Undici appunti sulle persone senza casa

«Non si finisce per strada spinti da sogni romantici, e non c’è nulla di romantico nel dormire in un parco o in un capannone abbandonato. Si finisce per strada a causa di mille motivi diversi, ma accomunati, credo, dal fatto che sfortuna ed errori hanno avuto conseguenze irrimediabili. L’uomo che conoscevo ed è morto due giorni dopo un’aggressione si chiamava Tudor»

Milano, 23 marzo 2020 (AP Photo/Antonio Calanni)
Milano, 23 marzo 2020 (AP Photo/Antonio Calanni)
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Da più di quattro anni faccio parte di MIA, un’associazione di volontariato milanese che si occupa di persone senza dimora e gravemente emarginate. Nel tempo ho partecipato a numerose uscite di strada notturne, aiutato persone a seguire pratiche burocratiche, effettuato accompagnamenti presso ambulatori, frequentato riunioni con altre realtà di volontariato. Un uomo che conoscevo bene, un ex camionista rumeno di sessantaquattro anni, è stato picchiato ed è morto davanti all’edicola abbandonata dove dormiva; altri sono spariti senza dare notizia; qualcuno è ora in una struttura d’accoglienza; molti sono seguiti su base giornaliera dalle associazioni della rete.

Lo scopo non è fare assistenzialismo ma stabilire un rapporto di fiducia con le persone in difficoltà: informandole sui loro diritti, avvicinandole ai servizi sociali, cercando soluzioni in comune. Durante i mesi più freddi la presenza dei volontari garantisce anche un presidio di tutela contro l’ipotermia, ma fornire coperte o generi di prima necessità resta una piccola parte del lavoro; è soprattutto un modo per iniziare un dialogo.

L’ultimo dato dell’Istat parla di quasi centomila persone senza fissa dimora in Italia: va chiarito e precisato poiché tende a una sottostima; in ogni caso l’aumento resta netto. Così anche a Milano, città dove il costo degli alloggi è notoriamente fuori controllo: i nostri calcoli sul campo lo confermano, ma per accorgersene basta uno sguardo meno distratto ai marciapiedi.

Qui raccolgo alcuni appunti presi sulla scorta della mia esperienza. Resta inteso che parlo solo a titolo personale e senza pretesa di esaurire un’attività praticata con molte sensibilità diverse.

1. Con i senza dimora c’è un grosso problema narrativo: abbiamo molte singole storie dal lessico sentimentale, tanta costernazione quando un “invisibile” muore di freddo, eppure poca consapevolezza sulle ragioni di una simile miseria.

Sarà deformazione professionale, e ci rifletto sopra da anni, ma diffido sempre più dell’ipertrofia di narrazione circostante: perché come ha scritto Daniela Leonardi nel suo bellissimo pamphlet La colpa di non avere un tetto, «non si parla mai di homelessness come di un fenomeno sociale, con le sue cause, caratteristiche. Si parla, invece, dei senza dimora, del problema degli homeless come di un’esperienza individuale».

Lo stesso vale per altre persone quali i profughi o i migranti economici: dalla massa indistinta della categoria si estraggono storie che restano certo cruciali, poiché danno un’idea della complessità del fenomeno e della varietà di esperienze concrete, ma che rischiano di mettere in ombra il problema strutturale. Si legge, ci si commuove o indigna, e poco cambia: occorre un paradigma diverso.

2. Chiudete gli occhi e immaginate una persona senza dimora. Probabilmente avrete pensato a un uomo sulla sessantina dalla barba sfatta, mal vestito, un po’ sporco, con un cartone di vino a fianco e intento a dormicchiare sotto la pensilina di un bus. Questo cliché è una forma speculare del problema narrativo di cui sopra: appiattisce una quantità di situazioni diverse sopra un unico luogo comune.

Certo contiene qualche verità: per esempio la grande presenza di maschi tra la popolazione senza dimora (il che rende ancora più difficile la situazione delle donne) o il frequente abuso di alcol; ma in realtà la definizione stessa di “senza dimora” è problematica. Si preferisce parlare di homelessness non per vezzo esterofilo bensì perché il termine cattura un’esperienza più vasta dell’assenza di un tetto sopra la testa, dove tendono a sommarsi fattori come fragilità psichiatriche, dipendenze e povertà. (Anche l’espressione «tetto sopra la testa» è riduttiva: avere una casa significa avere un centro affettivo, non un semplice rifugio).

Creando rapporti con le persone scopri invece la loro personalità fuori da ogni stereotipo. Scopri preferenze in ambito di letteratura o musica, in molti casi un notevole umorismo, professioni perdute (panettiere, cuoco, taglialegna, imbianchino, infermiera) e progetti (tornare a lavorare, smettere con l’alcol o la cocaina, emigrare); incontri cuochi egiziani che hanno perso il posto con il Covid, anziani che vivono qui e là da più di trent’anni, ex impiegati, signore ucraine accumulatrici seriali dal lessico forbito e pronte a discettare del PD, uomini usciti dal carcere senza supporto, alcolisti espulsi da case accoglienza per rissa, operai in causa per incidenti sul lavoro con udienze rimandate, lavoratori che non riescono a pagarsi l’affitto, muratori rumeni dall’ampio repertorio di barzellette che preferiscono non rischiare più la pelle nei cantieri in nero, giovani profughi afghani in attesa di capire il da farsi, ex fornai che durante il giorno fanno volontariato a loro volta — e così via.

Ma servono appunto tempo e uno sguardo che inverta il normale protocollo narrativo, per cui da situazione limitata nel tempo la homelessness viene eletta a fattore identitario: non sei senza dimora, sei “un senza dimora”. Tendiamo a obliterare il passato di queste persone così come le loro aspirazioni: tutto viene risucchiato dall’evidenza della miseria quasi non ci fosse più speranza di nuova vita, ma solo di un altro panino.

Occorre invece uno strabismo intelligente: guardare il bisogno individuale della singola persona — la sua storia — rivendicando al tempo un’analisi politica del fenomeno, che ponga rimedio alle cause dell’emarginazione comuni a tutte e tutti.

3. Che dire della città “normale”? Lo spettro delle reazioni di chi ha una casa va dalla pietà inerte o dalla santificazione retorica all’odio più selvaggio — minacce esplicite («Se ti ritrovo qui ti do fuoco») e persino violenza fisica: vedi il caso del mio conoscente rumeno e il recente omicidio di Jordan Neely a New York.

In mezzo ci sono atti di generosità e reti informali di soccorso, ma è più diffusa un’indifferenza venata di fastidio, magari condita di appelli al decoro: la tacita speranza che i senza dimora scompaiano in silenzio, perché lo spazio urbano non è per loro — e in particolare lo spazio urbano milanese. L’homeless qui è un’offesa alla logica dominante: si limita a usufruire della città senza produrre.

Una volta una signora ci chiese se non potessimo «fare qualcosa» per un uomo che dormiva accanto all’ingresso del suo palazzo. Per sua ammissione non aveva mai creato problemi di alcun tipo, anzi, però bisognava pur «fare qualcosa»: spostarlo, chiarì con vago imbarazzo. Una sorta di riduzione delle persone a cose, quasi appartenessero a un ordine differente di umanità: perché puzzano, perché sono poveri, perché parlano da soli, perché chiedono la carità, perché sono ubriachi, perché inquietano. «Perché fanno schifo», come mi è capitato di sentire alcune volte.

4. Un’azione sensata di volontariato dovrebbe considerare queste persone come soggetti a tutto tondo e non mere vittime oppure oggetti di sguardo e giudizio — incluso il ridurli a mani che ricevono monete. Restituire soggettività, evitare l’assistenzialismo: gran bel proposito, ma quando si tratta di metterlo in pratica sorge subito una miriade di problemi.

Dialogare con persone in grave stato di marginalità può essere frustrante; all’inizio si parte con un sano e comprensibile candore che però la strada dissipa in fretta: dall’immagine preconcetta dell’homeless si passa a singoli casi di fantasie paranoidi, rifiuto di parlare, accuse, toni esigenti, contraddizioni eccetera.

Non è semplice coltivare la giusta dose di disincanto e passione, assumendosi di volta in volta la responsabilità di scelte non facili: solo chi critica tranquillo in poltrona può pensarlo.

Ancora una volta lo sforzo è superare una distinzione netta noi/loro, e il solo modo è creare relazioni profonde — parlando, innanzitutto, parlando molto e arricchendosi reciprocamente. Come dicevo in queste conversazioni ho riscontrato megalomania, razzismo, diffidenza, maleducazione; ma in egual misura disponibilità, gentilezza, ironia, generosità: nulla che non riscontri anche nelle persone cosiddette “normali”. Per gli homeless, però, stati d’animo e comportamenti sono esacerbati dalla situazione, con i casi limite del grave disagio psichiatrico.

5. Ecco un altro punto: di fatto applichiamo verso gli homeless uno standard morale diverso. I loro difetti ci urtano molto di più e siamo maggiormente propensi ad accusarli di ingratitudine, malevolenza o pigrizia; del resto, si pensa d’istinto, se sono finiti per strada è integralmente colpa loro.

Ci preoccupiamo anche meno dei loro diritti, persino quando le intenzioni sono buone: mi ha sempre colpito la disinvoltura con cui si fotografano le code presso le docce pubbliche o alle mense, per diffonderle sui social con sincera indignazione. A pochi viene in mente che quelle persone, forse, non desiderano affatto essere fotografate in un momento del genere.

Tale riduzione degli homeless a «cittadini non a pieno titolo», conscia o inconscia che sia, con scopi nobili oppure meschini, implica anche un’ultima distorsione narrativa: parliamo sempre di loro senza che abbiano reale possibilità di esprimersi. Ancora Leonardi: «Chiedersi chi sono le persone senza dimora implica anche una riflessione sulle asimmetrie tra chi si trova nella posizione di poter etichettare e chi, al contrario, viene etichettato sulla base di criteri su cui spesso ha poca voce in capitolo. E allora è importante soffermarsi e chiedersi, sulla scia di Spivak in Can the subaltern speak?: le persone homeless possono parlare?».

Anche questo tema riguarda tutte le minoranze e i gruppi più deboli, ma nel caso dei senza dimora è aggravato dal fatto di non avere rappresentanze di grande rilievo. Detto con più chiarezza: lottare attivamente per loro non reca grossi dividendi sociali; non è una battaglia comoda o di moda.

6. Uno dei problemi chiave degli homeless è l’assenza di privacy: non hanno un luogo dove chiudersi a chiave, riflettere, leggere o fare sesso senza che lo sguardo altrui possa eventualmente disturbarli. Di fatto sono inermi: anche per questo il sonno non è mai vero sonno e le conseguenze del mancato riposo si riverberano sulla veglia, già di per sé tormentata dalla precarietà.

È un ciclo perenne di difficoltà estreme: freddo, paura, noia, esasperazione, razzismo, violenza, malattie non curate, sporcizia, sgomberi — e dunque depressione, solitudine, carenza affettiva, dipendenze, sfinimento: è difficile capire cosa produca cosa, ma gli aspetti tendono a manifestarsi insieme, soprattutto quando si passa molto tempo per strada. La situazione di homelessness tende infatti a radicalizzarsi progressivamente, fino a diventare cronica e davvero identitaria. I mesi passano, gli anni passano, e si è sempre lì.

7. A Milano, come in altre città, esiste un sistema basato su segnalazioni telefoniche dei cittadini, strutture a bassa soglia d’ingresso (i dormitori invernali), centri diurni dove lavare i propri panni o fare una doccia e altri servizi di base. La rete di sostegno ha però un problema di fondo che non dipende dai singoli. Giuseppe Rizzo su L’Essenziale lo riassume così:

Il tendone, i dormitori e altre strutture simili in teoria dovrebbero essere delle ancore di salvataggio da lanciare a chi è in difficoltà in mare aperto. Il problema è che poi, in assenza di alternative, chi le afferra finisce per viverci aggrappato per anni. È il cuore e il limite del sistema di aiuto alle persone senza dimora in Italia e in molti altri paesi: un percorso a premi per cui se ci si comporta bene, cioè non ci si ammazza di droghe e alcol, si guadagna un posto letto e, se si ha fortuna, da lì si passa a sistemazioni meno affollate. Non essendo molto diffusi i progetti di housing first, che danno una casa ai senzatetto per poi costruirci intorno una rete di servizi di assistenza sociale e sanitaria, a volte la fortuna arriva dopo anni, nella forma di un progetto di convivenza con altre persone in case famiglia o in piccole comunità, ma altre volte non arriva mai.

Il Naga, un’altra importante associazione di volontari milanesi, propone allora di superare la logica emergenziale del “piano freddo” per investire le risorse in un progetto di lungo periodo, con un’offerta diversa di strutture e appartamenti. Anche perché tutti i problemi connessi alla vita per strada non scompaiono certo con l’arrivo della primavera.

I costi eccezionali del mercato immobiliare milanese — un vero apartheid sociale — rendono ancor più urgente lavorare in questa direzione. Nella Carta dei diritti del Comitato Abitare in via Padova si suggeriscono per esempio la regolamentazione del mercato degli affitti brevi, il recupero del patrimonio residenziale pubblico con maggiore snellezza nelle assegnazioni, la sospensione dello sfratto per morosità incolpevole e il contrasto agli immobili sfitti unito alla riduzione del consumo sfrenato di suolo. Aggiungo: anche un numero maggiore di educatori e assistenti sociali sarebbe utile per creare percorsi di accompagnamento più stabili, evitando recidive.

Le soluzioni sono molteplici; serve però la volontà politica di metterle in pratica, invece di ancorarsi a un sistema impegnato ma poco funzionale o, peggio ancora, incitare una soluzione poliziesca alla miseria.

8. A tal proposito, conosco l’obiezione da destra: i senza dimora, proprio perché esasperati e talora paranoidi, possono essere pericolosi; vedi lo stupro reiterato avvenuto in Stazione Centrale a Milano non molto tempo fa. Un delitto così orrendo suscita senz’altro emozioni fortissime, e annacquare le responsabilità del colpevole è un’offesa ulteriore verso la vittima; ma lo è anche strumentalizzare il fatto. In ogni caso, combattere la homelessness — non gli homeless — è la strategia migliore per incrementare sicurezza pubblica e benessere comune: e ciò non avviene con ronde o sgomberi di massa ma con una società più equa, votata alla cura.

In tal modo, fra l’altro, la responsabilità personale di ogni azione delittuosa sarà ancor più nuda. Proprio come dovrebbe accadere per tutti gli uomini “normali”, con un lavoro e una casa, che violentano le loro compagne: atrocità nella quale è meno facile isolare categorie su cui generalizzare, e verso la quale certo giornalismo applica attenuanti con maggiore indulgenza.

9. L’attività di volontariato rischia di avvitarsi su sé stessa se non è accompagnata da robusta pressione dal basso. È una preziosa toppa sul buco ma non dovrebbe alimentare il circolo vizioso dell’emergenza, né supplire all’assenza della politica: il fine ultimo non è la carità bensì la giustizia.

È insomma necessario rivendicare materialmente il diritto alla casa quale diritto primario, applicando strategie preventive. Solo in tal modo, per citare un’ultima volta Leonardi, sarà davvero possibile uscire dalla dicotomia noi/loro: perché gli homeless «non sono altro da “noi”, prendono forma in relazione a noi. Sono prodotti in relazione alle disuguaglianze e all’assenza di regolamentazione del mercato abitativo privato, nelle politiche discriminatorie rispetto alla residenza, e non sono invisibili ma sono resi invisibili».

10. Non si finisce per strada spinti da sogni romantici, e non c’è nulla di romantico nel dormire in un parco o in un capannone abbandonato. Si finisce per strada a causa di mille motivi diversi, ma accomunati, credo, dal fatto che sfortuna ed errori hanno avuto conseguenze irrimediabili.

Un passaporto giusto, relativa disponibilità economica e un sistema affettivo solido implicano la chance di sbagliare più comodamente o correggersi con meno angoscia; malattie e licenziamenti diventano disgrazie contenibili. Solo una versione riduttiva della costante dialettica tra singolo e società — la versione di chi detiene il monopolio narrativo — può dimenticarlo. Ripeto: ognuno resta responsabile delle proprie scelte e negarlo è un altro modo di distruggere la soggettività, stavolta per via paternalista; ma ogni scelta dipende anche dal contesto. Una verità minima che la retorica in cui siamo immersi tende a occultare: è sempre e solo merito nostro quando emergiamo, è sempre e solo colpa loro quando cadono.

11. L’uomo che conoscevo ed è morto due giorni dopo un’aggressione si chiamava Tudor Gheța, detto Teodorio. Parlava un italiano raffazzonato, raccontava volentieri dei suoi viaggi con il camion in giro per l’Europa, cercava sempre di scroccare sigarette e ogni tanto ci regalava dei fiori. Stiamo aspettando i risultati dell’autopsia.

Qualche giorno prima del trasferimento al cimitero — il funerale gratuito del Comune di Milano, previsto per gli indigenti — ho chiesto all’obitorio se potessi salutarlo: mi è stato dato appuntamento per il venerdì seguente, alle otto del mattino. Quando sono arrivato con mia moglie avevano già sigillato il corpo: non si aspettavano nessuno, non c’erano familiari segnati in lista. Ho fatto presente che ero passato a chiedere informazioni; gli addetti alla guardiola si sono guardati incerti, poi hanno allargato le braccia. Non sapevamo cosa dire, non abbiamo detto nulla, del resto non c’era più niente da fare. Abbiamo toccato la bara sul furgone che l’avrebbe portato al Cimitero Maggiore: che la terra almeno ora gli sia lieve.

Giorgio Fontana
Giorgio Fontana

È uno scrittore. Il suo ultimo romanzo è Il mago di Riga (Sellerio 2022).

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