Le novità sul caso di Wissem Latif, il migrante morto in ospedale a Roma

Due infermieri e due medici sono indagati, mentre gli esami sul corpo hanno individuato la presenza di tre farmaci sedativi

 Wissem Ben Abdel Latif (Ansa)
Wissem Ben Abdel Latif (Ansa)
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Due infermieri e due medici del servizio psichiatrico dell’Asl Roma 3 sono indagati dalla procura per la morte di Wissem Ben Abdel Latif, un migrante tunisino di 26 anni che morì mentre era legato a un letto addossato al muro di un corridoio dell’ospedale San Camillo di Roma, il 28 novembre del 2021. Le quattro persone indagate erano di turno nei tre giorni in cui l’uomo è rimasto all’ospedale.

Nei mesi successivi alla sua morte le indagini sono proseguite, e gli esami autoptici eseguiti da un medico legale, incaricato dalla procura, hanno rilevato la presenza nel corpo di Latif di tre farmaci sedativi. I primi due, Talofen e Serenase, erano regolarmente annotati nella cartella clinica. Del terzo farmaco, di cui non è stato specificato il nome, non c’è traccia nelle annotazioni. Il Talofen è un farmaco antipsicotico che solitamente si inietta al paziente e viene usato per casi di schizofrenia, comportamenti aggressivi e agitazione psicomotoria, quella condizione che genera irrequietezza ed esagerata attività fisica e mentale, e per la quale viene utilizzato anche il Serenase, sempre tramite iniezione.

L’ipotesi della procura è che i due farmaci iniettati nel corpo di Latif uniti al terzo farmaco non segnalato nella cartella clinica possano aver provocato l’arresto cardiocircolatorio. L’avvocato della famiglia di Latif, Francesco Romeo, dice che se venisse confermata questa ipotesi si potrebbe parlare di omicidio volontario con dolo eventuale: «Si tratta di medici e infermieri, persone che conoscono i farmaci e sono ben consci delle conseguenze delle somministrazioni eccessive o delle interazioni tra le varie sostanze. Per questo parlo di dolo eventuale». Il dolo eventuale si ha quando si compie un’azione accettando il fatto che quell’azione possa avere come conseguenza un reato, anche grave. In altre parole c’è dolo eventuale quando si è coscienti che agendo in un determinato modo si possa danneggiare qualcuno, ma si decide di agire lo stesso in quel modo.

Dalle indagini della procura è emerso anche altro. Nelle 48 ore prima della morte di Latif, le sue analisi del sangue presentavano valori molto fuori dal normale. Quei valori però non portarono a nessuna segnalazione, come se nessuno li avesse visti oppure, pur vedendoli, avesse deciso di non tenerne conto.

Wissem Ben Abdel Latif era sbarcato il 3 ottobre 2021 a Lampedusa, in Sicilia, con altre 80 persone arrivate a bordo di un gommone. Dopo il loro arrivo vennero immediatamente rinchiuse in una “nave quarantena”: quell’anno, infatti, le regole per il contenimento del contagio da coronavirus prevedevano una quarantena di due settimane per i migranti arrivati in Italia, il cui conteggio però ripartiva ogni volta che nel gruppo c’era un caso positivo. Latif aveva come meta la Francia e venne trasferito nel Centro di permanenza per il rimpatrio (CPR) di Ponte Galeria, a Roma, dove protestò più volte per la reclusione e le condizioni di vita.

Il 25 ottobre Latif ebbe un colloquio con una psicologa che chiese una consulenza psichiatrica. Questa avvenne solo il 9 novembre. Quel giorno venne anche effettuata la diagnosi: schizofrenia psicoaffettiva, un disturbo in cui si alternano fasi di depressione, episodi di tipo maniacale e deliri a fasi di benessere. «Ma già prima» spiega ancora l’avvocato Romeo, «a Latif vennero somministrati psicofarmaci. Prima che ci fosse una diagnosi, questo è un dato certo. Chi lo decise? E in base a quale diagnosi, se ancora non era avvenuta?».

Il 23 novembre Latif, come racconta l’avvocato, «non resse il peso della permanenza nel CPR» e venne inviato all’ospedale Grassi di Ostia, dove rimase in una situazione di «costrizione meccanica», cioè con braccia e gambe legate al letto, per 37 ore e 30 minuti. Per questioni di competenza territoriale sui pazienti del CPR di Ponte Galeria, dopo due giorni Latif venne trasferito all’ospedale San Camillo di Roma nel reparto psichiatrico. Nei documenti del trasferimento è scritto che il paziente era «parzialmente collaborativo». Sicuramente durante il trasferimento non venne legato. «Però appena giunto all’ospedale» dice l’avvocato, «fu legato nuovamente. Non se ne comprende il motivo visto che prima non ne era stata ravvisata la necessità».

Latif restò legato per altre 63 ore, cioè dal 25 novembre, data dell’arrivo all’ospedale, fino alla sua morte, avvenuta il 28 novembre. Per questo l’avvocato Romeo ha presentato una denuncia nei confronti sia dell’ospedale Grassi di Ostia sia del San Camillo di Roma. La denuncia è per sequestro di persona aggravato. L’aggravante viene contemplata quando il reato è commesso da un pubblico ufficiale – in questo caso medici – e quindi con abuso di potere.

Sulla cartella clinica di Latif già il 25 novembre venne indicato che il paziente era «agitato, delirante, urlante» e che «si contiene per stato di necessità». Queste frasi si ripetono più volte nella cartella clinica, ma mancano alcuni dati nella cosiddetta “scheda di utilizzo della contenzione fisica” relativa al paziente, dove deve essere annotato tutto sul monitoraggio e l’assistenza: anche quando il paziente mangia, beve e va in bagno.

Il 26 novembre il referto di esami a cui era stato sottoposto Latif certificò una concentrazione nel sangue di creatinfosfochinasi (CPK) di 7.151 unità per litro. L’intervallo previsto per questo valore oscilla molto a seconda del tipo di esame, ma è normalmente compreso tra 20 e 300. Nel referto degli esami svolti all’ospedale Grassi il livello di CPK era di 243. La creatinfosfochinasi è un enzima coinvolto nell’attività muscolare e i suoi livelli aumentano nel caso di danni ai muscoli che possono riguardare anche il cuore, per esempio in caso di infarto.

Quel valore alterato avrebbe dovuto allarmare il reparto e forse indurre i medici a fare ulteriori esami, come un elettrocardiogramma, che però non ci furono. Nella cartella clinica venne scritto: «Paziente assolutamente non collaborante, tenta di colpire gli operatori, impossibile eseguire ECG». Secondo l’avvocato Romeo è strano che non si sia riusciti a fare l’elettrocardiogramma a un paziente costantemente legato al letto, tuttavia nel pomeriggio del 26 novembre venne nuovamente annotato nella cartella clinica: «Impossibile eseguire ECG per mancanza di collaborazione del paziente, aggressivo fisicamente».

In un’intervista a Repubblica Rania Latif, sorella di Wissem Latif, ha spiegato che suo fratello era diretto in Francia, dove avrebbe potuto lavorare assieme a uno zio: «Mio fratello era in buona salute, in piena capacità mentale. La prova è che Wissem, quando è arrivato al confine con l’Italia, è stato portato su una nave quarantena e non in un ospedale. Poi ha fatto delle foto quando era in prigione, al CPR, e c’è un video in cui parla del posto brutto in cui si trovava e chiedeva aiuto. Lui stava bene, protestava».