Le serie “true crime” hanno dei doveri nei confronti delle famiglie delle vittime?

Netflix sta ricevendo delle critiche per aver raccontato un serial killer senza informare i parenti degli uomini che uccise

Una scena di "Dahmer - Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer", una serie true crime di Netflix (Netflix)
Una scena di "Dahmer - Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer", una serie true crime di Netflix (Netflix)
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Una delle produzioni di Netflix più viste degli ultimi giorni è Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, una miniserie che, come suggerisce il ridondante titolo, parla del serial killer americano Jeffrey Dahmer, che tra il 1978 e il 1991 uccise 17 tra uomini e ragazzi, commettendo poi atti di necrofilia e cannibalismo.

Nonostante il successo di pubblico, analogo a quello di tante altre serie e film del genere “true crime”, che cioè raccontano vere storie di cronaca nera, Dahmer ha ricevuto alcune critiche di carattere etico, che riaprono il dibattito sul senso di raccontare terribili vicende di violenza per intrattenere le persone. In particolare, da queste critiche è emersa la domanda se il true crime debba in qualche modo compensare le famiglie delle vittime dei crimini che racconta.

Le opere di true crime, che siano seriali o meno, da ascoltare come podcast o da guardare su uno schermo, si possono dividere tra documentari e ricostruzioni narrative. Nei primi è più comune che i parenti delle vittime siano coinvolti, per partecipare con la propria testimonianza dei fatti al racconto. Capita però che siano interpellati anche nella realizzazione dei film e delle serie, per aiutare gli sceneggiatori a capire meglio com’erano realmente le persone che devono trasformare in personaggi. Così ha fatto ad esempio Ava DuVernay per la miniserie When They See Us dedicata ai “Central Park Five”, cinque ragazzi che furono ingiustamente condannati per uno stupro.

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Con Dahmer invece non è stato fatto e alcuni parenti delle vittime dell’assassino protagonista della serie se ne sono lamentati pubblicamente, criticando Netflix e gli autori. Ad esempio Eric Perry, cugino di una persona uccisa da Dahmer, Errol Lindsey, ha scritto su Twitter che la serie sta «traumatizzando di nuovo la famiglia, ancora e ancora, e per cosa?». Ha anche specificato che la sua famiglia non era stata informata del fatto che sarebbe uscita una nuova serie sugli omicidi di Dahmer, e contestato la versione delle persone che ci hanno lavorato, secondo cui lo avrebbero fatto «nel rispetto delle vittime».

Secondo Rita Isbell, la sorella di Lindsey, una parte dei profitti derivanti dalla serie avrebbe dovuto essere donata ai figli e ai nipoti delle vittime. Isbell compare tra i personaggi di Dahmer, interpretata dall’attrice DaShawn Barnes: in una delle scene della serie è stato ricreato con grande precisione il suo sfogo durante il processo all’assassino. «È triste che si stiano arricchendo sfruttando questa tragedia», ha detto a Insider.

Dahmer è stata creata da Ryan Murphy, noto come ideatore di American Horror Story, American Crime Story e Pose, tra le altre. Non è il primo prodotto audiovisivo realizzato per raccontare la storia dei crimini di Jeffrey Dahmer: esistevano già cinque film e numerose puntate di programmi televisivi dedicati alla vicenda.

Secondo Aja Romano, critica culturale di Vox che ha scritto un articolo sulle riflessioni etiche suscitate dalla serie, Dahmer è il serial killer americano la cui storia è stata raccontata più volte insieme a Ted Bundy, e come nel caso di Bundy i resoconti si concentrano molto su di lui e sul suo carattere, «con un enfasi sui dettagli scabrosi e spesso sorvolando sul mucchio di problemi sistemici e fattori socioculturali che permisero che i delitti andassero avanti per tanto tempo».

Romano fa riferimento al fatto che le vittime di Dahmer erano prevalentemente uomini omosessuali e afroamericani, o comunque appartenenti a minoranze etniche. Si pensa che la polizia di Milwaukee, la città di Dahmer, trascurò a lungo la scomparsa delle sue vittime per le discriminazioni riservate a queste categorie di persone, e capì solo dopo la morte di molte di loro che c’era un serial killer in circolazione.

La serie di Ryan Murphy in alcuni momenti mostra questo contesto, dice Romano, ma è comunque incentrata sull’omicida, come indica la scelta di citare due volte il suo nome nel titolo: la psicologia di Dahmer, la sua storia familiare e le sue abitudini sono al centro del racconto. «È possibile guardare un prodotto true crime senza trasformare nuovamente in vittime delle persone reali, almeno in una qualche misura?», si domanda Romano, secondo cui si potrebbe trovare un nuovo modo di raccontare questo genere di storie partendo dal punto di vista delle vittime, senza spettacolarizzare gli assassini. Potrebbe insomma esserci un modo più rispettoso di raccontare certe storie: nel caso di Dahmer, dice ad esempio, si sarebbe potuto scegliere di incentrare la trama sulle famiglie Lindsey e Isbell, sul loro contesto sociale, e sulle conseguenze dell’omicidio di Errol.

Questo genere di critica si inserisce in una diffusa tendenza recente a pretendere che un po’ tutte le serie e i film abbiano in qualche modo una funzione sociale, che sia di denuncia o di empowerment. È una prospettiva però anche molto criticata, perché secondo molti limita fortemente le possibilità dell’arte e finisce per rendere sterili e prevedibili film, serie e libri, che dovrebbero avere altre priorità e obiettivi: intrattenere, sorprendere, turbare, divertire, stimolare, commuovere e via dicendo, ma non necessariamente educare.

È normale e auspicabile, in altre parole, che gli autori si concentrino su quello che ritengono possa piacere di più agli spettatori. Ma la proliferazione di prodotti riconducibili al genere del true crime negli ultimi anni, spesso dozzinali, ha comunque reso inevitabile il dibattito sul fatto se debbano seguire un qualche tipo di standard etico, visto che riguardano storie di vera sofferenza di persone che, in molti casi, sono ancora vive e patiscono ancora le conseguenze degli episodi raccontati.

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