Le forme e gli oggetti che ci portiamo dietro nonostante il progresso

Per esempio il floppy disk nelle icone di salvataggio, o la cornetta del telefono: si chiama “scheumorfismo”

scheumorfismo
(Michael M. Santiago/Getty Images)
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Una caratteristica fondamentale dell’interfaccia grafica dei moderni sistemi operativi e software per computer è la presenza delle icone: piccole immagini associate a determinate funzioni. Di solito rappresentano in forma stilizzata oggetti un tempo più familiari di quanto lo siano ora: il floppy disk dell’icona che permette di salvare i file, per esempio. La relazione più o meno chiara che certi oggetti mostrano, sul piano estetico, con oggetti noti di altri tempi o di altri contesti è spesso definita “scheumorfica”, secondo un gergo diffuso in anni recenti soprattutto tra esperti di tecnologia, web designer e progettisti di software, ma che ha origini più lontane nel tempo.

La parola “scheumorfismo” – che deriva dal greco skeuos, “strumento, recipiente”, e morphḗ, “forma” – indica in generale un qualsiasi oggetto che per forma, aspetto o dettagli ornamentali richiami un altro oggetto, familiare in un’altra epoca o in un altro contesto. Un esempio di scheumorfismo sono le luci elettriche in plastica o altro materiale, ma fatte a forma di candela di cera. Oppure i copricerchioni delle auto che riproducono i raggi di una ruota, che è una forma non necessaria (e infatti ne esistono anche di altro tipo).

A volte gli scheumorfismi hanno ragioni puramente ornamentali: sono un modo per impreziosire l’aspetto di determinati oggetti raffigurando quello di altri oggetti simili ma più pregiati (i pavimenti in laminato con l’aspetto del parquet, per esempio). Altre volte rispondono soltanto al bisogno di rendere comprensibile e familiare qualcosa di nuovo, e accelerarne la diffusione imitando qualcosa che è già molto diffuso, o lo è stato. È un principio notoriamente alla base di molta parte della tecnologia digitale: la rappresentazione stilizzata di un calendario da tavolo sull’icona che avvia l’agenda, per esempio, o il suono dell’otturatore della fotocamera digitale che simula quello dell’otturatore di una macchina fotografica tradizionale, ma che potrebbe anche fare “boing”, e non cambierebbe molto.

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Nell’ultimo decennio la parola “scheumorfismo” è circolata prevalentemente come definizione di un approccio alla progettazione grafica in alcuni casi contestato e superato, in altri casi difeso e rimpianto. Ma, al netto di questo dibattito tra addetti, lo scheumorfismo definisce una prassi e un’estetica anche oggetto di interesse e attenzioni più estese.

Suscita una certa curiosità, in particolare, il fatto che l’uso quotidiano di dispositivi tecnologici da parte di milioni di persone nel mondo passi per la comprensione di icone che, in molti casi, raffigurano oggetti da tempo in disuso. La cornetta del telefono presente sulle icone di molte app e funzioni degli smartphone, per esempio, è la cornetta di un tipo di telefoni a filo che si vedono molto poco in giro. Per non dire del floppy disk, un oggetto praticamente scomparso e che alcune persone non hanno nemmeno mai utilizzato.

«Della serie “sto invecchiando”: un ragazzino ha visto questo e ha detto, “oh, hai stampato in 3D l’icona del salvataggio”»

La parola “scheumorfismo” fu coniata nel 1889 dal medico inglese e appassionato di archeologia Henry Colley March, in un saggio in cui annotò che alcuni manufatti antichi conservavano caratteristiche costruttive di oggetti ancora precedenti, fatti di un altro materiale: un motivo a intreccio scolpito su una brocca di ceramica, per esempio. March definì lo scheumorfismo una sorta di tendenza umana ineliminabile, che ha a che fare con la dimensione del desiderio e dell’aspettativa presenti in ogni cosa che gli esseri umani fanno.

Con il passare del tempo, come scritto dallo studioso inglese Dan O’Hara, che si è estesamente occupato degli scheumorfismi, il significato della parola è diventato via via più specifico. Fino a indicare la presenza, in un determinato oggetto, di un dettaglio ornamentale rappresentativo di qualcosa che un tempo era invece una caratteristica fisica necessaria nelle versioni precedenti di quell’oggetto.

Un esempio molto antico nell’architettura greca e romana sono alcuni elementi decorativi, come il triglifo, che raffiguravano sulla pietra elementi che erano funzionali in precedenza, quando gli edifici erano costruiti in legno (il triglifo richiamava la testata della trave che sporgeva dalla facciata dei templi). Esempi più recenti sono i piloni a volte costruiti all’estremità dei grandi ponti moderni, non come sostegno ma per dare alla struttura l’aspetto di un ponte più tradizionale, come nel caso del Sydney Harbour Bridge in Australia.

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Altri esempi di scheumorfismo citati da O’Hara sono alcune leve e quadranti nelle cabine di pilotaggio degli aerei moderni, in cui diverse funzioni già familiari ai piloti hanno mantenuto l’estetica precedente anche dopo che i controlli sono diventati perlopiù digitali. E sono scheumorfismi anche le “finte” prese d’aria di raffreddamento sulle auto elettriche, imitazione delle prese d’aria invece necessarie sulle auto con motore a combustione. Ma non è detto che gli scheumorfismi siano sempre il risultato di un’azione consapevole, spiegò O’Hara nel 2013 a BBC, affermando che possono in alcuni casi diventare parte di un’estetica che viene semplicemente ereditata, senza che ci sia una riflessione esplicita a riguardo.

Nel corso del tempo la parola “scheumorfismo” è diventata di uso comune soprattutto nell’ambito della progettazione di interfacce grafiche di software e sistemi operativi, man mano che sono aumentate le rappresentazioni digitali di determinati oggetti fisici. Nei primi anni Dieci del Duemila la parola circolò molto anche all’interno di un dibattito tra addetti su un certo approccio alla realizzazione di icone molto rifinite e dettagliate: approccio oggi screditato ma all’epoca prevalente.

Segnalando un certo abuso della parola e un parziale slittamento di significato, l’Economist obiettò che gli oggetti disegnati sulle icone dei computer non sono propriamente scheumorfismi bensì «metafore visive che richiamano alla mente uno scheumorfo fisico senza esserlo realmente».

Il cestino della spazzatura disegnato sull’icona sul desktop, in altre parole, non è l’eredità lasciata da «un vero bidone della spazzatura che una volta faceva parte del computer», scrisse l’Economist. Non è come la finta presa di raffreddamento sulle auto elettriche. Quel cestino è uno dei vari oggetti di ufficio che ai tempi del primo sviluppo delle interfacce grafiche i progettisti dei sistemi operativi scelsero come «metafore visive» di determinate funzioni.

Oggi è piuttosto comune parlare di stile o interfacce grafiche scheumorfiche in riferimento alla grafica di molti programmi per computer che emulano l’estetica di oggetti fisici noti. È una tendenza comprensibilmente molto diffusa nell’ambito dei cosiddetti emulatori, software con cui si emula su un particolare dispositivo il comportamento di un altro dispositivo, teoricamente con gli stessi risultati. Un esempio abbastanza chiaro di scheumorfismo di questo genere sono i software di sintesi musicale e di elaborazione audio la cui interfaccia grafica riproduce dettagliatamente strumenti musicali fisici o apparecchiature audio complete di pulsanti, potenziometri e quadranti.

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Una schermata del software di strumenti virtuali AmpliTube

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