Già nel Trecento c’erano italiani che sapevano dell’esistenza dell’America

La chiamavano “Marckalada”: lo ha scoperto il filologo Paolo Chiesa, studiando un libro medievale sconosciuto fino a pochi anni fa

Dettaglio della "Carta catalana", risalente al 1450-1460, e conservata nella Biblioteca Estense di Modena (Estense Digital Library)
Dettaglio della "Carta catalana", risalente al 1450-1460, e conservata nella Biblioteca Estense di Modena (Estense Digital Library)
Caricamento player

Intorno al 1340, circa 150 anni prima che Cristoforo Colombo arrivasse nei Caraibi, in Italia qualcuno sapeva già che navigando verso ovest nell’oceano Atlantico si incontravano altre terre. La prova è in un libro medievale in latino il cui contenuto era quasi del tutto sconosciuto fino a qualche anno fa. Ne esiste un’unica copia manoscritta, che appartiene a un collezionista straniero di cui non si conosce l’identità: s’intitola Cronica universalis e fu scritto da Galvano Fiamma, un frate domenicano vissuto a Milano tra Duecento e Trecento.

Fiamma scrisse che a ovest della Groenlandia c’era un’altra terra e la chiamò “Marckalada” o “Marchalanda”: un’evidente traduzione di Markland, uno dei nomi che i vichinghi diedero alle terre che incontrarono nelle loro esplorazioni dell’Atlantico. È la più antica menzione del continente americano che sia stata trovata in documenti dell’area mediterranea e suggerisce che nel Medioevo le notizie e le informazioni circolassero più di quanto credessimo. Infatti, secondo l’ipotesi di Paolo Chiesa, il filologo e professore dell’Università Statale di Milano che con i suoi studenti è stato il primo a studiare e analizzare la Cronica universalis, Fiamma seppe dell’esistenza di Marckalada attraverso i marinai genovesi che a loro volta potrebbero averne sentito parlare grazie a scambi commerciali con il Nord Europa.

La scoperta è stata pubblicata nel 2021 sulla rivista scientifica Terrae Incognitae e Chiesa ha raccontato come è avvenuta in un avvincente saggio divulgativo appena pubblicato da Laterza, Marckalada. Quando l’America aveva un altro nome.

La storia comincia nel 1998 quando a Londra venne messo all’asta un manoscritto che secondo il catalogo di Sotheby’s conteneva i primi quattro libri del Chronicon maius, un’opera attribuita a Galvano Fiamma e nota tra gli studiosi del Medioevo. Il libro fu venduto per 42.024 dollari a una persona di cui non si conosce il nome, ma nel frattempo aveva attirato l’attenzione di Sante Ambrogio Céngarle Parisi, un professore di liceo, ora in pensione, e un conoscitore delle opere del frate domenicano milanese.

Come spiega Chiesa, «chi si occupa di manoscritti medievali consulta abitualmente i cataloghi d’asta, dove spesso sbucano codici mai segnalati prima o, pur già segnalati, successivamente dispersi». Céngarle ipotizzò che il manoscritto venduto da Sotheby’s fosse uno che nel Settecento apparteneva ai monaci della basilica milanese di Sant’Ambrogio e di cui poi si erano perse le tracce. Sulla base delle scarne informazioni sul catalogo d’asta sospettò che non fosse una copia del Chronicon maius.

Céngarle scrisse a Sotheby’s per chiedere chi avesse comprato il manoscritto: la casa d’aste non glielo rivelò, ma inoltrò la sua lettera a questa persona e alla fine Céngarle ricevette una risposta da un intermediario disponibile a dirgli qualcosa in più sul libro. Così, pur senza vederlo, Céngarle poté confermare le sue ipotesi.

Anni dopo, nel 2015, Paolo Chiesa, che alla Statale di Milano insegna letteratura latina medievale e filologia mediolatina, ebbe invece la possibilità di sfogliarlo tutto. Le leggi degli Stati Uniti e di molti altri paesi, a differenza di quelle italiane, non obbligano chi possiede manoscritti medievali a renderli disponibili agli studiosi. L’intermediario con cui Céngarle lo aveva messo in contatto però concesse a Chiesa di esaminarlo brevemente, per un’ora, in una biblioteca privata di New York.

Allora Chiesa era incuriosito dal manoscritto, ma non pensava che vi avrebbe scoperto qualcosa di particolarmente interessante. Le opere di Galvano Fiamma sono perlopiù dei collage di testi di altri autori che il frate riscrisse, sempre citando le fonti, per creare degli ambiziosi ma spesso incompiuti e molto ripetitivi libri di storia, che per la maggior parte riguardano la città di Milano. Fiamma non è considerato un bravo scrittore e come altri autori medievali mescolava informazioni verosimili e ben documentate ad altre più fantasiose, o evidentemente leggendarie.

L’interesse di Chiesa era dovuto più che altro al fatto che il manoscritto potesse essere un’opera fino a quel momento sconosciuta agli studiosi. Gli bastò sfogliarlo brevemente per capire che era davvero così e per questo nel breve tempo che lui e un suo allievo poterono passare insieme al libro ne fotografarono tutti e 156 i fogli.

Il manoscritto è scritto in un latino medievale che non è semplice da leggere e interpretare, ed è lungo più o meno quanto un libro contemporaneo di 500 pagine. Chiesa coinvolse un gruppo di studenti che dovevano fare la propria tesi di laurea per analizzarlo e tradurlo. All’inizio del 2019 la studentessa di lettere classiche Giulia Greco trovò nella parte del manoscritto che le era stata affidata una delle due menzioni di Marckalada.

I marinai che frequentano i mari della Danimarca e della Norvegia dicono che oltre la Norvegia, verso settentrione, si trova l’Islanda. Più oltre c’è un’isola detta Grolandia, dove la Stella Polare resta alle spalle, verso meridione; la governa un vescovo. Lì non c’è né grano né vino né frutti, ma vivono di latte, di carne e di pesce. Abitano in case sotterranee; parlano a bassa voce ed evitano i rumori, per non essere sentiti dagli animali feroci che li sbranerebbero. Lì vivono enormi orsi bianchi, che nuotano nel mare e portano a riva i naufraghi; e li vivono falchi bianchi dal volo imponente, che vengono mandati all’imperatore dei Tartari nel Catai. E ancora oltre, verso occidente, c’è una terra chiamata Marckalada. Gli abitanti del posto sono dei giganti: esistono edifici di pietre così grosse che nessun uomo sarebbe in grado di metterle in posa, se non grandissimi giganti. Lì si trovano alberi verdi, animali e moltissimi uccelli. Però non c’è mai stato nessun marinaio che sia riuscito a sapere con certezza notizie su questa terra e sulle sue caratteristiche.

L’aspetto notevole della menzione di Marckalada è che non è associata alla citazione di un testo di un altro autore, diversamente da tutte le altre informazioni messe insieme da Galvano Fiamma. Si dice solo: «I marinai dicono…».

I testi più antichi in cui viene citato il nome “Markland” in riferimento a terre a ovest della Groenlandia sono la Saga dei groenlandesi e la Saga di Erik il Rosso, due delle raccolte di storie medievali islandesi, in parte basate su fatti reali, che inizialmente erano trasmesse per via orale e poi furono trascritte in lingua norrena intorno al Duecento (è la lingua antenata di norvegese, svedese, danese e islandese, quello che per l’italiano è il latino). Ma Galvano Fiamma non aveva a disposizione questi testi e non sono note opere scritte in latino e diffuse in Italia ai suoi tempi che li citassero. Per questo Chiesa ha escluso che il frate sapesse di Markalada grazie a un libro.

L’ipotesi che ne fosse venuto a conoscenza parlando con dei marinai, o con qualcuno che aveva parlato con dei marinai, è invece sostenuta da un’altra storia contenuta nella Cronica universalis: riguarda un gruppo di viaggiatori provenienti dall’Etiopia che intorno al 1313 arrivarono a Genova e parlarono con un prete che mise per scritto ciò che gli dissero. Il testo del prete è andato perduto, ma Galvano Fiamma lo cita e probabilmente lo inglobò interamente nel suo libro.

Sapendo per certo che il frate milanese avesse contatti a Genova si può dunque pensare che i marinai informati su Marckalada fossero appunto genovesi. Di più per il momento non si può supporre, ma questo basta per dire che molto probabilmente nella città d’origine di Cristoforo Colombo qualcuno sapesse dell’esistenza dell’America un secolo e mezzo prima del 1492.

– Leggi anche: Abbiamo le prove che i vichinghi erano in America 1.000 anni fa