Perché le liste elettorali hanno creato tanti problemi

Ci sono stati molti malcontenti dentro ai partiti, per via di meno posti in Parlamento, cali nei sondaggi e risultati prevedibili

Un tavolo nell'ufficio del Palazzo di Giustizia di Milano dove andavano consegnate le liste per la Lombardia. (Stefano Porta/LaPresse)
Un tavolo nell'ufficio del Palazzo di Giustizia di Milano dove andavano consegnate le liste per la Lombardia. (Stefano Porta/LaPresse)
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Le ultime liste elettorali, cioè gli elenchi delle candidate e dei candidati alle prossime elezioni, sono state presentate lunedì negli uffici preposti e sono quindi chiuse, al termine di giorni di movimentate trattative che hanno creato un gran malcontento in alcune forze politiche. Una serie di fattori, primi fra tutti la riduzione del numero dei parlamentari e il calo nei sondaggi di alcuni partiti, hanno infatti reso particolarmente sofferte per le dirigenze dei partiti la compilazione delle liste, tra esclusioni illustri e complicati incastri geografici.

Il risultato è che per esempio in Forza Italia ci sono state forti discussioni tra alcune sezioni locali, in particolare quelle di Basilicata e Veneto, e la cerchia di dirigenti che si è occupata della compilazione delle liste. Il Partito Democratico aveva avuto problemi analoghi la scorsa settimana, mentre altre forze politiche, come il cosiddetto “terzo polo” di centro, hanno avuto qualche problema a individuare una potenziale classe dirigente in pochi giorni.

Il problema principale nella compilazione delle liste è che nel prossimo Parlamento ci saranno meno posti. Il referendum sul taglio del numero di parlamentari approvato nel 2020 ha infatti ridotto i seggi di un terzo, e quindi anche a parità di voti i partiti eleggeranno meno persone: questo è stato il primo motivo per cui le dirigenze hanno dovuto escludere una parte dei parlamentari uscenti dal prossimo giro.

Il secondo problema è che rispetto alle elezioni del 2018 la popolarità di molti partiti è calata nei sondaggi, e ci si aspetta perciò che eleggano meno parlamentari anche proporzionalmente nel nuovo Parlamento. È il caso del Movimento 5 Stelle, che potrebbe perdere più di due terzi dei consensi rispetto al 2018, di Forza Italia, che potrebbe dimezzarli, e della Lega, che è data a qualche punto percentuale in meno. Tra i grandi partiti dovrebbe aumentare i voti solo il Partito Democratico e soprattutto Fratelli d’Italia, che secondo le stime potrebbe triplicare i suoi attuali parlamentari, nonostante il numero minore di posti in Parlamento: e quindi non ha avuto vere difficoltà a compilare le liste, e anzi ha avuto il problema opposto, quello di allargare l’attuale classe dirigente.

C’era poi un terzo problema: per come funziona il Rosatellum, la legge elettorale con cui si voterà il 25 settembre, gli esperti e i partiti ritengono di poter prevedere in maniera piuttosto accurata non solo quale sarà il risultato finale, ma anche quanti parlamentari saranno eletti dalle varie forze e in quali collegi territoriali. È il motivo per cui, come hanno notato vari commentatori e come è stato piuttosto evidente dal dibattito politico, molti discorsi che riguardano le prossime elezioni sono fatti dando per scontato come andrà a finire.

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Due terzi dei deputati e dei senatori del prossimo Parlamento saranno eletti con un sistema proporzionale: significa che quei circa 400 seggi saranno distribuiti ai partiti sulla base della percentuale presa a livello nazionale (per la Camera) e regionale (per il Senato), pescando dalle liste elettorali di ciascuna coalizione dai capilista in giù. Questo sistema si applica ai collegi plurinominali, cioè quelli in cui si eleggono più persone, e nei quali sono candidati di fatto tutti i principali leader politici, che quasi sempre sono presenti in più listini sia per garantirsi l’elezione, sia per dare più visibilità alla propria forza.

È il caso di Matteo Salvini (candidato in Lombardia, Basilicata, Calabria, Puglia), Enrico Letta (Lombardia, Veneto), Giuseppe Conte (Lombardia, Puglia, Campania, Sicilia), Matteo Renzi (Toscana, Campania, Lombardia), mentre altri sono candidati sia in alcuni collegi plurinominali sia in un collegio uninominale: Carlo Calenda (all’uninominale a Roma centro), Emma Bonino (nello stesso), Giorgia Meloni (L’Aquila), Silvio Berlusconi (Monza), Luigi Di Maio (Napoli). Nessun leader importante è comunque candidato soltanto all’uninominale: cioè non si gioca l’elezione in una sfida secca a chi prende più voti, bensì ha quello che in gergo si chiama “paracadute”, un posto garantito dalla presenza in un listino.

La collocazione dei leader e in generale delle candidate e dei candidati è stata decisa con grandi calcoli e tormenti da ristretti gruppi dirigenziali ai vertici dei partiti che, di fatto, in questa fase detengono un potere enorme. Perché decidono chi sarà sicuramente nel prossimo Parlamento, chi forse ci sarà, e chi non ci sarà sicuramente. Sulla base di sondaggi e modelli che si basano sui precedenti elettorali, infatti, è possibile fare stime piuttosto precise sia di quanti parlamentari eleggeranno le varie coalizioni con il sistema proporzionale, sia di quali collegi uninominali siano sicuri (“blindati”), quelli in cui si è favoriti, quelli in cui ce la si gioca e quelli in cui si perderà sicuramente.

Uno dei modelli più consultati per queste previsioni è stato realizzato dall’Istituto Cattaneo, un’autorevole fondazione bolognese che si occupa di ricerche in campo politico. E basandosi sugli ultimi sondaggi di YouTrend dice che ci sono soltanto 20 collegi uninominali alla Camera e 11 al Senato in cui il distacco previsto tra centrosinistra e destra è entro i cinque punti percentuali, e sono quindi “contendibili”.

Per i candidati e le candidate, insomma, è già chiarissimo se si è stati collocati dal proprio partito in un collegio uninominale favorevole o sfavorevole, e nella maggior parte dei casi se si ha qualche possibilità di essere eletti o meno. Per chi è nelle liste dei collegi plurinominali è un po’ più difficile, ma comunque si possono fare previsioni di una certa accuratezza sulla base della propria posizione in lista e del numero di liste in cui si è presenti.

È il motivo per cui diversi politici hanno rifiutato una candidatura in un collegio in cui ritenevano di avere poche possibilità di vittoria, per evitare di dover fare un mese di campagna elettorale – con tutte le spese e il tempo necessari – che consideravano inutile. «Care elettrici e cari elettori, il venticinque settembre non troverete il mio nome nelle liste elettorali di Forza Italia; ho declinato, infatti, la proposta di una candidatura al Senato che sarebbe stata di pura testimonianza» ha scritto su Facebook Renata Polverini, ex presidente del Lazio. La scorsa settimana era stata Monica Cirinnà del Partito Democratico a protestare per la candidatura in un collegio periferico di Roma, che poi aveva però accettato.

Altre polemiche hanno riguardato invece le candidature di persone in collegi lontani da quelli in cui sono residenti e in cui hanno fatto storicamente attività politica. Si è parlato molto dei guai dentro Forza Italia per la candidatura in Basilicata della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, veneta, e dei romani Claudio Lotito e Lorenzo Cesa in Molise, sempre per la coalizione di destra. Ma anche il centrosinistra ha candidato, per esempio, il ministro della Cultura Dario Franceschini, ferrarese, come capolista nel listino plurinominale a Napoli.

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