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  • Mercoledì 26 ottobre 2022

Il Made in Italy degli americani

Il Washington Post racconta come l'origine reale dei prodotti italiani sia un'aspettativa seria anche per i clienti statunitensi

di Ben Brasch - The Washington Post

(Stuart Ramson/AP Images for Barilla USA)
(Stuart Ramson/AP Images for Barilla USA)
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Due scatole di pasta da 2 dollari hanno portato a una possibile class action che, secondo gli esperti legali, potrebbe costare a Barilla milioni di dollari. Una coppia di acquirenti di pasta, Matthew Sinatro e Jessica Prost, ha citato in giudizio l’azienda dicendosi convinta che la sua pasta fosse prodotta in Italia. Le scatole riportano lo slogan «Il marchio di pasta n. 1 in Italia» e dei loghi con i colori della bandiera italiana. Ma la pasta è fatta negli stati di Iowa e New York.

Sinatro e Prost sostengono che non l’avrebbero acquistata se avessero saputo che non era prodotta in Italia, origine apprezzata non solo per la creazione della pasta ma anche per la disponibilità di grano duro ad alto contenuto proteico necessario per la realizzazione di un prodotto di qualità.

La giudice federale Donna Ryu ha stabilito lunedì che ci siano le basi per portare avanti la causa: «Le accuse sono sufficienti a stabilire la sostenibilità costituzionale di un danno economico».

Barilla ha la sua sede statunitense in Illinois ma nasce come rivenditore di pane e pasta a Parma, in Italia. Le strutture in Iowa e New York utilizzerebbero ingredienti provenienti da paesi diversi dall’Italia, secondo quanto dichiarato nei documenti depositati in tribunale. Lo studio legale californiano che ha intentato la causa non ha risposto immediatamente alle richieste di commento del Washington Post.

Venerdì un portavoce di Barilla ha sostenuto che le accuse siano infondate, facendo presente che la dicitura sulla confezione dichiara che la pasta è prodotta negli Stati Uniti con ingredienti provenienti dagli Stati Uniti e altrove. «Siamo molto fieri dell’eredità italiana del marchio, del know-how italiano dell’azienda e della qualità della nostra pasta negli Stati Uniti e nel mondo».

A detta di alcuni professori di diritto esperti in pubblicità ingannevole, molti consumatori contemporanei ritengono di essere fuorviati o manipolati dalle aziende. Secondo Rebecca Tushnet, professoressa presso la Harvard Law School, il consumatore che paga un sovrapprezzo per ciò che considera un prodotto speciale, come il cioccolato svizzero, si sente fondamentalmente ingannato.

Sono sempre più frequenti, dice Tushnet, le cause per pubblicità ingannevole contro aziende che vendono prodotti negli alimentari, perché questo è uno dei pochi ambiti della società che non sia ancora stato intrappolato in clausole o contratti legali in cui i consumatori rinunciano al loro diritto di fare causa. Quindi, secondo Tushnet, ogni frustrazione repressa verso la manipolazione da parte delle aziende finisce riversata in una corsia di supermercato.

Tushnet dice che è comprensibile che qualcuno trovi ridicole queste denunce: difficilmente ci si può aspettare di acquistare a 2 dollari una cosa che sia stata prodotta a 6mila miglia di distanza. «In parte è una questione di buon senso», dice.
Ma come si fa a misurare il buon senso quando in ballo ci sono milioni di dollari?
Secondo Tushnet negli ultimi cinque anni circa c’è stato un aumento del numero di querelanti e imputati che commissionano sondaggi su casi di pubblicità ingannevole, per verificare la percezione comune dei messaggi pubblicitari.

Megan Bannigan, partner dello studio legale Debevoise & Plimpton, che ha difeso cause di proprietà intellettuale, dice che i sondaggi sono diventati uno strumento utile nei casi di pubblicità ingannevole. Quando ha iniziato a condurli quindici anni fa, dice Bannigan, il suo studio si installava in un centro commerciale sperando di riuscire ad attirare 400 persone in una stanza per fare loro domande su quale immaginavano fosse la provenienza di un certo prodotto e sulla loro eventuale reazione al venire a sapere di un luogo di origine diverso.

Ora è diventato molto più economico ed efficace, spiega, fare sondaggi online, che comunque possono costare tra i 20mila e 100mila dollari. E questa è solo una frazione della spesa totale, che in cause simili può arrivare a milioni di dollari. Bannigan ritiene plausibile che una o entrambe le parti del caso Barilla stiano conducendo dei sondaggi per sostenere quella che sembra una legittima questione legale: «Non mi sembra una montatura».

Gregory Klass, professore di diritto alla Georgetown University, sostiene che la storia della legge sulla pubblicità ingannevole inizi nel XIX secolo: «c’è una lunga tradizione di gente a cui importa sapere da dove viene ciò che mangia, così come altri prodotti. Cause come questa non stupiscono». Klass ricorda il noto esempio dei diritti esclusivi di denominazione associati allo spumante della regione francese Champagne.

– Leggi anche: Perché Italia e Croazia litigano sul prosecco

Per quanto riguarda la pasta prodotta in Iowa e New York, secondo Klass va stabilito innanzitutto quanto i consumatori ritengano importante che la confezione possa essere o meno ingannevole. Alexandra J. Roberts, professoressa di diritto alla Northeastern University di Boston, dice che alcuni consumatori di succo d’arancia Florida’s Natural si sono agitati perché l’azienda ora utilizza anche arance messicane.

La cooperativa agricola con sede in Florida è apprezzata per la sua qualità e la sua genuinità, e i consumatori, dice Roberts, accettano di pagare di più per quello che dice il nome sulla confezione: Florida’s Natural.

La prima voce nella pagina delle domande frequenti di Florida’s Natural spiega perché l’azienda non utilizzi esclusivamente arance della Florida: «Il raccolto di arance della Florida non può più soddisfare la domanda dei nostri consumatori, pertanto stiamo aggiungendo solo il miglior succo d’arancia messicano Valencia. Questo ci consente di continuare a soddisfare la crescente sete dei consumatori, pur mantenendo il gusto che tanto amano nei nostri succhi».

Sebbene nella sezione delle FAQ del sito web di Barilla non si faccia menzione del luogo in cui la pasta viene prodotta, il portavoce dell’azienda ha indicato un’altra pagina del sito che spiega perché la pasta non sia tutta made in Italy.

© 2022, The Washington Post
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(traduzione di Sara Reggiani)