Come l’inflazione ha cambiato l’indice Big Mac

Il famoso indice economico elaborato dall'Economist è stato da poco aggiornato, ed è diventato un po' meno affidabile di prima

(Scott Olson/Getty Images)
(Scott Olson/Getty Images)
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Il Big Mac di McDonald’s non è solo il panino più famoso al mondo, ma dà anche il nome a un indice economico che da quasi quarant’anni mostra in modo semplice le grosse differenze nei poteri d’acquisto tra i vari paesi del mondo. Siccome il Big Mac è un bene diffuso e uguale praticamente in tutto il mondo, dal 1986 il settimanale Economist lo usa per elaborare l’indice Big Mac, che inizialmente nacque un po’ per scherzo, ma che con il tempo è stato ritenuto una buona base di partenza per analizzare il potere di acquisto delle valute di tutto il mondo. Il settimanale lo ha appena aggiornato e ha ammesso che l’inflazione in alcuni casi ha reso l’indice non proprio solidissimo.

L’indice si basa sulla teoria economica della parità di potere d’acquisto (PPA), secondo cui il tasso di cambio tra due monete, ossia quanto vale una in termini dell’altra (per ottenere 1 dollaro oggi servono 81 rupie indiane, per esempio), tenderà ad aggiustarsi nel lungo termine per far sì che gli stessi beni venduti in diverse parti del mondo abbiano infine lo stesso prezzo una volta espressi in una valuta comune.

Solitamente si mettono a paragone gruppi di beni, chiamati panieri, ma l’Economist per semplicità ha scelto il Big Mac, un prodotto distribuito da una multinazionale che lo serve uguale in tutto il mondo. McDonald’s ha spesso sottolineato, per ragioni pubblicitarie, che il panino è davvero uguale ovunque (e quindi uguali dovrebbero essere i prezzi).

In realtà, benché l’indice Big Mac dell’Economist sia ormai tenuto in considerazione da molti economisti, altri osservano che il sistema non è poi così affidabile. Il problema più citato riguarda proprio il fatto che il panino in realtà non è uguale in tutti i fast food di McDonald’s. Cambiano, infatti, il peso, i valori nutrizionali e le stesse dimensioni del panino. La versione del Big Mac per l’Australia ha il 22 per cento in meno di calorie rispetto a quella canadese, per esempio. Inoltre, in alcuni paesi dove il consumo di carne bovina è molto basso per questioni religiose, come in India, la carne rossa viene sostituita con quella di pollo.

In ogni caso, l’indice Big Mac tra due paesi è ottenuto dividendo il prezzo di un Big Mac in un dato paese (nella sua valuta) con quello di un Big Mac in un altro paese (espresso a sua volta nella sua valuta). Il dato viene poi confrontato con l’effettivo tasso di cambio tra le monete dei due paesi presi in considerazione, quello che si osserva sui mercati finanziari, per capirci. Se il numero si rivela più basso, allora la prima valuta è sottostimata rispetto alla seconda, almeno nella teoria della PPA. Se invece è più alta, significa che la prima valuta è sopravvalutata.

Facciamo un esempio: agli attuali tassi di cambio un Big Mac, che viene venduto negli Stati Uniti a 5,36 dollari, costa solamente 207 rupie (2,54 dollari) in India, mentre in Svizzera viene venduto a 6,7 franchi (7,27 dollari). Questo significa che con quella quantità di dollari si comprano più Big Mac in India, segno che le rupie sono meno care e che al contrario i franchi svizzeri sono abbastanza costosi.

Si tratta di un’indicazione di massima, da cui è difficile trarre qualche conclusione pratica: una moneta sottovalutata tenderà a guadagnare valore nel tempo così come una sopravvalutata tenderà a perderlo, in modo che entrambe vadano verso l’equilibrio? Nei libri di macroeconomia funziona esattamente così, ma l’indice Big Mac, per decenni, ha contribuito a dimostrare che nella realtà le valute si muovono più guidate da fattori finanziari che commerciali, quindi da ragionamenti degli investitori piuttosto che da dinamiche basate sull’economia reale e sull’acquisto di beni.

Oggi però l’indice Big Mac può raccontare anche un’altra storia, ossia come l’inflazione ha colpito in modo diverso i vari paesi. Il costo di produrre un panino non è solo la somma del prezzo di pane, hamburger, formaggio e cetriolini, ma include anche l’affitto dei locali, la manodopera e l’energia, che cambiano da paese a paese e che sono aumentati a un ritmo spesso non omogeneo. In più, ci sono anche le varie strategie delle banche centrali nel combattere l’inflazione, che stanno aumentando i tassi di interesse con intensità diverse e con ritmi diversi. Le differenze di prezzo possono quindi raccontare anche come l’inflazione ha cambiato il costo di produzione di un panino.

L’Economist ha da poco aggiornato il suo indice e ha pubblicato un nuovo grafico in cui sono indicati i cambiamenti dal 2021 a oggi. La valuta di riferimento è il dollaro e le linee orizzontali mostrano quali valute si sono svalutate o sopravvalutate rispetto alla moneta statunitense.

Tuttavia, la teoria della parità del potere d’acquisto in alcuni casi non si è rivelata valida. Negli Stati Uniti il prezzo medio di un panino è cresciuto di oltre il 6 per cento fino ad arrivare a 5,36 dollari. Secondo la teoria della parità del potere d’acquisto, quando i prezzi aumentano in un paese la sua valuta dovrà svalutarsi, in modo che l’indice Big Mac resti costante. In questo modo il prezzo non si discosterà mai così tanto da quelli del resto del mondo.

Invece, negli ultimi due anni il valore del dollaro è notevolmente aumentato rispetto alle altre monete. Il motivo è che l’inflazione è tornata un po’ ovunque, non solo negli Stati Uniti, con intensità molto diverse da paese a paese. Ci sono paesi dove i prezzi sono aumentati di più rispetto agli Stati Uniti, eppure il rafforzamento del dollaro ha più che compensato queste differenze. Insomma: mentre la teoria della parità del potere d’acquisto prevede che le valute vadano gradualmente verso l’equilibrio, in realtà in questi ultimi anni si sono allontanate, e l’indice Big Mac non è in grado di cogliere questi cambiamenti.

Parte del rafforzamento del dollaro è spiegato da alcune dinamiche finanziarie che l’indice Big Mac non riesce a descrivere: per esempio, il dollaro si è notevolmente rafforzato rispetto alle altre valute perché in tempi di crisi il dollaro è considerato un bene rifugio, ossia una sicurezza da avere in caso le cose vadano male dal punto di vista economico. È una tendenza normale e perfettamente in linea con le tradizionali tendenze dell’economia, anche se mostra come l’indice Big Mac racconti solo una parte della storia.

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