• Konrad
  • Giovedì 2 febbraio 2023

L’Unione Europea si sta incartando sugli aiuti di stato

La Commissione Europea vuole cambiare delle norme ritenute da alcuni un po' datate, ma il piano non piace quasi a nessuno

I commissari europei Margrethe Vestager e Thierry Breton (Olivier Hoslet, Pool via AP)
I commissari europei Margrethe Vestager e Thierry Breton (Olivier Hoslet, Pool via AP)
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Mercoledì la Commissione Europea ha presentato un nuovo piano per sostenere con fondi pubblici le aziende europee che si impegnano a rendere più sostenibili dal punto di vista ambientale i propri processi di produzione. Il piano si chiama Green Deal Industrial Plan ed è considerata la risposta europea all’Inflation Reduction Act (IRA), approvato dagli Stati Uniti nell’estate del 2022, cioè il più grande investimento pubblico della storia americana per combattere il riscaldamento globale.

Il Green Deal Industrial Plan però sta ricevendo molte critiche e ha scontentato un po’ tutti. Il dibattito riflette le difficoltà che l’Unione Europea sta incontrando nel mettere mano alle proprie norme sui sussidi pubblici alle aziende private, piuttosto rigide. Secondo alcuni sarebbero eccessivamente datate e inadatte a un mondo in cui le principali potenze stanziano sussidi miliardari a favore delle proprie aziende. Altri invece ritengono che un eccessivo rilassamento di queste norme favorirebbe solo i paesi europei più grandi, gli unici che possono permettersi grandi finanziamenti, e che quindi aumenterebbero le disparità fra i paesi dell’Unione.

La discussione su una eventuale riforma delle norme europee sugli aiuti di stato è così delicata e spinosa che finora non era mai stata affrontata direttamente dalla commissione guidata da Ursula von der Leyen, a cui rimane poco più di un anno di mandato. Il piano ha l’obiettivo di sostenere le aziende più virtuose. Prevede in sostanza procedure più rapide e semplificate per le aziende che vogliono accedere a fondi e aiuti statali di entità ancora imprecisata; implicitamente dà inoltre più margine politico ai governi che intendono finanziarle.

Il piano sarà discusso dai capi di stato e di governo dell’Unione nel Consiglio Europeo previsto per il 9 e 10 febbraio a Bruxelles, in Belgio.

Difficilmente però si troverà un accordo. Le posizioni di partenza fra i diversi paesi – ma persino fra i diversi membri della Commissione – sono molto distanti. Il piano della Commissione non piace praticamente a nessuno, per ragioni diverse. E al momento sembra difficile anche solo immaginare un compromesso che soddisfi tutti, o quasi. «L’intera questione è una lama a doppio taglio», ha spiegato a Politico un diplomatico europeo che ha preferito rimanere anonimo: «Se rilassiamo troppo le norme, sbilanciamo l’integrità del mercato unico europeo. Se non facciamo nulla, dobbiamo ammettere di essere stati sconfitti».

Fin dagli anni Ottanta l’architettura economica della Comunità economica europea, che nel 1992 sarebbe diventata l’Unione Europea, venne impostata sulla base delle teorie dominanti di quel periodo, piuttosto esplicitamente liberiste. Il territorio dell’Unione diventò uno spazio senza barriere né tariffe doganali al proprio interno per persone, beni e servizi (il mercato unico europeo) con dei dazi uguali per tutti sulle merci provenienti da paesi esterni (la cosiddetta unione doganale).

Alle autorità dell’Unione Europea venne assegnato il ruolo di vigilare affinché questa libera circolazione, considerata una benevola forza distributrice di benessere e ricchezza, non venisse turbata in alcun modo. Nacquero così, fra le altre cose, le norme che vietavano quasi del tutto gli aiuti di stato, considerati una forma di concorrenza sleale di un paese nei confronti di un altro. Per ogni ingente aiuto di stato che si intende stanziare, le norme europee prevedono che ogni governo europeo debba chiedere una specifica autorizzazione alla Commissione Europea.

Questo approcciò provocò una riduzione degli investimenti pubblici e lo smantellamento di varie aziende statali, alcune delle quali avevano sviluppato forme di monopolio, e aprì alla concorrenza interi settori che fino a quel momento erano riservati a pochissime aziende, come ha ricordato di recente lo storico dell’integrazione europea Laurent Warlouzet. Furono liberalizzati il trasporto aereo e ferroviario, le telecomunicazioni, i servizi postali, la fornitura di energia e molti altri settori. Fra le altre cose queste liberalizzazioni permisero di fatto lo sviluppo delle compagnie aeree low cost: esistono studi secondo cui compagnie come Ryanair o Easyjet abbiano avuto grandi meriti nel processo di integrazione europea, avendo consentito a molte persone non esattamente ricche di lavorare, studiare o semplicemente visitare altri paesi dell’Unione.

Negli ultimi anni però questo approccio è stato sempre più criticato: l’ostilità dell’Unione Europea nei confronti degli aiuti di stato e più in generale di una spesa pubblica generosa ha spinto vari paesi a privatizzazioni e riduzioni del proprio bilancio, anche in settori delicati come la sanità, e a rinunciare a sussidiare aziende o settori in difficoltà. A partire dal 2015-2016, cioè in seguito alla ripresa dopo le crisi economiche globali del 2008 e del 2011, diversi governi europei hanno invertito la rotta e gli aiuti statali sono progressivamente aumentati, dopo anni di stagnazione.

Ancora nel 2009 però nell’Unione Europea sarebbe stato inconcepibile attuare un piano come quello che il governo statunitense adottò pochi mesi dopo l’inizio della crisi per salvare due giganteschi produttori di automobili come General Motors e Chrysler. Il presidente Barack Obama, eletto coi Democratici, le finanziò con un sussidio di emergenza da 80 miliardi di dollari per evitare che fallissero facendo perdere il posto di lavoro a decine di migliaia di persone. Più o meno negli stessi anni la Commissione Europea contestava al governo tedesco un sussidio da 83,7 milioni di euro a Volkswagen per stimolare la produzione di auto nelle regioni tedesche più povere.

I critici delle attuali norme sostengono inoltre che furono pensate in un periodo storico in cui quasi nessuno ipotizzava un ritorno di pesanti sussidi statali in alcuni settori specifici. Secondo alcuni lo scetticismo dell’Unione Europea nei confronti degli aiuti di stato ha fatto sì che i paesi europei abbiano già perso una guerra commerciale con la Cina per la produzione di prodotti tecnologici come pannelli solari o batterie, settori pesantemente sussidiati da anni dal governo cinese.

Nel 2019 la Commissione Europea impedì la fusione della tedesca Siemens e della francese Alstom, due grosse aziende nel settore del trasporto ferroviario, spiegando che avrebbero potuto ottenere una posizione di monopolio nel mercato europeo. Se si fossero fuse, Siemens e Alstom avrebbero creato la seconda azienda più grande al mondo nel settore, l’unica che avrebbe potuto tenere testa all’azienda statale cinese CRRC. All’epoca un funzionario tedesco commentò con Reuters la decisione della Commissione: «non hanno capito come funziona la Cina. Vivono in una bolla europea e non vedono i cambiamenti giganteschi che stanno avvenendo nel mondo».

Gli amministratori delegati di Siemens e Alstom durante una conferenza stampa congiunta nel 2017 (AP Photo/Thibault Camus, File)

I paesi più piccoli e quelli che hanno una tradizione economica piuttosto liberista – a volte le due caratteristiche coincidono, come nel caso della Danimarca – rimangono invece piuttosto contrari a qualsiasi rilassamento delle norme sugli aiuti di stato. In una lettera inviata la settimana scorsa al commissario europeo per il Commercio, Valdis Dombrovskis, i ministri delle Finanze di Finlandia, Danimarca, Repubblica Ceca, Estonia, Irlanda, Austria e Slovacchia hanno chiesto che l’Unione Europea non permetta «sussidi indiscriminati, permanenti o eccessivi» da parte dei governi nazionali.

Lo scontro è in corso anche all’interno della Commissione. La commissaria alla Concorrenza, Margrethe Vestager, è stata espressa dalla Danimarca e ha una posizione molto severa sugli aiuti di stato. Il commissario per il Mercato interno, Thierry Breton, è invece stato indicato dal governo francese ed è favorevole a un rilassamento delle norme europee. Mercoledì, durante la conferenza stampa di presentazione del piano della Commissione, il corrispondente di Radio Radicale a Bruxelles, David Carretta, ha notato che Vestager «ha passato più tempo a spiegare perché gli aiuti di stato siano pericolosi di quello usato a spiegare perché siano necessari». Qualche ora più tardi un portavoce di Vestager ha smentito le cifre indicate da Breton in un post pubblicato sulla sua pagina di LinkedIn per celebrare il piano della Commissione.

Per motivare la propria posizione, i paesi contrari a un rilassamento delle norme indicano soprattutto quello che è accaduto negli ultimi anni, quando prima la pandemia da coronavirus e poi la guerra in Ucraina hanno spinto la Commissione ad ammorbidire temporaneamente le proprie norme sugli aiuti di stato, per consentire ai governi nazionali di intervenire più rapidamente e sussidiare alcuni settori specifici.

I dati della Commissione Europea riportati dal Financial Times mostrano che i due paesi che hanno più beneficiato del rilassamento temporaneo delle norme, in termini assoluti, sono stati Germania e Francia. A partire dal marzo 2022, dopo l’invasione russa dell’Ucraina che causò un repentino aumento dei prezzi dell’energia, la Commissione ha concesso a Germania e Francia di stanziare rispettivamente 356 e 162 miliardi di euro di aiuti di stato per le proprie aziende. L’Italia è al terzo posto di questa classifica, molto staccata, con 51 miliardi di aiuti.

Anche per questo si spiega, verosimilmente, perché il governo guidato da Giorgia Meloni si sia già detto contrario al rilassamento delle norme sugli aiuti di stato proposto dalla Commissione. Il Sole 24 Ore ha pubblicato un documento del governo italiano in cui si nota che «oltre il 77% degli aiuti di stato approvati ai sensi dell’attuale regime è concentrato in due stati membri», cioè Germania e Francia, «e questo squilibrio potrebbe aumentare ulteriormente […] dal momento che non tutti gli stati membri dispongono dello stesso margine fiscale per fornire aiuti di Stato». Nella conferenza stampa di presentazione di mercoledì anche Vestager ha citato questi dati per arrivare alle stesse conclusioni del governo italiano: «i paesi europei non sono uguali, quando si parla di aiuti di stato».

– Leggi anche: Cos’è questa direttiva europea sulla casa che non piace al governo Meloni

I più favorevoli a una riforma delle norme insistono invece sul fatto che i benefici saranno più diffusi di quanto si pensi: per esempio potrebbe essere più facile raggiungere gli ambiziosi obiettivi dell’Unione Europea sul cambiamento climatico, se le aziende ricevessero sussidi statali per riconvertire i propri processi produttivi in maniera più sostenibile. E che più in generale sia necessario rispondere all’IRA per evitare che multinazionali e aziende europee decidano di spostare la produzione negli Stati Uniti.

Di recente il Financial Times ha raccontato il caso di Ecocem, una azienda irlandese medio-piccola che produce cemento a bassissime emissioni, che dopo l’approvazione dell’IRA ha deciso di raddoppiare un investimento da 120 milioni di dollari in programma per il suo stabilimento in California, negli Stati Uniti. Una dirigente di Ecocem ha parlato del «tappeto rosso» che hanno steso i funzionari americani per convincere l’azienda a investire in California, paragonandolo invece al trattamento ricevuto in Europa. Ecocem ha due stabilimenti in Francia, per i quali però non riceve alcun aiuto di stato. Un’azienda tedesca che lavora con l’idrogeno si è invece lamentata col Financial Times di dovere impiegare quattro dipendenti a tempo pieno per capire i bandi europei sulle fonti di energia sostenibili e fare domanda per alcuni progetti di finanziamento (i bandi europei, di qualsiasi tipo, sono spesso molto complessi).

Il piano della Commissione non ha ricevuto critiche soltanto dal punto di vista politico, ma anche da quello pratico. Politico nota che il piano prevede di stanziare dei soldi che in realtà non sono veri e propri sussidi, ma prestiti che i governi prima o poi dovranno restituire: sono quelli già stanziati e mai utilizzati, da alcuni paesi, per il NextGenerationEU, detto anche Recovery Fund.

Al momento sembra difficile che i governi nazionali stanzino nuovi fondi per un piano simile all’IRA. «Siamo molto recalcitranti, quando si tratta di fondi simili al NextGenerationEU», ha detto di recente il ministro delle Finanze tedesco, Christian Lindner, che invece ha una posizione più aperta sul rilassamento delle norme europee sugli aiuti di stato.