La strage di civili greci compiuta dagli italiani a Domenikon, nel 1943

80 anni fa le milizie fasciste radunarono e uccisero gli abitanti di un paese della Tessaglia, in un episodio dimenticato per decenni

Civili fucilati da militari e volontari italiani della Milizia (Ansa)
Civili fucilati da militari e volontari italiani della Milizia (Ansa)

Il 16 febbraio 1943 le forze italiane di occupazione in Grecia radunarono e uccisero oltre 150 civili, seppellendoli poi in fosse comuni. La strage avvenne a Domenikon, un piccolo paese della Tessaglia che si trova poco più di 400 chilometri a nord di Atene, in cui oggi vivono meno di 700 persone. A compierla furono i fascisti appartenenti alla legione Aquila delle camicie nere di Salerno, e cioè più precisamente della Milizia volontaria della sicurezza nazionale. Con loro c’erano reparti della 24esima divisione di fanteria Pinerolo. Il comando della divisione era affidato al generale Cesare Camillo Benelli che, al termine dell’operazione, parlando con i suoi ufficiali la definì «una lezione salutare».

L’esercito italiano era impegnato in Grecia dal 1940. Su ordine del dittatore Benito Mussolini le truppe comandate dal generale Sebastiano Visconti Prasca iniziarono l’offensiva il 28 ottobre 1940, partendo dalle basi in Albania. Fin da subito non andò bene per gli italiani: furono respinti in due riprese dall’esercito greco che addirittura riuscì ad avanzare in territorio albanese. Nell’aprile 1941 la Germania nazista fu costretta a intervenire, attaccando e occupando Jugoslavia e Grecia. A quel punto gli italiani, al seguito dei tedeschi, entrarono nel paese partecipando alla spartizione del territorio. I tedeschi si presero Atene, Salonicco, Creta, la Macedonia e le zone di confine con la Turchia. Gli alleati bulgari occuparono la Tracia, mentre agli italiani spettò gran parte della Grecia continentale: Epiro, Tessaglia, Attica e Peloponneso, oltre a vari arcipelaghi.

La strage avvenne come rappresaglia dopo uno scontro tra le forze italiane e i partigiani dell’ELAS, acronimo che in greco sta per “Esercito popolare greco di liberazione”, fondato da Aris Velouchiotis dopo l’invasione nazista e fascista. Nello scontro tra partigiani greci e occupanti morirono nove fascisti italiani.

La rappresaglia per quelle morti colpì il paese più vicino al luogo dove era avvenuto lo scontro, Domenikon, in maniera del tutto sommaria, senza accertare il coinvolgimento di quella comunità nello scontro. Come ha scritto il giornalista Vincenzo Sinapi, responsabile della sede di Napoli dell’agenzia Ansa, nel libro Domenikon 1943, tutti gli «uomini validi» furono uccisi. Non si conosce il numero esatto: le fonti greche oscillano tra 152 e 173 morti. Secondo il generale italiano Carlo Geloso la strage doveva essere un avviso ai civili che venivano considerati, sempre più indiscriminatamente, fiancheggiatori dei partigiani.

La strage di Domenikon fu la prima di una serie. Scrive Vincenzo Sinapi: «Si stima che siano stati circa 400 i centri abitati rurali distrutti dalle forze di occupazione italiane o congiunte italo-tedesche durante la brutale campagna condotta nei primi mesi del 1943 nella Grecia continentale». Quella di Domenikon, insomma, è solo una delle tante stragi che vennero compiute dall’esercito italiano e dalle milizie fasciste in Grecia, Albania e soprattutto in Jugoslavia. Come ricorda nell’introduzione il libro di Sinapi, ci furono «rastrellamenti e incendi di abitati, prelevamento e fucilazione di ostaggi, deportazioni di uomini donne e bambini in campi di concentramento, torture e stragi, tutte misure draconiane prese per lo più in funzione antipartigiana, ma che hanno investito in pieno l’intera popolazione, facendo migliaia di morti, di vittime innocenti per le quali non c’è mai stata giustizia».

L’aveva, d’altra parte, annunciato lo stesso Mussolini in un discorso:

«Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre. È cominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto, per il bene del Paese e il prestigio delle forze armate. Non vi preoccupate del disagio economico della popolazione: lo ha voluto, ne sconti le conseguenze».

Nessun criminale di guerra italiano è mai stato consegnato alle nazioni che ne fecero richiesta alla fine della guerra. L’elenco è lungo. Ci furono 180 richieste da parte della Grecia, 140 dall’Albania, 750 dalla Jugoslavia oltre ad altre decine dall’Unione Sovietica. In Italia, nel 1946, venne istituita una commissione, la commissione Gasparotto (dal nome del parlamentare che la presiedeva), per indagare sui crimini compiuti dall’Italia nei paesi che aveva occupato insieme agli alleati tedeschi. Non furono prese in considerazione le richieste provenienti dall’Africa (Libia, Eritrea, Etiopia e Somalia). La commissione in cinque anni di lavoro produsse un elenco di 34 nomi che vennero segnalati alla magistratura militare italiana. Furono emessi dei mandati di cattura ma dando in pratica ai militari ricercati il tempo di rifugiarsi all’estero.

La relazione di minoranza di una commissione parlamentare d’inchiesta istituita nel 2003 per indagare sull’occultamento di crimini nazifascisti in Italia concluse che «la diplomazia e il governo italiani decisero di limitare le rivendicazioni nei confronti dei criminali di guerra tedeschi anche per paura che un’azione energica contro i tedeschi si ritorcesse a danno dell’Italia, impegnata a proteggere i propri cittadini reclamati per crimini di guerra da Stati esteri». In sostanza, reclamare i criminali nazisti avrebbe legittimato la richiesta di Grecia, Albania e Jugoslavia di processare, nei paesi dove le stragi erano state compiute, i criminali di guerra italiani.

In generale in Italia, rispetto agli altri paesi europei, c’è meno consapevolezza storica su alcuni crimini commessi in passato, specie nel periodo della Seconda guerra mondiale o nelle guerre coloniali, anche per via del mito degli italiani brava gente che resistette a lungo.

«È passato moltissimo tempo da quegli avvenimenti, non ci sarebbe nessun motivo per continuare a evitare certe verità» dice Vincenzo Sinapi. «Eppure, ancora è difficilissimo parlare del fatto che gli italiani compirono crimini durante la Seconda guerra mondiale. Oggi siamo un paese diverso, l’esercito non ha ovviamente più nulla a che fare con quello di Mussolini, eppure certi argomenti ancora vengono evitati. Nei libri di scuola non si accenna a ciò che fecero gli italiani come forze occupanti. È una parte di storia completamente omessa».

Di fatto la strage di Domenikon venne dimenticata per decenni. Solo grazie al documentario La guerra sporca di Mussolini del 2008 e a un articolo del settimanale L’Espresso vennero aperti due procedimenti da parte della magistratura militare italiana, nel 2010 e nel 2016, che si conclusero con l’archiviazione. La prima inchiesta, del procuratore militare Antonino Intelisano, valutò l’ipotesi di reato di “rappresaglia ordinata fuori dai casi consentiti dalla legge”: si concluse con l’archiviazione perché il reato era ormai prescritto.

La seconda inchiesta venne condotta dal procuratore Marco De Paolis. Questa volta l’ipotesi di reato fu “violenza con omicidio contro privati nemici aggravata dall’aver agito con premeditazione, per motivi abietti o futili, e dall’avere adoperato sevizie o aver agito con crudeltà contro le persone”. Anche questa inchiesta si concluse con l’archiviazione ma solo perché i responsabili della strage erano nel frattempo tutti morti. De Paolis scrisse una lettera al professor Efstatios Psomiadis, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime di Domenikon, esprimendo «amarezza per non aver potuto dare a Voi e alla Vostra Comunità la risposta positiva di giustizia che Vi è dovuta».

Scrisse De Paolis: «Sarebbe stato sufficiente iniziare l’indagine pochi anni prima». Psomiadis rispose: «Le crediamo quando dice che le persone fisiche responsabili dei crimini non sono più in vita. È anche certo però che queste persone non sono venute da sole, né in Grecia né nel mio villaggio. Le ha mandate lo Stato italiano ed erano rappresentanti dello Stato italiano. E di conseguenza anche lo Stato italiano ha tardato a fare giustizia di crimini di guerra nei confronti di civili, che non vengono mai prescritti. Non si dovrebbe svolgere un processo con imputato lo stesso Stato italiano come mandante?».

Secondo Sinapi «sarebbe ingenuo pensare che una rivisitazione del nostro passato possa affermarsi solo grazie a una sentenza di un tribunale o a un libro di storia», tuttavia partendo dalle carte d’archivio, dai documenti, si può far sì che eventi come la strage di Domenikon diventino «patrimonio collettivo degli italiani».

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