Lettera dal Vietnam

«Gli esseri umani desiderano le merci, cioè il denaro, e soprattutto desiderano merci e denaro per i loro figli e nipoti, e non c’è nessun lavaggio del cervello virtuistico che possa mitigare questo desiderio, nessun cambiamento climatico che possa convincere chi non ha a non fare di tutto per avere. Passeggiando per Hanoi, tra ali di auto e motorini che s’incrociano in traiettorie letali, uno fa un confronto con l’Italia del miracolo economico e si ripete le prime righe del celebre articolo di Bocca su Vigevano, anno 1962: "Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi"»

Hanoi, Vietnam, 11 agosto 2020 (EPA/LUONG THAI LINH / ANSA)
Hanoi, Vietnam, 11 agosto 2020 (EPA/LUONG THAI LINH / ANSA)
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«Sì, ma cerchi di arrivare incolume al suicidio». Questo saggio consiglio di Diego Abatantuono (Il ras del quartiere) risuona spesso nella memoria del pedone a passeggio per Hanoi, perché i motorini magari non vanno tanto veloce come quelli dei tamarri italiani, però sono una quantità mostruosa, un esercito a ogni semaforo, ma un esercito allo sbando, perché arrivano da tutte le direzioni, anche col rosso, anche contromano, anche sul marciapiedi: tre persone a bordo, quattro, il guidatore che telefona, quello dietro che mangia, i genitori col casco e i due figli piccoli senza, merci accatastate sul portapacchi che entrerebbero a fatica in un Fiorino.

Il segreto – ci avvertono subito – è non fare movimenti bruschi, mantenere un passo lento ma costante, non fermarsi, non mettersi a correre. Il motociclista vi vede, valuta la distanza che separa il suo parafango dalla vostra rotula, la evita con un piccolo scarto. Se accelerate o decelerate all’improvviso rovinate tutto, e il prezzo che pagate per questo errore non è soltanto la vostra rotula, è la vostra rotula più un intervento di ortopedia all’ospedale di Hanoi, e successiva lunga riabilitazione. Una sera, nel semibuio delle cinque e mezza, quando la gente esce dal lavoro e si dirige verso le campagne, e il fiume di motorini è davvero troppo impetuoso per pensare di poterlo attraversare, anche a velocità costante, ho una visione extracorporea e mi trovo trasformato nel compianto Gustavo Selva, il senatore di AN che per non arrivare tardi a un’intervista in TV, dovendo attraversare Roma, chiamò un’ambulanza fingendosi infartuato. Un’ambulanza, devo chiamare anch’io un’ambulanza vietnamita che mi porti dall’altra parte della strada… Ma come faccio, non sono padrone della lingua, rischierei di finire sul serio sul tavolo operatorio.

Hanoi, Vietnam

Il traffico dell’ora di punta dopo l’allentamento delle restrizioni per il coronavirus, maggio 2020 (Linh Pham/Getty Images)

Del resto, come stupirsi? In Vietnam sono tutti giovani, non fa mai freddo, le auto sono un lusso, è chiaro che appena uno può permettersi di mollare la bici si compra il motorino. Ma è questione d’abitudine, come in tutte le cose. Mentre il pedone straniero pensa che morirà spiaccicato e lasciato lì in un buco tra la carreggiata e i cortili, le sue interiora divorate dai sorci, il pedone e il residente vietnamita accettano il traffico con la quieta indifferenza con cui si accetta la pioggia. I tubi di scappamento scaricano direttamente nel piatto in cui stanno mangiando, le moto fanno lo slalom tra i lattanti, i clacson suonano un concerto ininterrotto, ma in nessuna di queste vittime si sorprende mai un gesto d’impazienza o di pena, men che meno di rabbia. Le cose vanno così. Si respira un po’ nel fine settimana, quando i vigili urbani chiudono la piccola rete di strade che circonda il laghetto che sta in mezzo all’Old Quarter, ma allora la carreggiata è invasa da pre-puberi su macchinine elettriche dotate anche loro di mini-clacson, qualcuno anche di sirena: così, su scala ridotta, la confusione è simile a quella infrasettimanale, e anche il fragore, solo su un tono leggermente più alto.

Hanoi, Vietnam, 2022 (Claudio Giunta)

Stadi diversi di sviluppo, si sa, quindi anche sensibilità diverse ai soprusi del progresso, e una certa indifferenza all’inquinamento e ai rumori molesti: è la fase euforica della motorizzazione di massa, ci siamo passati anche noi qualche decennio fa, i cortei di Fridays for Future e i gavettoni di vernice sui quadri dei musei arriveranno anche qui, un giorno, ma non oggi.

Così si segue il processo tipico di chi sta per un po’ di tempo in un paese molto diverso dal proprio. Atterrati da poco, ci si domanda come sia possibile vivere così. Passa qualche giorno, e «beh, dopo tutto», si ammette, «paese che vai…». Ne passa qualche altro, s’incontra qualche persona simpatica, i due-tre locali del quartiere che si frequentano più spesso diventano un’abitudine, si comincia a riconoscere e a essere riconosciuti, e si finisce per concludere che in realtà non si potrebbe vivere diversamente. Una volta che le hanno viste o assaggiate o indossate, gli esseri umani desiderano le merci, cioè il denaro, e soprattutto desiderano merci e denaro per i loro figli e nipoti, e non c’è nessun lavaggio del cervello virtuistico che possa cancellare o mitigare questo desiderio, nessun cambiamento climatico che possa convincere chi non ha a non fare di tutto per avere.

Passeggiando faticosamente per Hanoi, passando attraverso palazzi in cemento nuovi e piuttosto brutti, tra ali di auto e motorini che s’incrociano in traiettorie letali, uno fa un confronto con l’Italia del miracolo economico e si ripete le prime righe del celebre articolo di Giorgio Bocca su Vigevano, anno 1962: «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di abitanti, cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una». Ecco: una Vigevano asiatica di cinque milioni di abitanti, che crescono del 3-4% ogni anno, spopolando le campagne; e così altro cemento, altro asfalto, altri motorini. Anche qui nessuna libreria, o non l’ho trovata. C’è una “strada dei libri”, che però è un vicolo patetico con una dozzina di bancarelle che vendono manualistica tecnica e fumetti di Peppa Pig. I milionari non passeggiano a battaglioni affiancati ma se ne stanno nei grattacieli del centro o nelle ville fuori città, o in altri punti più confortevoli del globo.

Ma d’altra parte uno può quasi percepire, intorno, la vibrazione del voler fare, creare, migliorare la propria posizione nel mondo. Anche in Vietnam, come dappertutto, hanno girato la loro versione del film Perfetti sconosciuti, ed è stato un successo. Ma s’immagina ancora meglio un remake di Una vita difficile, o del Boom o chissà, del Vedovo. La rivoluzione dei consumi avrà prodotto senz’altro anche qui i suoi Alberto Sordi, i suoi squaletti affogati dalle cambiali. «È incredibile come non si impari dagli errori degli altri», mi dice il mio compagno di gita, un diplomatico esperto di nazioni in via di sviluppo, indicando fuori dal finestrino del taxi la fiumana di camion, auto e soprattutto, soprattutto motorini che esce lenta ma inarrestabile dalla città mentre noi ci rientriamo. No, non s’impara dagli errori degli altri: s’impara facendoli, ripetendoli; e ci vogliono anni, generazioni. Vale per la vita delle persone, perché non dovrebbe valere per la vita dei popoli?

Urge chiedere un parere, delle spiegazioni a chi questo popolo lo conosce meglio. Secondo un amico che ha vissuto a lungo in Vietnam, e che mi ha passato il contatto, Claudio Dordi è «l’italiano che sa più cose di ogni altro sul Vietnam contemporaneo». Insegna Diritto internazionale alla Bocconi, ma passa ad Hanoi parte dell’anno perché prima ha collaborato col governo vietnamita alla chiusura degli accordi per l’ingresso nel WTO e ai trattati di libero scambio con l’Unione Europea, poi ha iniziato una consulenza per una grossa società americana che lavora al potenziamento degli scambi commerciali tra Stati Uniti e Vietnam (lo so, è vago, non si capisce bene cosa voglia dire, cosa faccia materialmente questo potenziatore quando la mattina si mette alla scrivania, ma quando Dordi prova a spiegarmi con dati, esempi, nomi io lo seguo per cinque secondi annuendo poi comincio a pensare ad altro: non si esce vivi dal liceo classico).

Mi riceve non nel suo studio nella sede della Grossa Società Americana ma a un tavolo del ristorante italiano Vinci di Hanoi, che inaspettatamente, a metà conversazione, si rivela essere il ristorante di amici suoi del quale anche lui possiede una quota: per questo i camerieri erano così amichevoli, anzi proprio contenti di vederci (io avevo pensato al naturale ascendente che gli italiani esercitano sui popoli stranieri). A tempo perso dà anche una mano nell’amministrazione («per fortuna ho fatto l’esame da commercialista tanti anni fa»), nelle non facili acque post-Covid, in un paese che, mi dicono tutti, è una palude burocratica peggio dell’Italia. È nato vicino a Luino. «Piero Chiara?», gli dico, e lui parla con competenza di Piero Chiara. «Vittorio Sereni?». E lui parla con competenza di Vittorio Sereni. Chi è che criticava il liceo classico?

Insomma, gli dico, l’impatto di Hanoi e di Saigon sul forestiero è forte, negativo e positivo insieme, ma forse più negativo (i motorini, l’inquinamento, la plastica immarcescibile). Uno s’immaginava un mite comunismo asiatico (siamo pur sempre nella «Repubblica socialista del Vietnam»), le biciclette, le mondine nei campi. E invece. Che cos’è successo in Vietnam negli ultimi anni?

«Eh sì – mi risponde – il progresso economico sporca. A voler fissare una data, è un progresso, un cambiamento che comincia nel 1986 con la Doi moi, una specie di perestrojka vietnamita. Diciamo che all’inizio degli anni Ottanta il governo prende atto del fatto che il sistema comunista non funziona. Cioè: sa redistribuire la ricchezza, ma non sa produrla, un antico problema del comunismo. Così a partire dal 1986 si comincia a favorire, a incoraggiare l’iniziativa privata. Da quel momento in poi le cose vanno molto velocemente: negli anni Ottanta il Vietnam era un paese sottosviluppato, negli anni Novanta è un paese in via di sviluppo, nel Duemila è un paese a sviluppo medio. Vent’anni fa hanno concluso un primo accordo commerciale con gli Stati Uniti; poi sono entrati nella zona di libero scambio dell’ASEAN; poi nel WTO; poi hanno chiuso accordi commerciali con gran parte degli altri paesi del mondo. Così l’economia ha cominciato a crescere, l’indice di povertà è crollato, la disoccupazione si è quasi azzerata».

Manifesti del Partito Comunista ad Hanoi (Photo by Linh Pham/Getty Images)

Cioè, obietto, tutti quei posapiano accucciati sui marciapiedi che mangiano e cucinano e lavano i piatti e guardano la gente che passa non sono disoccupati? «No, fanno qualcosa, hanno un ruolo nella loro minuscola azienda familiare, magari cucinano o lavano per qualcun altro. Devi pensare che in Vietnam c’è ancora una rete di assistenza che si basa sulle relazioni familiari, che sono ancora molto salde, molto più salde di come sono in Europa, per non parlare degli Stati Uniti. E poi naturalmente c’è il Partito, che è presente a ogni livello della vita pubblica e vede e provvede. Prima del Covid non si vedevano mendicanti per la strada. Adesso ce n’è qualcuno, ma sempre molti di meno rispetto a quelli che si vedono in altri paesi del sud-est asiatico o in Occidente. È il lato buono dei paesi socialisti».

Invece, continua a spiegarmi Dordi, il lato buono del capitalismo vietnamita sta proprio in questa serenissima adesione alla dottrina del libero scambio. Che vuol dire, anche, che chi investe in Vietnam può poi esportare in altri paesi senza dover pagare dazi doganali. È il caso della Cina. «Le amministrazioni Trump e Biden, tutte e due, hanno alzato i dazi sui prodotti cinesi, scoraggiando le importazioni; allora le industrie cinesi cos’hanno fatto? Hanno spostato la produzione in Vietnam e, proprio per aggirare i dazi, hanno cominciato a produrre con marchi vietnamiti. E s’intende che poter negoziare con un governo che decide senza doversi consultare con nessuno, che non ha opposizione, è un vantaggio per gli investitori». Anche se poi, come ho accennato, questo vantaggio finisce per evaporare a causa della macchinosità, della lentezza, della corruzione, anche, della burocrazia vietnamita (esempio, riferitomi da altro expat. La metro di Saigon è stata costruita da aziende giapponesi e pare sia pronta da tempo. Messa in funzione, sarebbe una mano santa per il traffico cittadino, che è persino più mostruosamente caotico di quello di Hanoi. Ma in funzione non entra, ogni volta per una ragione diversa, adesso pare perché mancano le macchine obliteratrici. «Mettere il bigliettaio, come negli autobus di Hanoi?», chiedo. Il mio interlocutore spalanca le braccia).

Ed è un modello economico che può durare? «No, non può durare così. Questo sviluppo così rapido si deve soprattutto all’abbondanza di manodopera e al suo basso costo. Il Vietnam per lo più lavora materie prime importate dalla Cina, dal Giappone, dalla Corea, o assembla componenti che arrivano dagli stessi paesi, per prodotti che poi vengono esportati in Occidente. Sono tutte produzioni con scarso valore aggiunto, perciò a questo punto il rischio è la cosiddetta middle-income trap. Potrebbe succedere cioè che da un lato il Vietnam patisca la concorrenza dal basso di paesi più poveri come il Bangladesh o la Cambogia, che offrono una manodopera ancora più economica (dalla maglietta Made in Vietnam alla maglietta Made in Bangladesh, insomma); e dall’altro potrebbe non essere in grado di competere verso l’alto, con i paesi del sud-est asiatico più avanzati tecnologicamente. Quindi occorre creare una classe di tecnici e di professionisti – ingegneri, chimici, manager, medici – e favorire produzioni con più alto valore aggiunto. Di fatto, lo si sta già facendo. Fino al 2010 il Vietnam esportava quasi soltanto tessile di medio-bassa qualità. Nel 2010 Samsung ha cominciato a investire massicciamente in Vietnam, e la componentistica elettronica è diventata la più importante industria nazionale: ma l’arrivo di Samsung – e poi di Intel, di Apple – ha anche fatto sì che nascesse tutto un indotto nel settore dell’elettronica, una rete di piccole imprese locali».

Ma qualcosa del genere non è forse successo nel cruciale settore degli scooter? Cento milioni di vietnamiti vogliono dire – come ci si ricorda ogni volta che si prova ad attraversare la strada – cento milioni di motorini. Motorini Honda o Yamaha, per lo più, o altre marche e sottomarche giapponesi. Ma anche, per il nostro orgoglio, Piaggio.

Fino a una quindicina di anni fa, a nord-ovest di Hanoi, provincia di Vinh Phuc, era tutta campagna. Ma non una campagna tipo senese, tutta morbidi clivi e freschi ruscelli, e nemmeno una di quelle campagne da oleografia asiatica, con le mondine sorridenti a bagnomaria nelle risaie; no, piuttosto una campagna-steppa, già invasa dall’asfalto, con qualche tetro capannone che occhieggiava qua e là. Il Vietnam non era ancora uno degli hub manifatturieri del mondo, ma era sul punto di diventarlo: un governo, s’è detto, nominalmente comunista sì, ma che incoraggiava gli investimenti stranieri, una natalità a livelli quasi nigeriani e, dalla fine degli anni Novanta, una crescita del PIL a livelli quasi cinesi (8% nel 2022).

A Pontedera, intanto, la produzione della Piaggio andava anche benino, ma quante Vespe o Liberty si possono vendere in una nazione, in un continente senescente, e in cui i non molti giovani non sognano più, tutti, il motorino, come lo sognavo io alla loro età, ma la bicicletta, la bicicletta elettrica, o anche semplicemente la bicicletta presa a nolo per strada, o ancora più semplicemente si accontentano dell’opzione più green di tutte, andare a piedi? Bisognava cercare altri mercati, mercati non saturi ma anzi in espansione, dove la bicicletta fosse non il sogno d’escapismo del borghese stressato ma una scomodità, una fatica da lasciarsi alle spalle. Vietnam, dunque: Hanoi. Si comincia a costruire nel 2006, si comincia a produrre nel 2009, e nel giro di una dozzina d’anni lo stabilimento vietnamita diventa il più produttivo e redditizio di tutto il gruppo, dando ossigeno alla casa-madre ma anche generando una serie di benefici effetti sull’industria locale, anche in termini di know-how. Vale a dire che la Piaggio fa lavorare molti produttori locali nati piccoli e diventati grandi negli anni, soprattutto produttori di acciaio e vernici, e insomma contribuisce a vivificare tutta l’economia dell’area.

Non che le Vespe e gli altri motorini Piaggio si vendano come le Honda, naturalmente. Nei parcheggi (cioè ovunque, perché qui si parcheggia soprattutto sui marciapiedi) le Vespe si notano perché sono infinitamente più belle, ma sono anche poche, perché pochi se le possono permettere. Sono, nel linguaggio del marketing, il prodotto leader del segmento premium, cioè quello che costa un po’ di più. Motorino aspirazionale, un po’ come il PX ai miei tempi (sempre Piaggio del resto). Eccola, la Vespa, una su cinque, di un bel giallo canarino:

Hanoi, Vietnam, 2022 (Foto Claudio Giunta)

Sì ma la Cultura? La Cultura? Quella che Bocca non riusciva a trovare nella Vigevano del boom economico? Solo telefonini e scooter, niente prodotti per la manutenzione delle anime? Io veramente sarei favorevole a una moratoria sulla Cultura, soprattutto in Italia, figuriamoci se mi preoccupo del Vietnam, delle troppo poche librerie, degli edifici storici abbattuti – certi meravigliosi comptoir coloniali, certi sontuosi alberghi belle époque – e sostituiti da cubi di vetro-cemento partoriti dalle menti bacate di architetti postmoderni che hanno imparato da Las Vegas.

Ma Dordi (che tra le mille altre cose è anche musicofilo) mi fa osservare che ci vuole tempo, bisogna aspettare che la struttura economica si consolidi e intacchi la sovrastruttura, e questo sta già avvenendo: «In una quindicina d’anni ho visto cambiamenti enormi: la musica classica, il balletto, le traduzioni di libri e film: il fatto è che per produrre e consumare arte e cultura ci vuole una borghesia matura, e la borghesia nasce col commercio, con l’accumulazione». Una prova che la maturazione c’è stata, c’è? «Adesso è cominciato l’investimento in istruzione di qualità. I genitori fanno grandi sacrifici per mandare i figli a studiare all’estero. Non accontentarsi del sistema educativo nazionale è forse un cattivo segno per la coesione sociale, ma significa aspirazione alla mobilità, dinamismo, volontà di cambiare in meglio il proprio destino, cioè il destino dei propri figli. L’acculturazione di massa seguirà, accompagnerà l’acculturazione di questa élite» (possibile, forse probabile, del resto chi può veramente sapere cosa leggono, vedono, ascoltano i vietnamiti. Ai bordi del laghetto in centro città, nel fine settimana, canti patriottici e danze coordinate sulla dance anglo-americana degli anni Settanta-Novanta; per le strade, cartelloni che annunciano Fast & Furious 9 o 10; e quando vado all’università cominciamo con Dante Alighieri e Calvino, poi deviamo verso Benigni e Toto Cutugno, e alla fine mi ritrovo a raccontare la trama di Profondo rosso: che bisogno c’era d’inventarsi l’esperanto quando esiste il pop?).

Claudio Giunta
Claudio Giunta

Nato a Torino nel 1971. Insegna Letteratura italiana all’Università di Trento, ed è uno specialista di letteratura medievale. Il suo ultimo libro è Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca

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