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  • Giovedì 15 dicembre 2022

Cinquant’anni di obiezione di coscienza alla leva militare

La legge 772 del 1972 contribuì al riconoscimento del diritto di rifiutare il servizio militare per ragioni etiche

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Alla fine della scorsa settimana il presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha detto che verrà presentata una proposta di legge per introdurre una leva militare volontaria di quaranta giorni, definita «mini naja» da lui stesso e dai giornali (la “naja” è la leva militare, in gergo). Ripristinare la leva in qualche forma è un vecchio “cavallo di battaglia” di La Russa e della destra, ma le sue affermazioni hanno comunque fatto discutere, anche perché sono arrivate a poca distanza dal cinquantesimo anniversario della legge che introdusse una prima forma di obiezione di coscienza al servizio militare, la 772 del 15 dicembre 1972. Fu un passaggio per molti versi storico, frutto di una lotta anche dura di movimenti pacifisti, anarchici e non violenti.

La Russa ha detto di essere dispiaciuto che la leva debba essere volontaria, ma «oggi come oggi renderla obbligatoria costerebbe in termini di risorse più di quanto è possibile ottenere». Tuttavia ha giudicato la proposta «un primo passo» in quel senso, mostrando un’eventuale disponibilità a invertire un processo durato anni, che culminò con la sospensione della leva obbligatoria e passò anche da quella legge del 1972.

La leva militare obbligatoria è sospesa dal 2005 grazie a una riforma dei primi anni Duemila, voluta tra gli altri dall’allora ministro della Difesa Sergio Mattarella, oggi presidente della Repubblica. Nei decenni precedenti, tra gli anni Settanta e i Novanta, era stata obbligatoria, ma con diverse eccezioni: ovviamente si veniva riformati per motivi di salute, ma si poteva anche rifiutare la leva per ragioni etiche e svolgere un altro periodo di servizio allo Stato. Prima della legge del 1972 invece non ci si poteva esentare appellandosi a convinzioni personali, ossia esercitando, appunto, l’obiezione di coscienza. Farlo significava commettere un reato militare e si poteva andare a processo per disobbedienza.

Manifestazione in favore dell’obiezione di coscienza in piazza San Pietro a Roma, ottobre 1971 (Archivio fotografico del Movimento Nonviolento)

Il primo e più celebre caso di condanna per obiezione di coscienza al servizio militare ci fu nel 1948, quando Pietro Pinna, attivista antimilitarista, rifiutò la chiamata. Pinna è considerato il primo obiettore di coscienza della storia italiana, fu condannato a diversi mesi di carcere e il suo caso ebbe anche una certa eco internazionale. Probabilmente per questo, in seguito alla sua condanna venne presentato un primo disegno di legge da parte di due deputati (uno socialista e uno democristiano) per riconoscere l’obiezione di coscienza. Tuttavia né questa né altre proposte negli anni immediatamente successivi andarono a buon fine.

L’antimilitarismo di Pinna non aveva forti connotazioni politiche, era legato più che altro a contingenze storiche: «All’epoca, nel ’48, si era appena usciti dalla tragedia della guerra», disse. «Guerra che aveva segnato in maniera indelebile gli anni della mia adolescenza. Allora non conoscevo i presupposti teorici del movimento non-violento. Non avevo letto Gandhi. Semplicemente, avevo vissuto gli orrori delle stragi, dei bombardamenti, e mi ripugnava l’idea di diventare parte di uno strumento, l’esercito, che è essenziale all’azione bellica».

Il gesto di Pinna, comunque, non sarebbe stato possibile senza l’attività del filosofo Aldo Capitini, che proprio in quegli anni organizzò un convegno riunendo vari obiettori e pacifisti, dando loro una categoria con la quale potersi definire. Prima di allora non c’era una formula linguistica per indicare l’obiezione, e di conseguenza l’istanza intellettuale faticava a formarsi, a prendere sostanza. Con il lavoro teorico di Capitini l’idea divenne più chiara, e poi con il caso di Pinna divenne definitivamente concreta. Tra le altre cose Capitini fu anche l’ideatore della Marcia della Pace da Perugia ad Assisi, nel 1961.

C’è un’evidente contiguità tra il principio della non violenza e la religione, tant’è vero che la prima occorrenza nota della formula “obiezione di coscienza” è di un sacerdote, don Primo Mazzolari, trovata in una sua lettera del 1941. Inoltre la stragrande maggioranza degli obiettori fino al 1972 erano Testimoni di Geova, che hanno sempre ritenuto incompatibile il servizio militare con il proprio credo. A questo proposito, Giulio Andreotti scrisse: «Negli anni Sessanta, quando ero alla Difesa, volli rendermi conto del fenomeno, che andava moltiplicandosi, delle obiezioni militari di coscienza da parte di giovani appartenenti ai Testimoni di Geova. Mi colpì, parlando con loro uno a uno nel carcere di Forte Boccea, la evidente ispirazione religiosa e l’estraneità da qualsiasi speculazione politica; non a caso si sottoponevano ad anni di prigione continuando nel rifiuto di indossare la divisa».

Parliamo comunque di numeri bassi. Secondo quanto ricostruito dallo storico Marco Labbate, fino al 1972 ci furono 706 obiettori di coscienza, di cui solamente 84 non erano Testimoni di Geova. Tra questi c’erano anarchici, antimilitaristi e anche qualche cattolico.

Eppure, all’inizio, la Chiesa non sostenne affatto gli obiettori di coscienza, anzi. Negli anni Cinquanta Pio XII disse che «un cittadino cattolico non può appellarsi alla propria coscienza per rifiutar di prestare i servizi e adempiere i doveri fissati per legge». Le cose cambiarono con il papato di Giovanni XXIII e soprattutto con l’attività di padre Ernesto Balducci e don Lorenzo Milani, promotori di una linea di pensiero all’interno della Chiesa molto vicina ai movimenti giovanili pacifisti e di sinistra. Don Milani in particolare venne processato due volte per apologia di reato, e scrisse una celebre lettera ai cappellani militari toscani che fornì fortissimi argomenti retorici in favore dell’obiezione di coscienza. Scrisse don Milani:

Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l’onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile? Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo? E se l’ordine era il bombardamento dei civili, un’azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l’esecuzione d’ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l’ordine d’un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari?

Negli anni Sessanta, insomma, il movimento che chiedeva un riconoscimento dell’obiezione di coscienza crebbe, anche con il sostegno di un pezzo della Chiesa ma soprattutto del Partito Radicale e di gruppi anarchici e pacifisti. Il contributo decisivo fu probabilmente dei radicali: la legge del 1972, infatti, venne approvata in seguito a un digiuno di Marco Pannella e Alberto Gardin che durò 37 giorni. Il 25 ottobre, dopo 27 giorni di sciopero, diffusero un comunicato in cui criticavano le lentezze parlamentari e dicevano di essere pronti «a portare fino alle estreme conseguenze, o fino al raggiungimento dei fini che ci siamo proposti, questa nostra forma di lotta».

Pannella durante una manifestazione del Partito Radicale (Archivio fotografico del Movimento Nonviolento)

La legge alla fine passò, ma come spesso è accaduto nella storia italiana fu comunque un avanzamento a metà in materia di diritti. Il motivo è che la legge aveva un grosso limite, cioè che le ragioni morali, religiose e filosofiche per rifiutare la leva dovevano essere sottoposte a un giudizio del ministero della Difesa e di una commissione terza. Di conseguenza l’obiezione non veniva riconosciuta come diritto, ma come eventualità ammessa dallo Stato, per giunta condizionata, e anche per questo le incarcerazioni di obiettori andarono avanti. Un altro limite della legge era il fatto che il servizio civile, pensato per sostituire quello militare, durasse 8 mesi di più, 20 invece di 12: un aspetto che poi nel 1989 venne dichiarato incostituzionale.

Chi non accettava il servizio militare non poteva poi lavorare nelle forze armate e nei corpi armati dello Stato (nemmeno nel Corpo forestale, per esempio) o per qualsiasi altro impiego che comportasse l’uso delle armi. Dal 2007 agli obiettori è concesso di rinunciare al proprio status e quindi possono accedere alle attività fino ad allora precluse.

La legge del 1972 venne abrogata e sostituita con la 230 del 1998, che riconobbe l’obiezione di coscienza come un diritto del cittadino e non come una concessione. A sua volta la legge del 1998 fu abrogata e sostituita dal decreto legislativo 66 del 2010. Oggi nell’ordinamento giuridico italiano vengono riconosciute tre forme di obiezione (anche se sarebbe più esatto definirla opzione o possibilità, dal momento che chi disobbedisce a un dovere ha il diritto di farlo): in ambito militare, nella sperimentazione sugli animali e in ambito sanitario.

Nel 2001 venne istituito invece il servizio civile nazionale, su base volontaria, ora noto come “servizio civile universale”: dura tra gli 8 e i 12 mesi a seconda del progetto, per 25 ore settimanali oppure 1.145 ore l’anno, e viene retribuito con 444,30 euro mensili.

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