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  • Giovedì 18 agosto 2022

I fiumi e i canali delle città sono pieni di bici

Soprattutto Amsterdam e Parigi, ma anche Milano, Roma e Torino: c'entrano il vandalismo e la diffusione dei servizi di bike sharing

Una bici del servizio di sharing “Vélib” nel Canal Saint-Martin a Parigi (AP Photo/Michel Euler)
Una bici del servizio di sharing “Vélib” nel Canal Saint-Martin a Parigi (AP Photo/Michel Euler)
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Fiumi, canali e altri tipi di corsi d’acqua delle città sono spesso pieni di ogni genere di rifiuti: quelli minori – come cartacce o bottigliette di plastica – ci finiscono con il vento e un po’ per caso, altri ci vengono buttati appositamente come si buttano nella pattumiera. Altri ancora è difficile capire come siano finiti lì: nelle operazioni di pulizia dei fiumi si trovano anche lavatrici, materassi, gabinetti e altri oggetti di grandezza inaspettata. Una cosa che sembra essere molto presente nelle acque dei corsi d’acqua delle città sono le biciclette.

Lo sono da tempo, ma negli ultimi dieci anni la situazione è peggiorata, da quando la disponibilità di bici nelle medie e grandi città è aumentata, soprattutto per via dell’introduzione e del successo dei servizi di bike sharing in tutto il mondo. In un lungo articolo il Guardian ha provato a ricostruire le ragioni per cui le bici – così tante bici – finiscano nei corsi d’acqua cittadini, partendo dalla situazione di alcune grandi città europee e mondiali.

I motivi principali di questo fenomeno hanno a che fare con il costante aumento del numero di bici nelle città e il vandalismo, ma secondo il Guardian c’entra anche il modo in cui vediamo le biciclette e il loro ruolo nella vita delle persone: «La bicicletta è un bene durevole, ma è anche un bene usa e getta: è facile sbarazzarsene, se non ci si preoccupa di essere un po’ antisociali» e antiecologici.

Poiché costano poco e sono facilmente sostituibili, non ci si preoccupa troppo della loro fine quando non servono più. Le città sono piene di bici abbandonate ancora legate ai pali, e nei cortili dei palazzi ci sono sempre bici che nessuno sa più di chi siano, lasciate lì durante un trasloco perché troppo scomode da portare con sé, perché non si sapeva dove buttarle o a chi regalarle. A volte semplicemente ci si scorda che siano rimaste lì.

Ad Amsterdam ci sono circa 2 milioni di biciclette e decine di chilometri di canali che attraversano la città: storicamente, dice il Guardian, gettare la bici nel canale è una delle opzioni più considerate da chi vuole liberarsene. Tanto che da ormai quasi un secolo ad Amsterdam (ma anche in diverse altre città dei Paesi Bassi) esiste la pratica del fietsen vissen, che tradotto dall’olandese significa “pesca di biciclette”: un tempo lo facevano spazzini freelance a bordo di barche a remi, oggi se ne occupano operai comunali con barche dotate di gru a cui sono agganciate pinze idrauliche che sollevano le bici.

La pesca di biciclette si rese necessaria per non ostacolare la navigazione delle imbarcazioni nei canali, visto che nei punti più bassi le bici impilate arrivavano a grattare il fondo delle barche. Ogni anno ne vengono recuperate tra le 12 e le 15mila, che vengono portate in discarica e il cui materiale viene poi riciclato dopo la rottamazione.

Lo scrittore Pete Jordan nel libro In the City of Bikes – che racconta la storia di Amsterdam e delle sue bici – collega il fenomeno ad alcune abitudini che si sono consolidate in certi periodi storici: negli anni Trenta quello di gettare le bici nel canale del Principe (Prinsengracht) era uno dei dispetti che i gruppi di estrema sinistra facevano a quelli di estrema destra, per esempio. Durante l’occupazione tedesca nella Seconda guerra mondiale invece i leader della resistenza esortavano gli abitanti a gettare le proprie bici nei canali in segno di ribellione e per evitare che i nazisti le confiscassero.

In tutte le città che non hanno la storia di Amsterdam, il fattore che ha decisamente aumentato i casi di biciclette nei fiumi è stato l’introduzione dei servizi di bike sharing, e in particolare di quelli in modalità “a flusso libero” – quello che viene anche chiamato free floating –, che dà la possibilità di prendere una bici a noleggio per strada e lasciarla (quasi) in qualsiasi luogo quando si finisce di usarla.

È un meccanismo che ha portato migliaia di nuove bici in giro per le città e aumentato ulteriormente la percezione della loro sostituibilità. In Cina, dove ci sono circa 70 startup di bike sharing a flusso libero, dal 2016 sono stati introdotti milioni di bici, in alcuni casi superando la domanda. Fin da subito società cinesi come Ofo e Mobike, tra le più grandi al mondo a offrire questi servizi, si sono ritrovate a doverne recuperare migliaia dai fiumi.

Nei dintorni di grandi città come Pechino, Shanghai e Xiamen sono sorti luoghi che sono stati rinominati “cimiteri di biciclette”, dove migliaia tra quelle sequestrate, recuperate dai fiumi e danneggiate compongono enormi pile di bici che nessuno usa, e che apparentemente non servono.

– Leggi anche: C’è un problema col bike sharing, in Cina

Un cimitero di biciclette a Nanchino (TPG via ZUMA Press)

Anche a Parigi si è notata una certa differenza da quando è stato introdotto il bike sharing Vélib, nel 2007, con 14.500 bici a noleggio. All’epoca non era ancora stato introdotto lo sharing a flusso libero, esisteva solo quello a “postazione fissa” (cioè che imponeva di parcheggiare la bici solo in certe stazioni adibite apposta). Quando per la prima volta da quella novità venne svuotato per le abituali pulizie il Canal Saint-Martin, nel 2014, si trovarono moltissime bici di Vélib: alcune intatte, altre danneggiate, senza le ruote o il manubrio.

Anche nella Senna le bici sono l’oggetto più ritrovato: Raphaël, un bambino di 11 anni che ha acquisito una certa popolarità ripulendo le acque del principale fiume parigino con un grosso magnete, dice di averne raccolte 300 da quando ha iniziato.

Ma problemi simili si sono avuti un po’ in tutto il mondo: nei fiumi e canali delle città britanniche come Londra e Manchester, così come in Svezia a Malmö, in Australia a Melbourne o a Tokyo, in Giappone.

Una bici in un canale ghiacciato ad Amsterdam (AP Photo/Peter Dejong)

In Italia, come in tutti questi altri paesi, la ragione principale sembra essere sempre il vandalismo, a cui il bike sharing a flusso libero ha dato una nuova valvola di sfogo: ci sono decine di articoli su biciclette nel Po a Torino, nei Navigli a Milano, nel Tevere a Roma. Nel 2018 un servizio di bike sharing aveva chiuso a Roma e in altre città italiane dopo meno di un anno di attività, citando tra i motivi i molti atti di vandalismo subiti dalla flotta di bici.

A Milano succede in particolare nella parte dei Navigli vicina a locali molto frequentati durante il fine settimana. Simone Lunghi, che lavora come insegnante in una società di canottaggio sul Naviglio Grande, ha iniziato da qualche anno a raccogliere rifiuti dal corso d’acqua con l’aiuto dei suoi allievi: soprattutto biciclette. Racconta di averne tirate fuori tra le 850 e le 900, dal 2015. La maggior parte viene ritrovata il sabato e la domenica mattina.

Le bici sono quasi tutte dei servizi di sharing: «Di bici private ne avremo tirate su 5, massimo 7, in tutti questi anni». Ci sono anche monopattini, ma molti meno: ne hanno recuperati circa una sessantina in tutto. Ormai è in contatto con i referenti della maggior parte delle società di bike sharing, che di solito passano a recuperare le bici tirate fuori da Lunghi appena possono.

Anche il Consorzio Est Ticino Villoresi, che raduna gli agricoltori che utilizzano l’acqua dei canali della zona e si occupa della manutenzione dei Navigli, conferma che la maggior parte dei rifiuti ritrovati è costituita da biciclette. Secondo Lunghi molte delle persone che gettano le bici dei servizi di sharing nel Naviglio lo fanno perché lo percepiscono come meno grave: «Quella bici è di tutti, e quindi non è di nessuno».