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  • Sabato 25 marzo 2023

Come si adotta il proprio figlio

Un pezzo della storia della famiglia di Chiara Albanese, raccontata nel suo nuovo libro sul funzionamento della politica

(ANSA / CIRO FUSCO)
(ANSA / CIRO FUSCO)
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That’s politica! è il nuovo libro di Chiara Albanese, giornalista di Bloomberg e conduttrice del podcast settimanale Politics. Il libro è pubblicato da Vallardi e ha una prefazione scritta da Francesco Costa, vicedirettore del Post, che lo presenta come “tre libri in uno”: un manuale con le informazioni fondamentali per orientarsi nella politica italiana, un resoconto dei giorni del “governo Draghi” e «la storia di come la politica, le sue decisioni e le sue mancate decisioni abbiano effetti molto concreti sulla vita di ogni famiglia», quella di Chiara Albanese.

Di seguito, un estratto che racconta un pezzo di vita della famiglia di Albanese, che già ne aveva parlato più in breve in una recente puntata di Politics.

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La lentezza della giustizia in Italia è famosa quasi quanto l’instabilità dei suoi governi. Tuttavia, il vero problema non è nella lunghezza dei processi (cosa che nessuno mette in dubbio), ma nella durata imprevedibile e variabile, che rende difficilissimo programmare il lavoro nei tribunali e nelle strutture collegate.

Tra l’apertura di un fascicolo della procura e una sentenza di primo grado in Italia trascorrono in media diciotto mesi, ma possono essere molti di più – con alcuni casi che restano sulle scrivanie dei giudici per anni –, o anche molti di meno. Come nel mio caso.

La pandemia ha infatti spostato la macchina della giustizia in un mondo virtuale in cui le udienze si tengono online o a volte non si tengono proprio, e la causa della mia famiglia è l’esempio perfetto: non partecipa per rappresentarci di persona o in videocall neanche il nostro avvocato, che carica invece in un portale online una memoria di quarantanove pagine racchiudente l’intera storia della mia famiglia.

È sullo stesso portale che meno di due mesi dopo il giudice risponde con la sua decisione: un documento di quattro pagine, con il quale viene accolto il ricorso della procura e con cui si chiede la rettifica dell’atto di nascita che abbiamo firmato a Fiumicino, un po’ emozionate, il giorno in cui è nato nostro figlio. La procura chiede di rimuovere ogni riferimento al genitore non biologico nonché il cognome di mia moglie da quello di nostro figlio, che ne ha due sul certificato di nascita originale, sui documenti di identità e sull’armadietto del nido.

Sull’atto di nascita originale custodito nel librone archiviato nel Comune di Fiumicino viene apposto un adesivo bianco, una sorta di Post-it, che copre il riferimento al nostro «progetto familiare». Da quel momento in poi io divento l’unica responsabile legale del
bambino, l’unica persona che può prendere decisioni mediche in sua vece, e l’unica con cui può andare all’estero. Divento un genitore single all’improvviso, senza mai aver visto un giudice e senza mai aver partecipato a un’udienza.

La decisione del giudice pone la mia famiglia davanti a una scelta: fare appello, quindi chiedere a un altro tribunale di analizzare il nostro caso, oppure cercare di raggiungere la parità di tutela su nostro figlio attraverso un altro strumento. Ma prima di svelare la
scelta presa, parliamo brevemente dei tre gradi di giustizia in Italia.

Tribunale, appello, corte di Cassazione: i tre gradi della giustizia
In Italia il processo civile – nel quale rientra anche il caso della mia famiglia – è diviso in una scala a tre gradini: il primo grado, l’appello e la Cassazione. Il primo grado è quello che si svolge nei tribunali territoriali e che viene assegnato a un magistrato
ordinario: è il nostro caso, con la sentenza che accoglie il ricorso della procura. Nella maggior parte dei casi si risolve con relativa velocità e senza grandi cerimonie, anche perché è solo il primo gradino della scala, e fare appello, quindi passare al secondo, è spesso una decisione scontata e prevista nella strategia di difesa di un avvocato. Si sale il primo gradino guardando già quello dopo.

Il secondo grado viene gestito nelle corti d’appello: il nome deriva dal fatto che la decisione finale viene presa collegialmente da tre magistrati, ed è qui dove le sentenze di primo grado vengono «appellate», o impugnate. Si tratta di tribunali più strutturati, e ce ne sono solo ventisei in Italia situati nelle principali città.

Infine c’è la Cassazione. La corte di Cassazione è solo a Roma, ed è la corte suprema in Italia.

Se state facendo confusione con la Corte costituzionale non siete i soli: nel rileggere le sentenze per le famiglie omogenitoriali di cui abbiamo parlato è successo anche a me di confondere una corte con l’altra. A dire il vero, anche se tutte e due pubblicano sentenze che hanno molta attenzione pubblica, soprattutto quando si toccano temi sociali e politici – pensiamo per esempio all’eutanasia –, queste istituzioni hanno compiti e dimensioni diverse.

Ma mentre la Corte costituzionale ha il ruolo di monitorare che la Costituzione sia rispettata e interpretata correttamente, quella di Cassazione ha l’ultima parola su tutti i casi in cui si voglia ancora un’opinione. È molto più grande della Corte costituzionale, e ogni anno pubblica circa 100.000 sentenze, relative alle migliaia di casi che arrivano fino all’ultimo gradino della scala, il terzo. Da fuori il Palazzo di Giustizia dove la Cassazione ha sede è un pugno in un occhio: enorme, bianchissimo, eccessivo, tanto da essere soprannominato «il Palazzaccio».

Le decisioni prese dalla Cassazione sono un po’ speciali. Non solo perché sono quelle definitive su uno specifico argomento, ma anche perché sono decisioni politiche. Anche se non diventano legge, ma si applicano al caso specifico, offrono una guida su come evolve la giustizia in Italia, fanno storia e giurisprudenza. Influenzano le decisioni prese dai giudici sui gradini più bassi della scala, le strategie degli avvocati che seguono questi casi e le scelte di amministratori locali, inclusi i sindaci; possono avere un impatto sull’attività di legislazione fatta dal Parlamento su un tema.

Ogni famiglia omogenitoriale che inizia a salire la scala della giustizia italiana, per scelta o per necessità, racconta un caso unico nel suo genere, ma alcune di queste storie arrivate al terzo gradino diventano casi politici che vanno oltre la singola storia.

Questo meccanismo è molto chiaro nel caso dei riconoscimenti delle famiglie fatti dai sindaci, che si interrompono proprio dopo una serie di sentenze della Cassazione.

È proprio l’orientamento contrario della Cassazione al riconoscimento di due mamme alla nascita che porta la mia famiglia a scegliere un’altra strada per garantire la stessa tutela a nostro figlio: quella dell’adozione.

Le adozioni non sono tutte uguali
Torniamo alla fine della primavera dei diritti: siamo al 3 aprile del 2020 quando, con una sentenza, la Cassazione comincia a indicare la propria contrarietà ai riconoscimenti fatti dai sindaci alla nascita. La decisione limita la possibilità per due mamme di firmare insieme un atto di nascita, e nel farlo sposta allo strumento dell’adozione la modalità con cui si garantisce la tutela legale a queste famiglie. Ma le adozioni in Italia non sono tutte uguali. Vediamo perché.

L’adozione in Italia è regolata dalla legge 184, che da quando è stata approvata nel 1983 ha subito qualche piccola modifica ma nessuna rivoluzione: è quindi una legge legata a un contesto sociale di circa quarant’anni fa. L’adozione di un minore in stato di abbandono è permessa alle coppie unite in matrimonio da almeno tre anni, quindi non alle coppie di due donne o due uomini, in quanto per essere uniti in matrimonio in Italia si deve essere un uomo e una donna.

Ci sono anche casi di adozione indicati come particolari: quello di un minore adottato da un parente, quello dell’adozione del figlio biologico del coniuge/partner, detta anche stepchild adoption, e quello di minori portatori di handicap.

Quest’ultimo è il caso di Luca Trapanese, assessore al Welfare del Comune di Napoli che ha adottato da single una bambina affetta da sindrome di Down, ed è diventato una storia politica quando il 5 settembre 2022 ha invitato Giorgia Meloni a cena per presentarle la sua famiglia.

Per quanto riguarda l’adozione in casi particolari, le coppie di due donne o due uomini non sono previste dalla legge, ma neanche escluse in modo esplicito. Ricordate il colore dell’Italia sulla mappa dei diritti? L’Italia non è rossa perché, anche se non esiste una legge che permette a due donne o due uomini di essere riconosciuti genitori dello stesso minore, la stessa tutela si può ottenere in modo indiretto: fare richiesta di adozione in casi particolari.

Come si adotta il proprio figlio
Nel corso degli ultimi anni, l’adozione per casi particolari è diventato anche il percorso indicato per le coppie di due mamme e di due papà: quando la richiesta riguarda l’adozione del figlio biologico del partner si parla di stepchild adoption.

Le decisioni prese nel corso degli ultimi anni da tribunali, corti d’appello e corte di Cassazione infatti lasciano pochi dubbi e poco margine d’errore: la stepchild adoption è un percorso a basso rischio di sorpresa e con garanzie solide, in quanto una volta emessa la sentenza, questa è definitiva. A differenza di un certificato di nascita, un’adozione non si contesta, non si impugna, non si cambia.

Ma se l’esito è abbastanza scontato, il percorso che porta a una sentenza può durare anni, e come tutti gli altri casi che seguono l’iter della giustizia, ha una durata e un percorso difficili da prevedere. Costa sia per una famiglia, che deve mettere in conto diverse migliaia di euro per la parcella dell’avvocato, che per lo Stato, che finanzia l’intero meccanismo che prevede il coinvolgimento di un tribunale, e un complesso iter burocratico che contempla l’intervento di assistenti sociali e psicologi.

Ah, direte voi, ma allora se con l’adozione si risolve la questione, perché ne stiamo parlando?

Perché oltre a essere un percorso lungo, costoso per la famiglia e per lo Stato, che ingolfa la macchina della giustizia che già arranca con casi che non ne hanno bisogno, l’adozione ha un limite importante, che la rende uno strumento ingiusto. Per iniziare un percorso di adozione in casi particolari serve infatti il consenso del genitore legale, se in vita. Il genitore biologico deve dare il consenso all’adozione del minore da parte del partner, un consenso che diventa uno strumento di ricatto quando una coppia è in conflitto.

Si parla poco del conflitto nelle coppie composte da due donne o due uomini, ma arcobaleno non è sinonimo di «Mulino Bianco». Le coppie di due mamme e di due papà litigano e si separano come tutte le altre. Se nel caso di due genitori eterosessuali il diritto di famiglia garantisce, quando possibile, l’affidamento condiviso, quindi che padre e madre prendano insieme le decisioni più importanti per un minore, nelle coppie omosessuali un genitore dello stesso sesso non riconosciuto può essere liquidato senza alcun preavviso e senza possibilità di tutela legale. Un genitore legale può, per esempio, proibire gli incontri con un genitore non tutelato e tagliarlo fuori dalle decisioni educative, o mediche del figlio.

Come per qualsiasi coppia di genitori che si separa, anche con due mamme o due papà i figli sono spesso strumentalizzati in caso di conflitto, e il consenso all’adozione è uno strumento di ricatto affilato, in cui la lama ferisce profondamente chi non ha un legame biologico. Sono centinaia i casi gestiti dai tribunali con questo tema al centro.

Il secondo problema è che le adozioni sono un percorso pensato per tutelare bambini abbandonati o in situazione di difficoltà, e non bambini che nella maggior parte dei casi sono intenzionali, pianificati, desiderati, come nel caso di figli nati da due mamme e due papà.

La procedura prevede infatti incontri con assistenti sociali, colloqui con psicologi e la volontà di rendere pubblica la vita di una famiglia: la durata è imprevedibile – va da qualche mese a qualche anno – e cambia molto a seconda del caso e della fortuna. È un percorso che molte coppie scelgono di non affrontare per questi motivi.

In una coppia di due mamme, la disparità di diritti legali su un figlio è un tema tabù: anche nei litigi più furiosi, quelli in cui prudono le mani, in cui odi chi hai di fronte anche se lo ami, in cui si dicono cose di cui ci si pente nello stesso istante, un genitore legale non scivola mai sulla disparità di diritti. In molte famiglie separate, il genitore non legale vive nel terrore di perdere il diritto di vedere i figli in caso di separazione.

Le cose cambiano ancora quando un tribunale territoriale coinvolge la Corte costituzionale, chiedendo il suo intervento.

Si tratta del caso di una coppia di mamme che abitano a Padova, e che si è separata dopo la nascita di due gemelle. La madre legale vieta ogni contatto con la madre intenzionale, che per poter vedere le figlie si rivolge al tribunale di Padova. Il loro conflitto preclude anche l’accesso alla stepchild adoption, un percorso che, come abbiamo appena visto, prevede il consenso della madre legale. In questo caso il consenso non c’è.

Il tribunale di Padova chiede l’intervento della Corte costituzionale, che il 9 marzo 2021, con la sentenza numero 32, dichiara che la questione è inammissibile, in quanto non esiste una legge nazionale che possa essere applicata al caso specifico. Ma afferma una cosa che ancora non ha detto nessuno, e che lancia un messaggio politico chiaro a favore delle coppie omogenitoriali: invita il Parlamento a provvedere con urgenza con una legge specifica. Lo fa con parole severe: un’inerzia troppo prolungata da parte del Parlamento non verrà tollerata.

Ma anche dopo la sentenza di apertura della Corte costituzionale (che viene festeggiata con grande ottimismo dalle famiglie omogenitoriali), la corte di Cassazione non cambia linea.

Su tutti i casi che arrivano dai tribunali e dalle corti di appello, l’Italia mantiene la linea del no ai riconoscimenti alla nascita. Per questo motivo, la maggior parte dei Comuni italiani, incluso quello di Fiumicino, continua a tenere sospese le registrazioni.
Considerando questa costanza e direzione nelle sentenze di massimo grado, quando dobbiamo decidere se salire un altro gradino della scala della giustizia o accettare la sentenza di primo grado, scegliamo di iniziare un percorso di adozione, un percorso battuto, e di non portare avanti la battaglia legale. Non è una scelta facile, perché vuol dire arrendersi e scegliere di non credere che la giustizia ordinaria prevista dal sistema italiano possa tutelarci.

Non sempre una famiglia sceglie di salire la scala della giustizia fino in cima. Passare al grado di giudizio successivo non costa solo economicamente, ma anche dal punto di vista emotivo. Perdere un diritto con una sentenza fa sentire vulnerabili, esposti, tristi.

© 2023 Antonio Vallardi Editore, Milano