Su cos’è la libertà

«Noi siamo abituati a pensare che non dipenda da noi, dipenda dal posto in cui siamo, che è come se venisse dall’alto; quando io ero un ragazzo si diceva, da noi, gli organi di stampa, le televisioni, che in occidente c’era, al di qua della cortina di ferro, mentre in oriente, al di là della cortina di ferro, non c’era mica»

Tre sostenitori issano una gigantografia del presidente russo Vladimir Putin per le celebrazioni dell'anniversario dell'annessione della Crimea nel 2014. Sebastopoli, Crimea, 18 marzo 2021. (AP Photo)
Tre sostenitori issano una gigantografia del presidente russo Vladimir Putin per le celebrazioni dell'anniversario dell'annessione della Crimea nel 2014. Sebastopoli, Crimea, 18 marzo 2021. (AP Photo)
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L’altro giorno ho presentato un mio libro a Roma, a Libri Come, insieme ad Annalisa Cuzzocrea, che, lo scrivo anche nel libro, è una persona che mi piace da sgarbati, come diciamo noi a Parma; mi è sembrata una presentazione molto bella, resa ancora più bella dal fatto che, su una cosa, io e Annalisa, non ci siamo trovati d’accordo.

Su cos’è la libertà.

Che cos’è la libertà è una cosa che mi chiedo da anni e a questa domanda ho risposto, forse, per la prima volta, più di dieci anni fa, in un discorso che ho pronunciato, come si dice, il 26 gennaio del 2010 al cinema Kijov di Cracovia nell’ambito di una manifestazione intitolata Un treno per Auschwitz e organizzata dalla fondazione Fossoli. Quel discorso è poi diventato parte di uno spettacolo teatrale che ha debuttato due settimane fa, al TeatroDue di Parma, e che si intitola, guarda caso, La libertà. Primo episodio.

Dicevo, in quel discorso e in quello spettacolo teatrale, che noi siamo abituati a pensare che la libertà non dipenda da noi, dipenda dal posto in cui siamo, che è come se venisse dall’alto; quando io ero un ragazzo si diceva, da noi, gli organi di stampa, le televisioni, che in occidente c’era la libertà, al di qua della cortina di ferro, mentre in Oriente, al di là della cortina di ferro, la libertà non c’era mica, così dicevano nel mondo capitalistico; invece nel mondo socialista, in Unione Sovietica, dicevano, gli organi di stampa, le televisioni, che in Oriente, al di qua della cortina di ferro, dal loro punto di vista, c’era la libertà, in Occidente, al di là della cortina di ferro, la libertà non c’era mica. E allora? Che poi queste son cose che quando uno è un ragazzo, a queste cose, aderisce automaticamente, non ci pensa, è come se fosse iscritto al partito dell’Occidente, se era di qua, o al partito dell’Oriente, se era di là; succedeva anche in questo caso quella cosa che diceva Simone Weil nel 1943, quando scriveva (nel Manifesto per la soppressione dei partiti politici): «Quasi ovunque, e spesso anche per questioni squisitamente tecniche, il fatto di prendere partito, di prendere posizione pro o contro, ha sostituito il fatto di pensare. È una peste che si è originata nel contesto politico e si è diffusa a tutto il paese, alla quasi totalità del pensiero».

Ecco noi venivamo iscritti, io, per esempio, al partito che pensava che in Occidente c’era la libertà, in Oriente non c’era, un mio coetaneo nato a Mosca o a Leningrado o a Vladivostok veniva iscritto al partito del pensiero che in Oriente c’era la libertà, in Occidente non c’era.

Solo che dopo, a me, se devo giudicare in base alla mia esperienza, io quando ho chiesto il visto per gli Stati Uniti d’America, che avevo ventiquattro anni, ero appena tornato dall’Iraq e dall’Algeria, dove ero stato a lavorare per tre anni, volevo andare in America per un mese prima di iscrivermi all’università, il visto me l’han rifiutato; quando poi, due anni dopo, ho chiesto il visto per l’Unione Sovietica, me l’han dato subito allora non so, questo probabilmente è un caso, una combinazione, un insignificante caso nel quale, ma capita, un regime dittatoriale si è comportato, con una singola persona, che poi sono io, in modo più liberale di un regime liberale e democratico, ma, a parte questo caso personale e insignificante, se devo giudicare dalla mia esperienza, quella che è venuta dopo, mi vien da dire che era più adatto, per esercitare la libertà, il regime sovietico, ma non perché fosse un regime dove la gente la trattavano meglio, no, per un altro motivo, per il fatto che io son laureato in russo, e quando sono andato in Russia la prima volta, la Russia che ho conosciuto io era proprio l’Unione Sovietica e io, appunto, l’avevo sentito dire tante volte che da noi, in Occidente, c’era la libertà, e che là, nel blocco sovietico, la libertà non c’era mica, ma non lo so, io già ero partito che avevo dei dubbi perché, due anni prima, avrei voluto andare negli Stati Uniti d’America mi avevan rifiutato il visto, due anni dopo, quando son stato di là, nel blocco sovietico, ho conosciuto della gente che faceva una vita, ho visto degli esempi di libertà individuale, in Unione Sovietica, sul lavoro, per esempio, là non c’era disoccupazione e avevano tutti più o meno lo stesso stipendio, e la minaccia del licenziamento, la sottomissione, servile, ai propri superiori, che, qui da noi, a me sembra che sia abbastanza diffusa, di là non c’era, ma non perché loro son meglio, non aveva senso, sottometterti in modo servile a dei capufficio che non avevano su di te quasi nessun potere, e questa era la situazione generale, poi c’erano dei casi individuali di limitazioni della libertà che si trasformavano però nel loro contrario; c’è un mio amico, per esempio, che è uno storico della città di Pietroburgo e gli avevano impedito di fare il suo lavoro perché era un antisovietico, seguito dalla polizia segreta, e è stato costretto a lavorare in fabbrica e ha continuato a studiare per conto suo, di notte, e andava in biblioteca al sabato e alla domenica, e lui per tutta la vita, se la libertà fosse un muscolo, che si rafforza con l’esercizio, che un po’ forse è così, no?, come tutte le altre cose, be’, se fosse un muscolo, o un fascio di muscoli, come i muscoli addominali, che lì non si scappa, si sente al tatto, o ce li hai o non ce li hai, non te li danno gli altri, te li fai su te, con la pratica, be’, è come se lui, quel mio amico lì, che si chiama Al’bin, la sua libertà l’avesse esercitata tutti i giorni per quarant’anni e l’Unione Sovietica è stata la palestra ideale, per lui, e andava in giro per l’Unione Sovietica con il suo ventre piatto da pugilatore e guardarlo andare era un piacere.

Invece da noi, a parte gli aumenti di stipendio, quante cose ci ha fatto ingoiare la prospettiva di un aumento di stipendio, di un misero aumento di stipendio, ma a parte quello, in generale, da noi, in Occidente, sei convinto che intorno a te c’è la libertà, non ti viene da esercitarla, la libertà, ce l’hai, te l’han data, te l’han regalata, cosa la eserciti a fare, è lì, lo fai quando vuoi, quando c’è bisogno, solo che poi, quando c’è bisogno, quei muscoli lì, si sono un po’ inflacciditi e magari non sei più capace.

In questi giorni sento spesso, intanto che vado in giro per strada, le canzoni di Bulat Okudžava, un cantautore russo di origini georgiane, e in una, intitolata La lunga strada, c’è un verso che dice: «Quello che non perdi, caro mio, non lo trovi».

E a me, credo si capisca perché, mi sembra che parli di noi.

Paolo Nori
Paolo Nori

Nato a Parma, nel 1963, abita a Casalecchio di Reno e scrive dei libri; l'ultimo si intitola Vi avverto che vivo per l'ultima volta. Noi e Anna Achmatova (Mondadori, 2023). Ha un blog: paolonori.it.

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