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  • Mercoledì 19 ottobre 2022

Il tempo di reazione dell’atletica ha fatto il suo tempo?

C'è una regola secondo cui non può essere inferiore ai 100 millesimi di secondo: forse è sbagliata, ma cambiarla non è semplice

(Patrick Smith/Getty Images)
(Patrick Smith/Getty Images)
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Nell’atletica leggera c’è una regola secondo cui, alla partenza delle gare, gli atleti e le atlete non possono avere tempi di reazione inferiori ai 100 millesimi di secondo. Questo perché la World Athletics — l’organo di governo dell’atletica — ritiene che ogni reazione in un tempo inferiore sia da considerarsi impossibile e segno del fatto che l’atleta abbia quindi anticipato la partenza, cosa che comporta la squalifica dalla gara.

Regole simili esistono anche altrove – per esempio nel nuoto, nel pattinaggio di velocità o nello sci alpino – ma sono rilevanti soprattutto nell’atletica leggera, in particolare in prove come i 100 e 200 metri piani o i 100 e 110 metri ostacoli, nelle quali basta la minima differenza, anche solo in partenza, per determinare un risultato.

Di cambiare la regola sul tempo di reazione nell’atletica leggera si parla da anni, ma se ne è parlato molto più del solito negli ultimi mesi, dopo i Mondiali di atletica leggera di quest’estate a Eugene, negli Stati Uniti. Forse anche a causa di sistemi di rilevazione troppo sensibili, a Eugene ci sono stati infatti tempi di reazione parecchio inferiori rispetto al passato e in genere di poco superiori ai 100 millesimi di secondo.

Ci sono state peraltro diverse squalifiche, compresa quella dell’ostacolista statunitense Devon Allen, noto per aver alternato la carriera di ostacolista a quella di ricevitore nel football americano. Allen era stato squalificato dalla finale dei 110 metri ostacoli per aver avuto un tempo di reazione pari a 99 millisecondi, uno in meno del consentito.

Con regole di questo tipo si possono verificare casi al limite, come quello di Allen o come quelli di calciatori finiti in fuorigioco per un’unghia. Quello di Allen è servito anche a riparlare, in questi mesi, di una ormai vecchia regola da molti considerata sbagliata, obsoleta e senza evidenti basi scientifiche.

Ci sono tuttavia due problemi rilevanti. Il primo è che la World Athletics continua a dirsi convinta che vada bene così, che i 100 millesimi (un decimo di secondo) sono un giusto e semplice limite. Il secondo è che, se possono esserci tempi di reazione inferiori ai 100 millesimi di secondo, è altrettanto vero che nessuno riesce a dire quale può essere il minor tempo di reazione con cui un essere umano ai blocchi di partenza può reagire a uno sparo e iniziare a correre. Capirlo, o quantomeno decidere di cambiare la regola, potrebbe aprire la strada a prestazioni migliori, non solo in partenza, e quindi a nuovi record.

Piedi e polpacci di Michael Johnson nel 2000 (Andy Lyons /Allsport)

Di tempi di reazione nell’atletica si parla da decenni. Sia per aspetti tecnici legati a come e quando dare i segnali di preparazione e partenza, sia per come nel tempo certi atleti si siano distinti per la velocità delle loro reazioni. Armin Hary, velocista della Germania Ovest che nel 1960 vinse i 100 metri alle Olimpiadi di Roma e primo uomo a correre i 100 metri in 10 secondi netti, era noto per i bassi, e per qualcuno sospetti, tempi di reazione delle sue cosiddette blitz-start, le partenze-lampo.

Grazie al loro essere una cifra tonda, i 100 millesimi di secondo si affermarono negli anni come la soglia di riferimento dei tempi di reazione, e dopo Hary iniziarono a essere rilevati in base alla pressione esercitata sui blocchi di partenza. La regola dei cento millesimi di secondo fu però davvero codificata soltanto nel 1989. Ed è solamente dal 2009 che nella maggior parte delle gare basta una sola falsa partenza per essere squalificati: prima erano due in tutto e prima ancora due per ogni atleta.

Ad oggi non esistono chiare basi scientifiche a supporto dell’attendibilità dei 100 millesimi di secondo come soglia dei tempi di reazione. Il fatto è che, sebbene in molti ci abbiano provato, riesce difficile calcolare il tempo minimo in cui un suono può essere prodotto e da lì viaggiare alle orecchie di un atleta così da essere recepito, elaborato e trasformato in un movimento. Chi ci ha provato, inoltre, lo ha fatto quasi sempre con atleti che non erano i migliori al mondo, e che probabilmente avevano riflessi nella norma e non eccezionali come possono essere quelli di certi campioni.

Come ha detto a Vox il ricercatore e biomeccanico Matthieu Milloz, che da tempo si occupa della questione, anzitutto è difficile capire come studiare per bene i tempi di reazione. Anche a prescindere dalla disponibilità dei migliori velocisti al mondo a farsi mettere sensori e riprodurre partenze in serie, bastano infatti piccolissime modifiche o imprecisioni a sensori o misurazioni per far cambiare i risultati. E dato che si parla di millesimi di secondo, anche un piccolo cambiamento diventa determinante.

Per di più, come dimostra il caso di Eugene, non è chiaro e nemmeno costante il modo in cui nelle gare vengono rilevati i tempi di partenza attraverso i sensori sui blocchi. Senza contare che suoni diversi, anticipati in modi diversi, prodotti a diverse intensità o da distanze variabili e riprodotti con volume più o meno alto, influiscono a loro volta (motivo per cui da tempo, dietro ogni blocco, c’è un altoparlante uguale per tutti).

(Patrick Smith/Getty Images)

Dallo sparo alla pressione dei muscoli sui blocchi succedono insomma un’infinità di cose fuori e dentro gli atleti, e studiarle tutte con precisione è complicatissimo. Tra gli studi che ci hanno provato si è tuttavia arrivati anche a tempi di reazione vicini agli 80 millesimi di secondo.

A dire che tempi di reazione sotto i cento millesimi di secondo sono possibili e quindi legittimi fu addirittura una ricerca del 2009 commissionata dalla World Athletics e che fu ritenuta «non sufficientemente solida».

Per quanto possa sembrare marginale, la questione sui tempi di reazione è, come ha scritto Vox, «centrale per uno sport come l’atletica che punta a rivelare i limiti delle capacità umane spingendo al costante miglioramento». La World Athletics tornerà a occuparsene nei prossimi mesi dopo che un suo consigliere, il finlandese Antti Pihlakoski, ha presentato domanda affinché la regola venga riconsiderata e ridiscussa.

Il problema resta però che, pur volendola cambiare, non si saprebbe bene come. Un abbassamento eccessivo aprirebbe la strada agli azzardi di chi volesse provare a barare, mentre un abbassamento di pochi millesimi di secondo cambierebbe poco.

Resta inoltre il fatto che, per come stanno le cose ora, c’è il rischio che gli atleti siano almeno un po’ frenati da questa regola. Perché la possibilità, esistente seppur remota, di avere tempi di reazione così buoni da essere considerati impossibili può avere effetti su come qualcuno si approccia alla partenza e quindi alla gara. E tutto questo dopo che la possibile squalifica alla prima falsa partenza ha già contribuito a rallentare le partenze di molti atleti.

Si potrebbe addirittura cogliere l’occasione per provare a ripensare il modo in cui si considerano le partenze. Anziché misurare la pressione sui blocchi di partenza – che erano in uso già dalle Olimpiadi di Londra del 1948 e che col tempo sono diventati sempre più tecnologici e sensibili – Milloz ipotizza di guardare il movimento delle mani, che in certe occasioni arrivano a muoversi 50 millesimi di secondo prima dei piedi.

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