord e sud (ho già detto “sud”?) è intatta, come sempre; la “fuga dei cervelli” ha le dimensioni di un piccolo esodo annuale di giovani di tutte le classi sociali.

E naturalmente, a fare da tutrice immobile della continuità assoluta, c’è la burocrazia, che non è solo tanta e noiosa (la burocrazia è tanta e noiosa in tutto il mondo, ma è importante, serve), ma è soprattutto irrazionale, incomprensibile, inefficiente, grottesca, sempre pronta a sorprenderci con rinnovato vigore, come dimostra la rassegnazione con cui non stiamo spendendo le decine di miliardi del famoso PNRR, l’investimento post-Covid dell’Unione Europea. Ma la burocrazia, per esempio, è anche quella che rende impervio cominciare un’attività economica a chi non l’abbia già ereditata dalla famiglia, cioè ai giovani.

Oltre ai mancati fatti, alle cose che potevano essere e non sono, ci circonda una generale indifferenza, se non diffidenza e fastidio per le cose nuove, che pure esistono e si muovono, sono tante e molto presenti in ogni luogo, settore, lavoro e professione, ma che vengono minimizzate e tenute ai margini, con gran dispendio di energie e sforzi. E soltanto un errore di prospettiva può far considerare questa attitudine, questa diffidenza e fastidio, come “culturale”, aggettivo-rifugio per i pigri o, peggio, alibi per gli inerti. Gianluca Briguglia dedicò un suo bellissimo libro, 150+1. L’Italia alla prova di sé stessa, a spiegare che la chiusura e la conservazione sono in netta contraddizione con l’idea, l’identità e la storia dell’Italia oltre che, appunto, uno spreco di energie.

«Le forze che collettivamente consumiamo nella conservazione di equilibri di potere e di rendite, poteri e rendite spesso concreti, ma spessissimo ambigui e immaginari, fatti di significati impliciti e non detti, ma operanti, le energie che spendiamo nel mantenere racconti limitanti che fanno della nostra vita un perimetro angusto, parole chiave che ringhiano come cerberi per non farci passare, spezzoni di ragionamenti e argomentazioni che sono delle vere e proprie forme di oppressione, queste energie le potremmo davvero indirizzare a riattivare la voglia di fare cose facili e belle».

C’è un ultimo rischio che va evitato: non cadere nella colpevolizzazione delle vittime. Per anni si è detto: se i giovani stanno male perché non si ribellano? E le manifestazioni davanti alle università di questi giorni non derivano forse da maggiore reattività, ma da un malessere ormai troppo elevato. Cito una sola statistica per ricordare che il declino ventennale assoluto, ossia non relativo ad altri Paesi, è avvenuto in una cosa: i giovani sono sempre più poveri. Solo che questa è, appunto, una statistica, un concetto astratto. Il giovane di oggi che è più povero di quello di ieri non è la stessa persona, è un nuovo giovane. Il giovane di ieri oggi ha preoccupazioni personali diverse e nuove. Per questa ragione i giovani come categoria politico-sociale non esistono, per questa ragione è degli adulti la responsabilità di compiere scelte che, pensando al futuro, rendano migliore la vita dei giovani di domani.

È questo l’effetto dell’Italia immobile: si mortifica e si castra il futuro. Si riducono le possibilità che ancora non ci sono, ed è facile farlo perché il futuro non è qui a lamentarsi. Quelle possibilità domani non si materializzeranno: ne sentirà la mancanza solo chi le aveva immaginate, appoggiando su di esse la propria speranza. Il futuro si intravede solo nelle immagini che si hanno di esso. Non esiste un unico futuro, non esiste una sola speranza, ne esistono tanti quante sono le loro immaginazioni.

Il frutto della differenza tra l’immagine che avevamo di noi nel futuro venti o trenta anni fa e il futuro che ora è arrivato è allora semplice frustrazione, un sentimento caratteristico della mezza età, ma che oggi in Italia va compreso invece come conseguenza diffusa della stasi ventennale. La frustrazione non è contro qualcosa, non ha un nemico contro cui scagliarsi, anche se lo cerca nel capro espiatorio della indignazione social del momento, o del politico da detestare. La frustrazione non è neanche un’idea, un piano, non è un progetto anzi è il suo contrario: è la fine dell’immaginazione, perché deriva proprio dall’affievolirsi della speranza, dal riconoscere che l’immaginazione di allora oggi non ha più senso, e tanto vale accontentarsi e smettere di immaginare.

Si ritorna al via, da cui era cominciato questo pezzo, con le pive nel sacco alla casetta di paese da cui si era usciti, anche rallegrandosi, tutto sommato, che la casa sia ancora là.

Marco Simoni
Marco Simoni

Vive a Roma, è un economista politico con esperienze accademiche, di management e di governo. Autore di saggi di economia politica e collaboratore di diversi giornali, attualmente cura (con Chiara Albanese) il podcast Politics del Post.

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