Non è facile capirsi su chi siano gli “indigeni”

Una categoria ambigua e con connotazioni dispregiative difficili da superare definisce senza criteri universalmente condivisi popolazioni differenti tra loro

indigeni
Una scena della serie “The White Lotus”

Nella prima stagione della serie televisiva The White Lotus, ambientata in un resort sull’isola hawaiiana di Maui, una delle ospiti comincia una relazione con un membro dello staff, un nativo hawaiano che si chiama Kai. Il rapporto si consolida attraverso il racconto che lui le fa della difficile esperienza di appartenere a una popolazione indigena di fatto costretta per ragioni di sopravvivenza a lavorare nel turismo, un’industria che porta ogni anno sull’isola una quantità di visitatori sei volte superiore alla quantità di residenti stabili.

I nativi hawaiani, discendenti dei navigatori polinesiani che colonizzarono le isole 800 anni fa, formano circa il 10,5 della popolazione hawaiana e sono considerati una delle numerose popolazioni indigene nel mondo. Non esiste un’unica stima ma, secondo le più diffuse, ci sono oltre 370 milioni di indigeni (o nativi, nativi originari, aborigeni, prime popolazioni) in circa 70 paesi nel mondo: se abitassero in un unico paese sarebbe il terzo più popoloso dopo Cina e India.

Una delle principali ragioni per cui non esiste un’unica stima è perché i criteri utilizzati per definire indigena una popolazione cambiano a seconda dei paesi, dei gruppi etnici e di molti altri fattori storici, sociali e culturali. Nelle Americhe, in Australia e nei paesi dell’oceano Pacifico lo status di indigeno è attribuito a gruppi che abitavano quei territori prima dell’insediamento degli europei. Ma in Asia e in Africa, per esempio, è attribuito a popolazioni con storie e sensibilità completamente diverse, inclusi gruppi che rifiutano questa definizione di sé stessi, o minoranze oppresse simili ad altre che in altri contesti non sono considerate indigene.

In un lungo articolo sul New Yorker lo studioso di origini indiane Manvir Singh, ricercatore del centro Institute for Advanced Study, a Tolosa, specializzato in biologia evoluzionistica e antropologia, si è chiesto se il problema della definizione di “indigeno” non sia la parola stessa e le connotazioni – in larga parte dispregiative – che si porta dietro dai tempi del colonialismo, e se una certa evoluzione del significato nel corso del tempo non fosse in qualche misura inevitabile.

Singh ha scritto di come i tentativi di tutelare i territori e la sovranità dei nativi del mondo – numerosissimi e diversissimi tra loro – si siano storicamente concretizzati, dopo il colonialismo e attraverso il sostegno delle organizzazione internazionali, in una crescente istanza comune di inclusione e integrazione sociale, politica ed economica delle popolazioni indigene. E i progressivi successi di quei tentativi hanno portato a estendere il concetto di “indigeno” in modo da comprendere il maggior numero possibile di persone oppresse e prive di potere, anche a costo di diminuire la coerenza all’interno della categoria e generare equivoci, dissensi e complicazioni nell’interpretazione.

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La parola “indigeno” deriva dal latino indigenus, composto dal verbo gignĕre (che significa “generare” e da cui deriva anche la parola “ingegno”) e dal prefisso indu- (una forma arcaica per in-, “dentro”). In italiano è di solito utilizzata più o meno nello stesso senso di “aborigeno”, “autoctono” o “nativo”, per indicare popolazioni e persone che, a quanto è dato sapere, siano sempre esistite in un certo territorio. Attestata in inglese (“indigenous”) fin dalla fine del XVI secolo, fu almeno inizialmente utilizzata anche per descrivere la flora e la fauna, rafforzando una certa relazione della parola con l’idea di natura incontaminata e priva di rapporti con la storia e la civiltà umane.

La connotazione dispregiativa e razzista diventò preminente durante il colonialismo, quando parole come “nativo” o “indigeno” cominciarono a essere utilizzate per distinguere i coloni bianchi (e spesso anche i loro schiavi) dagli abitanti non europei che già si trovavano nei territori occupati. Le politiche di contrasto di queste discriminazioni razziali diventarono in seguito un tratto condiviso di numerosi movimenti anticolonialisti nati in tutto il mondo nella seconda metà del Novecento, e favorirono le relazioni tra quei gruppi.

In Nuova Zelanda il partito delle Pantere nere polinesiane, esplicitamente influenzato dall’organizzazione politica afroamericana delle Pantere nere, lavorò insieme al gruppo di attivisti Ngā Tamatoa per difendere i diritti degli indigeni Maori e degli altri indigeni delle isole del Pacifico dalle politiche discriminatorie del governo neozelandese. Negli Stati Uniti organizzazioni di giovani attivisti nativi americani come l’American Indian Movement e il National Indian Youth Council guidarono il movimento sociale Red Power, per promuovere il diritto all’autodeterminazione per nativi americani degli Stati Uniti.

Essere indigeni diventò un’«identità globale», ha scritto Singh, perché condivisa da popolazioni che per quanto differenti tra loro – i Maori e i Sioux, per esempio – erano accomunate dal fatto di risiedere nei rispettivi territori da prima che quei territori venissero loro usurpati. In questo senso erano più che minoranze emarginate.

Secondo un rapporto del 2021 dello United Nations Permanent Forum on Indigenous Issues (UNPFII), l’organo di coordinamento centrale delle Nazioni Unite che si occupa delle questioni relative ai diritti delle popolazioni indigene, l’86 per cento degli indigeni vive in Asia, in Africa e nel Pacifico. Ma i criteri di appartenenza a questa categoria sono da tempo oggetto di discussione, a cominciare dalla questione centrale dell’essere una popolazione originaria di un certo territorio: condizione che, in alcuni casi, gli indigeni neanche sostengono.

Nella loro tradizione orale i Masai (o Maasai), il popolo di allevatori che vive sugli altopiani al confine fra Kenya e Tanzania, raccontano di discendere da una popolazione arrivata in Tanzania centinaia di anni fa, da una terra che chiamano Kerio e che si trova presumibilmente nei dintorni del Sud Sudan. E ci sono poi altri casi in cui discendere effettivamente dai primi abitanti conosciuti di un certo territorio non è un criterio di attribuzione dello status di indigena a una popolazione, né per le organizzazioni internazionali né nel senso comune. Non chiamiamo di solito “indigeni” gli islandesi, per esempio, nonostante discendano dai monaci irlandesi e dai normanni che per primi si insediarono sull’isola nel IX secolo.

Uno dei criteri di fatto sulla base del quale le popolazioni sono state o sono ancora considerate indigene è in molti casi, secondo pensatori come l’antropologo sudafricano Adam Kuper e il sociologo indiano André Béteille, la loro aderenza a uno stereotipo occidentale di primitività incorrotta e immutabile, di persone isolate dalla civiltà e dalla storia. Questo criterio ha generato una sorta di scala di autenticità utilizzata per misurare quanto una popolazione sia indigena, con il frequente risultato di penalizzare anziché proteggere quella popolazione: perché quegli standard, come ha scritto Joanne Barker, ricercatrice indiana americana Lenape della San Francisco State University, rendono «impossibile per i popoli nativi narrare le complessità storiche e sociali dello scambio culturale, del cambiamento e della trasformazione».

Una delle figure più influenti per l’attivismo degli anni Sessanta e Settanta e la definizione di un’identità indigena mondiale a livello istituzionale fu il leader politico George Manuel, nativo canadese della provincia della British Columbia. Fu presidente dal 1971 al 1976 della National Indian Brotherhood, la principale organizzazione dei popoli indigeni del Canada poi diventata l’Assemblea delle Prime Nazioni (Assembly of First Nations, AFN), nata nel 1982 sul modello dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Da presidente dell’organizzazione, all’inizio degli anni Settanta, Manuel ebbe modo di viaggiare nel Pacifico per conoscere le condizioni dei Maori in Nuova Zelanda e quelle degli aborigeni nel nord dell’Australia. E trovò elementi in comune tra tutti quei gruppi, incluso quelli degli indiani canadesi che rappresentava: erano tutti popoli indigeni non bianchi che lottavano per la terra, la rappresentanza e la sopravvivenza culturale in paesi del Commonwealth.

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Nel 1975 i delegati di 19 paesi, quasi tutti delle Americhe o dell’Oceania, si riunirono a Vancouver e fondarono il Consiglio mondiale dei popoli indigeni, un organismo internazionale di cui Manuel fu eletto primo presidente. Prima dello scioglimento, avvenuto nel 1996, il Consiglio si occupò per oltre vent’anni dei diritti economici, culturali, politici e sociali di oltre 60 milioni di persone nel mondo, oltre che della conservazione dei loro territori e delle loro risorse naturali.

Nel 1982 anche le Nazioni Unite istituirono un organo interno, il Gruppo di lavoro sulle popolazioni indigene (Working Group on Indigenous Populations, WGIP), con l’obiettivo di difendere i diritti umani e le libertà fondamentali dei popoli indigeni. Ma dalla metà degli anni Ottanta in poi la progressiva inclusione di gruppi indigeni asiatici e africani, inizialmente non rappresentati nel Consiglio mondiale dei popoli indigeni, generò crescenti dissidi interni e divergenze sulla definizione di un’identità transnazionale comune, che si adattasse a qualsiasi popolo indigeno e ne garantisse equamente la tutela dei diritti.

Le difficoltà e contraddizioni nell’individuazione di criteri condivisi emergono ancora oggi nel lavoro degli organi istituzionali che si occupano di indigeni. Al Forum permanente delle Nazioni Unite sulle questioni delle popolazioni indigene partecipano, tra gli altri, anche delegati della popolazione hmong del Minnesota (i hmong sono uno dei principali gruppi etnici in Cina e Vietnam). Ma altri gruppi come i rom dell’Europa orientale e i cristiani in Arabia Saudita, ha ricordato Singh, non godono dello status di indigeni.

La storia recente dei Masai è poi un esempio sia di come le attenzioni della comunità internazionale possano a volte determinare politiche penalizzanti per le comunità indigene, sia di come i dissidi possano nascere anche all’interno di quelle stesse comunità.

Per lungo tempo i Masai sono stati considerati un modello di primitività di riferimento, lo stereotipo di popolazione indigena più familiare e presente su cartoline, guide turistiche e documentari visti da milioni di persone in tutto il mondo. Ma la conservazione di quell’immagine fu un obiettivo perseguito per decenni dal governo della Tanzania anche a scapito dei Masai stessi, attraverso l’espropriazione delle loro terre per progetti di investimento sul turismo faunistico.

La cultura dei Masai tradizionalmente basata sulla pastorizia era infatti – ed è in parte ancora oggi – considerata dal governo incompatibile con la conservazione di quell’ambiente e sopratutto di quella immagine da cartolina (le praterie sconfinate piene di gnu). I leoni, per esempio, sono un’attrazione turistica fondamentale nei safari organizzati dalle riserve, ma allo stesso tempo sono predatori del bestiame allevato dalle popolazioni di pastori locali, i cui interessi non coincidono quindi con quelli alla base delle politiche nazionali sul turismo.

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A descrivere e rendere nota questa situazione al resto del mondo fu l’attivista Masai ed ex membro del parlamento tanzaniano Moringe ole Parkipuny, primo africano nella storia a parlare a Ginevra al gruppo di lavoro della Nazioni Unite sulle popolazioni indigene, nel 1989. Parkipuny spiegò che i Masai erano diventati nella percezione comune «un ostacolo al progresso» e che la difesa dei loro diritti implicava necessariamente una difesa della loro identità culturale e della loro terra.

Attraverso il lavoro di altre organizzazioni umanitarie non governative Parkipuny riuscì negli anni Novanta ad attrarre interesse e ottenere finanziamenti per le strutture e le spese necessarie per la tutela dei diritti di tutti i pastori e cacciatori-raccoglitori della Tanzania (non soltanto i Masai). Ma il suo lavoro gli procurò anche molte antipatie e avversioni: sia della popolazione della Tanzania, una cui parte considerava il lavoro di Parkipuny una promozione del tribalismo e dell’arretratezza, sia degli altri gruppi etnici, che lo consideravano un tentativo di stabilire un’oligarchia Masai attirando interessi soltanto verso un gruppo.

Il tentativo di attuare politiche di difesa dei diritti di una popolazione indigena in quanto tale finì quindi per ostacolare la costruzione di coalizioni inter-etniche e indebolire i legami interni, che sono invece fondamentali per l’integrazione delle minoranze oppresse, ha scritto Singh. E non fu sufficiente nemmeno a contrastare l’espropriazione dei territori. Nel luglio 2009 circa diecimila pastori Masai subirono le conseguenze di un esteso e violento piano di sgomberi nel paese di Loliondo, in Tanzania, e furono costretti con la forza a lasciare i loro villaggi e capi di bestiame.

Loliondo è una delle aree riservate periodicamente dal governo della Tanzania alla Otterlo Business Corporation, una società internazionale con sede negli Emirati Arabi Uniti che acquista diritti esclusivi di caccia per i propri clienti. Sono perlopiù sceicchi e milionari, che rimangono in Tanzania soltanto per brevi periodi dell’anno, mentre i Masai restano in disparte.

Descrivendo al Guardian la condizione dei Masai a fronte del turismo crescente nei loro territori, Parkipuny disse: «Un Masai va bene per una fotografia di un turista, per portare le valigie al campo, o anche per guidarti a vedere gli animali. Ma alla fine della fiera gli animali valgono molto più delle persone».