Cosa fare con la legge sulla tortura

Fu introdotta nel 2017 scontentando i suoi stessi promotori, e da tempo Fratelli d'Italia la vuole smantellare

di Chiara Ciucci

Una manifestazione organizzata nel 2015 da Amnesty International per chiedere l'introduzione del reato di tortura (Roberto Monaldo/LaPresse)
Una manifestazione organizzata nel 2015 da Amnesty International per chiedere l'introduzione del reato di tortura (Roberto Monaldo/LaPresse)
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Il terzo punto del programma del partito Fratelli d’Italia per le elezioni politiche del 2018 – quello delle prossime non è ancora stato pubblicato – era dedicato alla «priorità a sicurezza e legalità». Tra le altre cose si citava la «revisione della cosiddetta legge sulla tortura». Il riferimento è alla norma sul reato di tortura eventualmente commesso da parte di agenti di polizia e altri pubblici ufficiali che è entrata in vigore nel luglio 2017 durante il governo Gentiloni, dopo un faticoso percorso legislativo durato quattro anni.

Già nel luglio 2018, appena un anno dopo l’entrata in vigore della legge, Meloni presentò due proposte di modifica: rivedere il reato di tortura e aumentare invece le pene per i reati di minaccia o resistenza a pubblico ufficiale, i punti che si ritrovano nel programma per le elezioni. Con l’introduzione del reato di tortura, aveva detto Meloni depositando le proposte, «gli agenti sono stati mortificati» e non possono svolgere il loro lavoro perché è sufficiente un «insulto per rischiare pene fino a 12 anni».

Bisogna «rivedere la legge», aveva aggiunto, trasformando la tortura da reato a «circostanza aggravante»: per Fratelli d’Italia infatti, la legge sulla tortura approvata nel 2017 è «sproporzionata», ovvero tutela eccessivamente chi si trova in stato di fermo o di arresto a discapito dei pubblici ufficiali.

Il reato di tortura, secondo la legge, prevede più esattamente la reclusione da quattro a dieci anni per chiunque, «con violenze o minacce gravi» e «agendo con crudeltà», provochi «acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza» attraverso «più condotte», che costituiscono «un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona».

Qualora a cagionare «acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico» sia un pubblico ufficiale, la pena di reclusione va dai cinque ai dodici anni, per l’aggravante della «condotta con abuso dei poteri» o per «violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio». È previsto dalla stessa legge anche il reato di istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura, ed è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

Prima del luglio 2017 nel Codice penale italiano non erano indicate particolari tutele rispetto alle violenze per coloro che si trovassero in stato di fermo o arresto. I reati di danni fisici o psichici, procurate minacce, lesioni – regolamentati dagli articoli 581, 582 e 612 e puniti con una reclusione per un massimo di tre anni – non presentavano una disciplina specifica nel caso in cui a commettere gli stessi reati fossero forze di polizia e pubblici ufficiali. Soltanto nell’articolo 608 del Codice penale si faceva riferimento a «misure di rigore non consentite» per un pubblico ufficiale e punite con una pena fino a trenta mesi di reclusione, senza però che venissero identificati, come avviene per il reato di tortura, l’abuso di potere e la particolare condizione in cui si trova la vittima, affidata alla custodia dei pubblici ufficiali stessi.

Due anni prima, nell’aprile 2015, la Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo, aveva insistito con l’Italia perché si dotasse di «strumenti giuridici in grado di punire adeguatamente i responsabili di atti di tortura o altri maltrattamenti», dopo averla condannata in riferimento al «comportamento tenuto dalle forze dell’ordine durante l’irruzione alla scuola Diaz», avvenuta nei giorni del G8 di Genova del luglio 2001, con terribili e comprovate violenze contro persone inermi e innocenti.

La condotta delle forze dell’ordine, dichiararono i giudici, violò l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per il quale «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti»: si trattò, appunto, di «tortura».

Se Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia votarono contro il disegno di legge sul reato di tortura, è vero anche che il M5S si astenne e che fu espressa insoddisfazione per il testo della norma – per ragioni diverse – anche dagli stessi promotori. Luigi Manconi del Partito Democratico, primo firmatario del disegno di legge nel 2013, disse che le modifiche avvenute negli anni rappresentavano uno «stravolgimento» del testo, che inizialmente «ricalcava lo spirito profondo che aveva animato le convenzioni e i trattati internazionali sul tema».

Uno “stravolgimento” perché nel testo finale della legge la tortura viene configurata come «reato comune» e non come «reato proprio», come invece indicato dalle disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984 a cui Manconi fa riferimento: mentre il reato comune può essere commesso da “chiunque”, il reato proprio identifica infatti una particolare qualifica o posizione di chi lo commette.

A stravolgere “lo spirito” della legge, per Manconi, era anche il passaggio in cui il reato di tortura viene legato a «più condotte», che indica la possibilità di identificare il reato solo a fronte di atti ripetuti, escludendo di poter definire “tortura” atti singoli di abuso. Manconi aveva chiesto inoltre l’introduzione di un codice identificativo da attribuire alle divise dei pubblici ufficiali, da cui la magistratura potesse ricavare nomi e cognomi nel caso in cui si verifichino episodi violenti.

Ad opporsi all’approvazione del testo di legge nel luglio 2017, tra gli altri, anche Ilaria Cucchi e Enrico Zucca, pubblico ministero nel processo per le violenze alla scuola Diaz durante il G8, che firmarono un appello definendo il testo di legge «confuso, inapplicabile e controproducente». E fu insoddisfatta anche l’associazione che tutela i diritti nel sistema penale, Antigone: «non è la nostra legge e non è una legge conforme al testo Onu»; per Amnesty International Italia: «La definizione della fattispecie è confusa e restrittiva, scritta con la preoccupazione di escludere anziché di includere in sé tutte le forme della tortura contemporanea. Permette tuttavia di compiere un passo avanti, anche se incompleto, verso l’attuazione dell’obbligo di punire la tortura imposto dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984».