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  • Domenica 26 febbraio 2023

Trentacinque anni nel braccio della morte

Il giapponese Iwao Hakamada ha atteso per decenni di essere ucciso e ora aspetta la revisione del processo, a 86 anni

Il momento del rilascio di Hakamada ripreso da una televisione giapponese, nel 2014 (EPA/FRANCK ROBICHON)
Il momento del rilascio di Hakamada ripreso da una televisione giapponese, nel 2014 (EPA/FRANCK ROBICHON)
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L’Alta Corte di Tokyo, in Giappone, deciderà fra meno di un mese, il 13 marzo, se Iwao Hakamada merita una revisione del processo con cui è stato condannato a morte, la prima volta nel 1968 e definitivamente nel 1980, o se la sua condanna alla pena capitale debba essere considerata valida e quindi, in linea di principio, eseguibile. Hakamada è un uomo giapponese condannato per un quadruplo omicidio avvenuto nel 1966.

Oggi Hakamada ha 86 anni ed è affetto da problemi mentali causati da una detenzione solitaria durata per quasi mezzo secolo. Si è sempre dichiarato innocente e nel 2014 la sua lunghissima battaglia legale gli aveva garantito un nuovo processo e un’immediata scarcerazione: nel 2018 però l’Alta Corte di Tokyo aveva ribaltato questo verdetto, e il caso è tornato alla Corte Suprema (il quarto grado di giudizio nel sistema legale giapponese), che lo ha rimandato all’Alta Corte: quest’ultima dovrà decidere se fare un nuovo processo. Viste le sue cattive condizioni di salute, gli è stato permesso di attendere il verdetto in libertà. Nel 2011 era considerato il detenuto rimasto per più tempo al mondo in attesa dell’esecuzione della propria condanna a morte (considerando la prima condanna, avvenuta nel 1968, come inizio della sua detenzione).

Hakamada è stato ritenuto colpevole dell’omicidio dell’intera famiglia di quello che allora era il suo capo: nel giugno 1966 l’uomo, sua moglie e i loro due figli furono trovati accoltellati a morte a Shizuoka, nel Giappone centrale. Hakamada era un ex pugile, era divorziato e aveva attirato subito le attenzioni della polizia, che dopo un primo interrogatorio lo aveva rilasciato, non trovando prove o possibili moventi. Un mese dopo, con le indagini bloccate, gli investigatori lo avevano convocato di nuovo: gli interrogatori non prevedevano per legge la presenza di un avvocato, ma secondo quanto denunciato dagli avvocati e dalle ong erano durati oltre 240 ore complessive durante 20 giorni, con sessioni anche di 15 ore. Hakamada oggi non è più in grado di esprimersi, né pare comprendere dove si trovi, ma in passato ha detto di essere stato torturato e obbligato a firmare una confessione. Una prima teoria della polizia era che avesse una relazione con la moglie del capo, quella definitiva diventò un tentativo di furto di denaro.

Una scena del film “Box – The Hakamada Case” del 2010 (ANSA)

Alla confessione estorta si aggiunsero alcuni indumenti insanguinati che la polizia annunciò di aver trovato – ma solo 14 mesi dopo l’omicidio – nella fabbrica di miso (un condimento a base di soia fermentata) dove Hakamada lavorava. Secondo la polizia gli indumenti sarebbero stati immersi in una cisterna di soia per tutto quel tempo, ma nonostante questo avrebbero mantenuto le macchie di sangue. Inoltre i vestiti erano più piccoli della taglia portata da Hakamada, ma l’accusa disse che si erano ristretti perché immersi nel liquido della cisterna. Hakamada fu condannato a morte nel settembre 1968, nonostante le accuse fossero piene di incongruenze. Non ci furono mai altre persone sospettate.

Il Giappone ha un tasso di criminalità molto basso e ha un tasso di incarcerazione notevolmente minore rispetto ai paesi occidentali: 36 condannati ogni 100.000 abitanti, contro i 505 degli Stati Uniti o i 96 dell’Italia. Il tasso di condanne però è vicino al 99 per cento dei processi: in parte perché vengono portati in aula quasi unicamente casi in cui il colpevole sia piuttosto chiaro, ma l’abitudine culturale a considerare gli imputati quasi certamente colpevoli provoca enormi storture nel sistema giudiziario, sempre più denunciate negli ultimi decenni e a cui si sta cercando di mettere riparo.

La storia di Hakamada è diventata un esempio di queste storture e dei loro effetti: la sua condanna fu ratificata in secondo grado dall’Alta Corte di Tokyo e infine dalla Corte Suprema nel 1980. Subito dopo il verdetto definitivo, Hakamada venne trasferito nel braccio della morte. In Giappone l’esecuzione della condanna a morte può avvenire senza preavviso per il condannato, la famiglia o i suoi legali. Il detenuto viene a sapere della sua prossima uccisione solo poche ore prima della stessa e vive prevalentemente in una cella singola, in quasi totale isolamento. Per oltre 40 anni per Hakamada ogni giorno poteva essere l’ultimo, cosa che ha con ogni probabilità contribuito alla degenerazione delle sue condizioni mentali.

Subito dopo la condanna definitiva cominciò la battaglia legale per ottenere un nuovo processo, divenuta più intensa e sostenuta a livello internazionale negli anni Duemila. Nel 2008 i suoi legali ottennero infine che il sangue ritrovato sugli indumenti fosse sottoposto a un test del DNA: risultò non compatibile con quello del condannato e delle vittime. Hakamada fu scarcerato in attesa di un nuovo processo nel 2014, ma nel 2018 l’Alta Corte di Tokyo dichiarò il test del DNA non ammissibile. La Corte Suprema ha accolto l’appello della difesa nel 2020, invitando l’Alta Corte di Tokyo a valutare se celebrare un nuovo processo: indipendentemente dagli esiti del test del DNA, bisogna stabilire se è possibile che le macchie di sangue siano rimaste intatte dopo l’immersione nella soia per 14 mesi.

Hakamada attende la decisione finale in compagnia della sorella maggiore Hideko, oggi novantenne: quest’ultima sostiene che dopo la liberazione le sue condizioni di salute siano lievemente migliorate, anche se «vive nel suo mondo e non sembra rendersi conto di quanto accade intorno a lui».