Ha ancora senso rompere la “quarta parete”?

Rivolgersi al pubblico in film e serie è uno stratagemma antico e talvolta molto efficace, ma forse sta diventando più difficile usarlo bene

(Winning Time)
(Winning Time)
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In Persuasione, recente film Netflix tratto da un omonimo romanzo di Jane Austen, ci sono diversi momenti in cui la protagonista interpretata da Dakota Johnson guarda in camera e parla direttamente agli spettatori, tra l’altro usando parole anacronistiche come “ex” o “playlist” o dicendo di un personaggio che è “un 10”. In Persuasione la protagonista rompe la “quarta parete”, abbattendo cioè quel confine immaginario che divide chi guarda e chi recita.

Il fatto che secondo molti critici lo faccia male e soprattutto senza un vero motivo rappresenta una buona occasione per chiedersi, più in generale, se la rottura della quarta parete non sia ormai troppo spesso un cliché o una pigrizia narrativa. O se, al contrario, pur essendo uno stratagemma senz’altro antico – che nel teatro esiste da secoli e che nel cinema è vecchio quasi quanto il cinema – può ancora essere innovativo, azzeccato e interessante, a patto che lo si usi in un certo modo.

Anzitutto, c’è da specificare che non tutti sono sempre d’accordo su cosa sia effettivamente la rottura della quarta parete, il cui nome deriva ovviamente dal fatto che, a teatro, il pubblico guarda gli spettatori dall’unica parete “aperta” del palco.

Per qualcuno, nel cinema e in televisione, c’è la rottura della quarta parete ogni volta che un personaggio guarda in camera, e quindi nello schermo, talvolta addirittura parlando o agendo in funzione di essi. Inoltre, c’è una rottura della quarta parete anche quando, magari senza guardare intanto nello schermo, uno o più personaggi del film si mostrano in qualche modo consapevoli del loro essere dentro a un film o una serie. A volte in modo esplicito, per esempio chiedendosi cosa la sceneggiatura riserverà per loro (e addirittura sfogliandola); altre volte in modo più sottile, per esempio alludendo più o meno implicitamente a cosa ci si aspetta da personaggi del loro genere o, ancora più in generale, prendendo coscienza del contesto di finzione in cui agiscono.

In altri casi, invece, quando si parla di rottura della quarta parete si tende a riferirsi implicitamente solo ai casi più comuni e diffusi, nei quali si parla rivolti allo schermo.

Nel cinema, uno dei più antichi casi di rottura della quarta parete – e ancora oggi uno dei più usati e citati – è in The Great Train Robbery, film di 11 minuti del 1903. Nella scena finale, estranea alla trama principale, il capo dei banditi al centro della storia spara infatti più volte verso l’obiettivo, e quindi verso il pubblico.

Non ci volle comunque molto prima che arrivassero usi ancor più creativi: in Men Who Have Made Love to Me, film muto del 1918, a rompere la quarta parete, irrompendo tra le scritte sullo schermo, è direttamente la scrittrice Mary MacLane, che nel film interpretava se stessa, a parlare al pubblico. E già nel 1920, il cortometraggio comico Una settimana, scritto e diretto da Buster Keaton, aveva una scena in cui Sybil Seely faceva il bagno e, dopo aver fatto cadere una saponetta fuori dalla vasca, ne usciva per riprenderla. Non prima però che una mano, proveniente dalla cinepresa, coprisse la parte di schermo in cui altrimenti si sarebbe visto il suo corpo nudo.

Nel secolo che è passato dalla scena di Sybil Seely a quella in cui Margot Robbie spiega le obbligazioni ipotecarie, certe cose non sono cambiate poi granché. Le quarte pareti sono state rotte spesso per fini comici – tra gli altri da Stanlio e Olio, Groucho Marx, Charlie Chaplin, i Monty Python, Mel Brooks, Woody Allen – ma anche con altri scopi: talvolta per creare sconcerto o paura (per esempio in Funny Games) e in altre occasioni per tentare di avvicinare il pubblico alle ragioni, ai ragionamenti o ai vaneggiamenti di qualche protagonista, per esempio il Jordan Belfort di The Wolf of Wall Street o il Patrick Bateman di American Psycho.

(Da Monty Python – Il senso della vita)

Per quanto possa sembrare illogico che chi fa cinema si impegni così tanto per creare un’illusione di realtà che poi viene rotta in un istante, gli esempi di quarte pareti rotte sono tantissimi: alcuni famosi e spesso citati, ma anche altri meno celebrati o efficaci. A proposito di casi famosi e citati, la quarta parete viene peraltro rotta alla fine e all’inizio di due tra i film più importanti nella storia del cinema: Psyco e Arancia Meccanica.

Oltre che nei videogiochi, in cui protagonista e giocatore spesso coincidono, e quindi la rottura è per molti versi ancora più facile, la quarta parete è stata rotta spesso anche nella serialità televisiva. A volte per far ridere, altre per decostruire il racconto e spesso per creare empatia e connessione tra protagonista e spettatori, una cosa molto utile quando agli spettatori si chiede di guardare vicende che possono durare anche decine di ore e non giusto un paio come al cinema.

Tra le serie degli ultimi anni, un esempio di rottura della quarta parete spesso citato come lodevole è quello di Fleabag, serie ideata, scritta e interpretata da Phoebe Waller-Bridge. Nelle due stagioni di Fleabag, lunghe in tutto poco più di cinque ore, la protagonista omonima guarda in camera 232 volte, e ci parla anche assai di frequente, per esempio commentando rapidamente quello che succede a una cena a cui partecipa.

Ma non è una questione di quantità. O meglio, come ha scritto su The Conversation la sceneggiatrice Clem Bastow, il fatto è che l’intensità quasi ossessiva con cui Fleabag parla col pubblico si lega alla trama e diventa, oltre che un meccanismo narrativo e un modo per «invitarci nel suo mondo», una sorta di sintomo di un possibile problema di «disassociazione». La cosa prende addirittura pieghe mistiche quando l’unico personaggio ad accorgersi del fatto che Fleabag parli con qualcuno è un prete, una cosa che – scrive Bastow – «ci inquieta come fosse addirittura una scena horror».

Altri casi seriali di quarte pareti rotte come si deve sono quelli della serie britannica House of Cards e del suo rifacimento statunitense (erano più frequenti nell’originale, ma comunque presenti e importanti nel suo rifacimento). In quel caso, più che a sentirsi più affini al macchinatore politico al centro della storia, le parole rivolte al pubblico servivano a spiegare meglio cosa volesse fare il protagonista e perché.

Se Fleabag – che tra l’altro era nata come monologo teatrale – e House of Cards sono in genere presentati come modello per come andrebbero fatte le cose, in molte altre serie la rottura della quarta parete funziona invece molto meno. Ci provò per esempio Sex and the City, abbandonando però l’idea già nella seconda stagione (e sostituendo la rottura della quarta parete con un più semplice e convenzionale discorso fuori campo) e ci ha provato, secondo molti con scarsi risultati, Persuasione.

Nello specifico, la rottura della quarta parete di Persuasione è stata criticata perché ritenuta una soluzione pigra e poco letteraria, e che sta troppo nel mezzo tra funzioni e scopi diversi, a partire dalla frequenza con cui la parete viene rotta. Come ha scritto Vanity Fair una buona rottura della quarta parete ha due regole auree: la prima è che deve esserci un chiaro motivo per cui lo si fa, la seconda è che «bisogna farlo sempre» (quindi come in Fleabag, facendo diventare la rottura una costante caratteristica della narrazione) «oppure con grande parsimonia» (in modo inatteso, per sorprendere).

Di recente, altre serie la cui rottura della quarta parete è stata criticata sono Enola Holmes (con argomentazioni simili a quelle usate contro Persuasione), Super Pumped (sulla turbolenta storia di Uber) e Winning Time, che è stata prodotta da Adam McKay (uno che la quarta parete la rompe assai di frequente) e in cui già solo nel primo quarto d’ora del primo episodio, diretto da McKay, la quarta parete è rotta più volte, da quattro personaggi diversi.

Ogni rottura della quarta parete non piace per motivi diversi. In molti casi, tuttavia, ci sono elementi comuni: la necessità di replicare o emulare un racconto orale o letterario fatto in prima persona; il voler sfruttare lo stratagemma a prescindere, senza prima averlo legato a una vera necessità di stile o di racconto; il non riuscire a far sì che i personaggi o la loro storia parlino da sé, e quindi vedersi costretti a farli spiegare in prima persona.

Spesso, un utile modo per capire quanto la rottura della quarta parete è necessaria in una storia è andare a vedere se il suo uso è costante dall’inizio alla fine o se invece è frequente nei primi minuti o episodi (quando i protagonisti devono raccontarsi, farsi conoscere e guadagnare simpatia ed empatia del pubblico) e più diradata man mano che la storia prosegue.

Per certi versi la rottura della quarta parete ha i suoi oppositori da tempo: «Quando andiamo a teatro o al cinema non vogliamo credere alla realtà, ma all’illusione; la realtà è ciò che ne facciamo noi di quell’illusione», scrisse nel 1987 il critico Vincent Canby. Per altri c’è chi sostiene che al cinema, su grande schermo, era più sorprendente e d’effetto, mentre se qualche attore o attrice ci guarda da una serie in streaming l’efficacia sia spesso decisamente minore.

C’è anche chi sostiene che, tra Zoom, YouTube, Twitch e TikTok molti di noi siano ormai così abituati a vedere qualcuno che ci fissa da uno schermo da rimanere spesso indifferenti al fatto che, sempre da quello stesso schermo, qualcuno lo faccia da un film o da una serie. Un motivo in più per cui, come ha scritto Vanity Fair «se proprio si deve rompere la quarta parete, è meglio farlo senza rischiare danni strutturali».