La costruzione di una fiducia

«Più semplicemente e con meno retorica, questa è una storia che mostra che si può fare. Si può costruire un grande paese, ma solo provando ad esserlo. Con integrità, con molto lavoro, senza arroganza mai, con uno sforzo di trasparenza in ogni passaggio, con un costante minuzioso e faticoso dialogo con tutti, e con una determinazione che non deve mai venire meno»

L'interno dei laboratori della Fondazione Human Technopole all'area ex Expo, Milano, 25 febbraio 2022. ANSA/MATTEO CORNER
L'interno dei laboratori della Fondazione Human Technopole all'area ex Expo, Milano, 25 febbraio 2022. ANSA/MATTEO CORNER
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Quattro anni fa arrivai nella sede di Human Technopole a Milano prendendo la metro fino a Rho-Fiera e facendo a piedi il chilometro abbondante per raggiungere l’unico ufficio funzionante di Palazzo Italia, che aveva ospitato la direzione di Expo Milano 2015. Non c’era un altro modo. Se sbagliavi corridoio finivi in ciò che restava della mostra sull’Italia o rischiavi di inciampare in qualche vetro rotto. Gli altri padiglioni dell’Expo, costruiti con strutture temporanee, erano tutti ancora in piedi ma non c’erano più le folle del tempo, solo un caldo tremendo e una landa deserta silenziosa. Mentre camminavo sotto il sole, indossando una stupida giacca e cravatta d’ordinanza, mi sembrava di essere finito in un fumetto distopico della mia adolescenza.

Poi, non c’era davvero ragione della formalità nel vestire perché in quell’ufficio, a un quarto d’ora di macchina dal primo bar o essere umano, c’era solo una persona a lavorare con me e un pugno di ragazzi e ragazze appena formati dall’Istituto Italiano di Tecnologia. Mi chiusi nell’ufficio, feci un paio di telefonate, e poi per dieci lunghi minuti mi chiesi “Ma chi te l’ha fatto fare? Ti ha dato di volta il cervello? Costruire un centro di ricerca internazionale partendo da zero, senza spazi, persone, senza niente, in Italia, in quattro anni?”. Poi i dieci minuti passarono, nel frattempo ero rimasto in maniche di camicia, che bisognava rapidamente arrotolare. Pensai che servisse lavorare con calma, ma con determinazione, e che un passo alla volta tutto si poteva fare: senza l’alibi della burocrazia, senza alibi dei critici e delle critiche, senza alibi alcuno, ma provando a rispettare alla lettera quello che mi ero impegnato a fare e che avevo contribuito a pensare e sviluppare da ormai un paio d’anni.

A gennaio le cose andarono un po’ meglio, perché si insediò il direttore, un famoso scienziato scozzese. Facemmo una passeggiata tra le strade ancora deserte, un romano e uno scozzese a Milano, ma almeno non faceva più caldo e immaginavamo cosa sarebbe potuto diventare, quanto fosse bello, sensato, persino ovvio e naturale, il progetto a cui entrambi avevamo scelto di dedicare un po’ di anni. C’è una cosa che hanno le idee giuste, per quanto nuove o improbabili: quando le racconti ti sembrano semplici, naturali, che hai quasi pudore a spiegarle perché ti sembra di spiegare l’ovvio.

Col direttore arrivarono altre due persone, e poi siamo andati avanti un annuncio pubblico internazionale di assunzione alla volta, un muro alla volta, un microscopio alla volta, per tacere del Covid e di tre cambi di governo (che per una istituzione nazionale appena creata, credetemi, non è un ostacolo da poco). Vado in fast-forward perché questa è una storia breve, non un libro.

Oggi ho l’orgoglio di aprire la porta di quell’ufficio al nuovo presidente, Gianmario Verona: come tutti i centri di ricerca internazionali, i vertici hanno un mandato definito. Che il rettore della Bocconi abbia accettato per la fase successiva del suo impegno professionale di presiedere HT mi sembra una ulteriore ragione di orgoglio: non poteva esser fatta una scelta migliore. HT è ancora giovane, ha quattro anni ma l’attività scientifica è cominciata da neanche due: è una istituzione appena entrata nell’età adulta, che deve ancora esprimere tutte le potenzialità che ha dimostrato di avere. Oggi per andare via potrò prendere una navetta che mi porta alla metropolitana, o una bici o un monopattino.

Volendo, potrò fermarmi un attimo al bar al piano terra a bermi un prosecco. Dovreste vederlo il bar, sembra un angolo di una navicella spaziale, incuneato com’è nella architettura avveniristica ma accogliente di Palazzo Italia. Invece dell’ascensore posso prendere le scale per salutare i colleghi negli altri piani, l’amministrazione, l’ufficio legale e i tecnici della costruzione del campus. Tuttavia, la navetta per riportarmi a casa non potrà andare dritta, dovrà girare attorno ai nuovi palazzi dei laboratori, aperti a maggio nel 2021, costruiti attorno a Palazzo Italia, dove lavorano scienziate e scienziati arrivati da 27 paesi diversi e che hanno un talento incredibile. Vengono qui sicuramente perché a Milano si sta bene, ma soprattutto perché possono usare strumenti tecnologici che è difficile trovare, persino nelle università più famose. Ora: è importante non idealizzare mai gli scienziati e le scienziate, sono proprio come noi, noi normali. Solo che sono rari e per farli venire o restare in Italia bisogna fare le cose per bene e dare loro modo di fare le cose che sanno fare.

Se non fosse per le due strade principali, ortogonali, che caratterizzano l’area che ora si chiama Mind, a tornare indietro la navetta rischierebbe di perdersi, perché i padiglioni dell’Expo non ci sono più. C’è un enorme ospedale modernissimo che aprirà alla fine dell’anno, ci sono grandi aziende tecnologiche e start-up, associazioni del volontariato e terzo settore, e lavori e lavori in corso per appartamenti, luoghi di incontro e di lavoro, anche una grande spianata dove l’Università Statale deve costruire le sue facoltà scientifiche. Negli anni precedenti e durante il mio mandato ad HT ho seguito ogni passo di questi sviluppi, ma io ho la fortuna anche di ricordare il fango per terra: eravamo andati a visitare il sito un mese prima dell’inaugurazione dell’Expo, quando si diceva che neanche si sarebbe dovuta tenere, che sarebbe stata un’altra promessa mancata, un fallimento italiano triste ma non sorprendente.

Invece le promesse si sono mantenute tutte, quelle dell’Expo e quelle del dopo. Onestamente, nonostante l’ottimismo della volontà di quel giorno d’estate del 2018, che potessimo riuscirci fino a questo punto non lo pensavo. C’è una cosa importante: niente di significativo si costruisce da soli, nessuna istituzione importante si cresce da sola. Se questo fosse un discorso e non una storia da raccontare ora verrebbe la parte noiosa dei ringraziamenti alle persone e alle istituzioni, alle altre “ancore” di Mind (chiamiamo così le quattro istituzioni cardine del quartiere). Ma il lavoro collettivo è una cosa seria e penso di sapere che, quando una storia si conclude e la si può raccontare, chi è stato parte del lavoro collettivo ha un senso di gratitudine reciproco perché sa quanto di quel che ha fatto è dipeso dagli altri.

C’è un’altra cosa importante. Noi viviamo stretti tra due maledizioni. Da un lato quella della gratificazione immediata, del poco e subito, dei mille like sotto il post. Un rush di dopamina e via alla prossima dose: ma niente di importante si costruisce così, niente. L’altra maledizione è quella dell’incapacità di decidere, delle infinite riflessioni e discussioni, per cui il nostro Paese sembra sempre al giorno della marmotta impegnato da vent’anni in dibattiti letteralmente identici, senza che succeda mai niente.

Invece, ci vuole certo molta pazienza e lavoro piuttosto ordinario e diligente, grigio persino; ma ci vuole anche il senso del tempo e dell’urgenza. Perché il tempo è l’unica cosa di cui abbiamo con certezza scarsità assoluta, e lo spreco del tempo costa molto. Il senso dell’urgenza fa anche commettere errori, di sicuro, ma ne fa evitare altri: perdere opportunità, perdere strade da percorrere, abbandonare la possibilità di tramutare idee preziose in realtà.

Mi è capitato di dire che HT, con tutto Mind, è la dimostrazione che non c’è alcun sortilegio contro l’Italia, che si possono fare le cose più ambiziose e difficili o che sembrano improbabili – come uno scienziato americano che emigra per venire a lavorare in Italia. Più semplicemente e con meno retorica, questa è una storia che mostra che si può fare. Si può costruire un grande paese, ma solo provando ad esserlo. Con integrità, con molto lavoro, senza arroganza mai, con uno sforzo di trasparenza in ogni passaggio, con un costante minuzioso e faticoso dialogo con tutti, e con una determinazione che non deve mai venire meno.

Siccome ora Mind è un luogo aperto mi piace allora sperare che, quando verrete a visitare questo posto, per lavoro o per svago, sia capace di dare fiducia. Fiducia nelle cose che si possono fare insieme, anche in questi anni così difficili, con obiettivi che superino le nostre giuste e legittime ragioni ombelicali, che tra le altre cose sono così noiose. Di certo, Human Technopole ha dato fiducia a me.

Marco Simoni
Marco Simoni

Marco Simoni è un economista politico con esperienza nel governo e nel mondo accademico: dal 2018 al 2022 è stato presidente di Human Technopole, il centro di ricerca scientifica creato a Milano nello spazio che aveva ospitato l'Expo del 2015.

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