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  • Venerdì 21 ottobre 2022

Ripensare l’articolo

"L'articolo di giornale", cioè: da anni ci si domanda se i cambiamenti di tutto rendano possibili formati nuovi, ora ci prova il nuovo sito di news "Semafor", con qualche scetticismo intorno

(AP Photo/Visar Kryeziu)
(AP Photo/Visar Kryeziu)
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Il nuovo giornale online americano Semafor, molto promosso negli ultimi mesi e molto finanziato, è online da martedì. È stato fondato da due importanti giornalisti statunitensi, Ben Smith e Justin Smith: il primo è un noto esperto di media che ha lavorato per diverse testate importanti, l’ultima delle quali il New York Times, ottenendo spesso grossi scoop nel settore; il secondo è una figura più manageriale ed è stato a capo di Bloomberg. Nelle molte presentazioni del progetto, i due Smith (che non sono parenti) e il resto della squadra che hanno messo insieme hanno parlato con una certa insistenza soprattutto di una grande ambizione per Semafor: quella di reinventare il formato dell’articolo, che in mezzo alle tantissime trasformazioni dell’informazione negli ultimi decenni continua a rimanere pressoché immutato come il formato prevalente usato dai giornali: una successione omogenea e conclusa di parole.

Di riformare l’articolo – che Semafor definisce «l’unità atomica delle notizie scritte» – si parla da tempo, e specialmente in tempi di crisi dei modelli giornalistici e allontanamento generale delle persone dalle notizie, come sono stati gli ultimi decenni. Nessuno però ci è mai davvero riuscito, nonostante diversi tentativi: esiste tuttora qualche esperimento interessante (spesso si parla di quelli del sito Axios, che condensa gli argomenti in liste di punti di grande sintesi), ma la maggior parte di quelli che ci hanno provato ha accantonato i tentativi, tornando presto alla più tradizionale e familiare struttura del vecchio articolo.

L’articolo per come lo conosciamo oggi negli anni è cambiato pochissimo, persino nel passaggio dal giornalismo cartaceo a quello online: anche in quella trasformazione epocale ha mantenuto la sua struttura molto semplice, con un titolo e un sottotitolo, una colonna di testo (più di una nel giornale di carta), il nome dell’autore in testa o in coda (quando c’è), a volte qualche foto. Negli anni sono stati proposti longform, cioè formati lunghi (e a volte multimediali) ma più per recuperarli dal passato che come un’innovazione, o altri più brevi (come i Bits del Post); tra i contenuti multimediali si sono aggiunti video e grafici interattivi alle più consuete foto, ma l’articolo di testo come strumento di racconto dell’attualità, in sostanza, è rimasto quello.
Un altro caso interessante di ricerca di trasformazione accantonata è quello del passaggio dei giornali di carta alla consultazione digitale (non ai siti web, comunque composti da articoli di testo): che anche su smartphone e tablet mantengono impaginazioni e sfoglio pensati per la carta, col dito a girare le pagine, e idee di navigazione diversa non hanno mai attecchito.

Nel presentare il nuovo formato proposto da Semafor, che con un gioco di parole è stato chiamato “semaform”, la giornalista Gina Chua ha scritto che «l’articolo è un formato venerabile, sviluppato per più di un secolo di giornali stampati, ma sta cominciando a mostrare i suoi anni».

Il problema che vedono Chua e gli altri di Semafor non è tanto nella leggibilità del formato, né il loro è un tentativo di rendere più attraente l’articolo da un punto di vista estetico (o comunque non solo): quello di cui si lamentano ha più a che fare con il modo in cui la forma di quello che leggiamo influenza la conoscenza che il lettore ne trae. Presentare l’articolo in modo diverso potrebbe secondo loro rendere più comprensibili le notizie che contiene. Le novità introdotte da Semafor aspirano poi in generale a migliorare la riconoscibilità di diverse forme del lavoro giornalistico, aumentando la trasparenza con i lettori e invogliandoli a fidarsi di più dei giornali.

Nella pratica, il semaform spacchetta i contenuti dell’articolo, dividendoli in: 1. le “notizie” (cioè i fatti per quanto possibile oggettivi), 2. il punto di vista o analisi del giornalista, 3. uno spazio per i pareri contrari, 4. un’altra prospettiva sull’argomento e 5. altre cose notevoli che si possono aggiungere. Non tutti gli articoli di Semafor presentano queste cinque sezioni: l’importante è che ogni singola parte di un articolo venga collocata al suo posto, per dare maggiore chiarezza al lettore.

Chua fa anche l’esempio di come un qualsiasi articolo potrebbe essere spezzato in un semaform, partendo da una frase inventata ma dalla costruzione assai plausibile, come: «In una mossa che probabilmente gli costerà l’elezione, John Smith è stato sorpreso a rubare le caramelle a un bambino». In un semaform tutto questo non potrebbe andare insieme: «John Smith è stato sorpreso a rubare le caramelle a un bambino» andrebbe nella parte delle “notizie”, mentre nel “punto di vista del giornalista” andrebbe qualcosa come «si tratta di una mossa che probabilmente gli costerà le elezioni».

Anche l’homepage di Semafor cerca di distinguersi dalle altre, e sembra un po’ quella di un quotidiano. Alcune cose notevoli: a sinistra le notizie brevi, nell’intestazione i fusi orari dal mondo, sulla destra le newsletter molto in evidenza e il commento ironico alla foto di copertina con Trump

Ben Smith e gli altri giornalisti di Semafor sostengono che il motivo principale per cui le persone leggono sempre meno i giornali è che si fidano sempre meno di quello che c’è scritto. Secondo loro, non ci sarebbe abbastanza trasparenza nello spiegare che anche gli articoli di notizie, quelli che non contengono opinioni, tutto sommato sono sempre influenzati dal punto di vista di chi scrive: perciò è inutile nasconderlo e anzi, bisogna renderlo esplicito. Semafor punta proprio a sottolineare l’importanza di chi scrive l’articolo, e anche per questo sotto al titolo, invece del solito sommario, c’è una breve bio dell’autore.
Chua ha scritto che solitamente gli articoli «sono raccontati da un’unica prospettiva. Questo rende difficile per i lettori fidarsi – o persino capire – il quadro generale».

Non tutti sono convinti da questo nuovo approccio, che comunque avrà bisogno di tempo e assestamenti: sul sito Gawker per esempio è uscito un articolo d’opinione che commenta Semafor e ne prende in giro il formato scimmiottandolo, dal titolo «Semafor reinventa le notizie rendendole più confuse da leggere». E scetticismi e curiosità si sono sommati tra gli osservatori delle cose del giornalismo: un dubbio diffuso è che anche in questo caso, come con i formati dei giornali di carta, l’abitudine culturale all’articolo tradizionale possa essere troppo radicata per rendere familiare un formato differente. È un circolo vizioso, ma possono proprio essere i lettori a desiderare che non venga cambiato ciò che fa così parte del loro rapporto con i giornali.

Anche se agli articoli, sia online che su carta, nel tempo sono stati aggiunti vari dettagli: tra i più recenti si sono visti l’indicazione del tempo di lettura inserita da vari giornali – ognuno a modo suo – o una presentazione dei contenuti dell’articolo per punti. Quasi nessuno di questi però ha mai cambiato la centralità del corpo del testo.

L’unico vero formato alternativo che si è imposto nel giornalismo online è quello del “liveblog”, cioè un tipo di articolo che segue avvenimenti particolarmente rilevanti e per cui vale la pena dare aggiornamenti in diretta, minuto per minuto, con gli ultimi aggiornamenti in cima e i meno recenti in fondo. È innovativo per molte ragioni, a partire dal tono solitamente più diretto e confidenziale e dal fatto che le prime informazioni in ordine cronologico sono in fondo, in modo controintuitivo per un articolo su carta ma assolutamente plausibile sul web (un esempio per chi non è pratico è il liveblog curato dal Post in occasione della caduta del governo Draghi), omogeneo a quello che è diventato il formato di lettura prevalente in molti spazi online e social network, la timeline.

Tra gli altri tentativi di cambiare l’articolo finora sopravvissuti quello di Axios, nato nel 2017, è il più notevole. Si propose fin da subito l’obiettivo di quella che fu definita smart brevity, una “brevità intelligente”: gli articoli sono sempre molto corti, appunto, e presentati per punti. In cima c’è la notizia in un paio di righe, poi un capitoletto chiamato “Perché è importante”, sviluppato come un elenco, poi altri capitoletti a seconda del tema: per esempio “Guida alla notizia”, “Come funziona”, “Approfondisci” (quest’ultimo può essere anche un semplice link).

Qualcosa di simile lo fanno anche alcune newsletter (quelle di Quartz, per esempio, o di Morning Brew), ma parliamo già di uno strumento diverso da quello dell’articolo di giornale e più portato alla sperimentazione. A molti altri invece è semplicemente andata male. Qualche mese fa la newsletter Ellissi, del giornalista esperto di media Valerio Bassan, aveva messo insieme un po’ di esempi.

Alcune delle maggiori testate internazionali, come New York Times Washington Post, sperimentano volentieri nuovi formati per raccontare singoli avvenimenti che si prestano a un tipo di racconto diverso dal solito: un buon esempio è questo lungo reportage del New York Times da Bergamo durante le prime settimane della pandemia. Si tratta però di iniziative estemporanee e rare, che non hanno cambiato il modo di fare gli articoli né avevano l’ambizione di farlo.

Questo anche perché i formati più impegnativi, ricchi di contenuti multimediali e con grafiche innovative, richiedono spesso molto tempo e non sono applicabili in tutti i casi: uno dei principali punti di forza dell’articolo è che si adatta bene alle esigenze di rapidità dei giornalisti in presenza di notizie che devono essere diffuse in breve tempo, ma si presta anche all’approfondimento. Si inizia a scrivere e si finisce di scrivere, un’unica cosa. Il formato del semaform richiede che l’autore si dedichi a contenitori diversi riempiendoli in modi diversi.

Tra il 2017 e il 2018 la BBC, la principale emittente radiotelevisiva britannica, mise in piedi un gruppo di ricerca e sviluppo affidandogli il compito di “reinventare l’articolo”. Arrivarono a conclusioni interessanti, prendendo in considerazione un campione composto soprattutto da giovani tra i 18 e i 26 anni (quindi tendenzialmente i più propensi a eventuali rinnovamenti di formato): interessanti ma non così innovative, perché venne fuori che c’era «una generale preferenza per le notizie di testo». «È più facile e più veloce per la maggior parte delle persone», disse la BBC.

A quattro anni di distanza, gli articoli della BBC online sono molto chiari, fatti da frasi brevi e divisi in molti paragrafi, ma sono comunque testi piuttosto canonici, la cui massima distinzione – ma vecchia quasi quanto gli articoli – è avere di tanto in tanto dei “titoletti” a introduzione di vari approfondimenti: “come funziona”, “perché è importante” e altre cose del genere.

Anche ProPublica, organizzazione americana specializzata in giornalismo d’inchiesta, l’anno scorso presentò con enfasi un nuovo design dei suoi articoli, più leggibile e coinvolgente: ma in fin dei conti agli occhi del lettore resta sempre un normale articolo, pur con alcune scelte diverse dal punto di vista estetico.

Uno dei fallimenti più clamorosi fu quello della startup editoriale Circa News, che si proponeva di scomporre le notizie in piccole frasi essenziali in modo da renderle leggibili in pochissimo tempo (era pensata soprattutto per i lettori dal telefono e spesso di fretta). L’app, su cui l’azienda puntava molto, fu scaricata solo da 100mila persone (il giornale non ha mai condiviso dati su quanti effettivamente la usassero). Fu fondata nel 2012 e fallì una prima volta nel 2015, poi venne riaperta l’anno successivo e fallì di nuovo nel 2019.

Altri formati fantasiosi che non hanno del tutto attecchito sono le cosiddette “context card”, cioè box di testo che possono essere aperte dal lettore per avere maggiore contesto su una storia, senza dover necessariamente cliccare su un link e quindi uscire dall’articolo. Lo hanno fatto negli anni diversi giornali a livello internazionale, come l’olandese De Correspondent, su cui ancora oggi sopravvivono: sono delle piccole freccine in mezzo al testo su cui si può cliccare per avere più informazioni sulla parola o la frase a cui si riferiscono.

Un esempio delle “card” di De Correspondent

In Italia hanno box simili il sito di inchieste IrpiMedia e la sezione Dossier di MilanoToday, che li usano come spazi per inserire informazioni non essenziali, ma magari utili a chi non conosce bene il contesto.

Il sito di news americano Vox nacque nel 2014 puntando molto sulle “notizie spiegate” e divenne presto noto per il suo approccio, che prevedeva negli articoli molte contestualizzazioni e inquadramenti rispetto alla storia principale. Dal punto di vista grafico e della struttura dell’articolo, una delle novità maggiori e che meglio rappresentavano la filosofia del sito erano le sue “card”, che però furono abbandonate nel 2016.

Il cofondatore e caporedattore di Vox, Ezra Klein (oggi al New York Times), all’epoca disse che nell’idea iniziale le “card” avevano l’ambizione di diventare il singolo prodotto in grado di cambiare il giornalismo e di risolverne molti problemi. Non furono del tutto abbandonate, e ancora oggi sono presenti in altri formati giornalistici di successo sperimentati da Vox, ma non nell’articolo, che ai responsabili del sito sembrò meglio lasciare nella sua forma più “pura”.