Il minimalismo fa assomigliare tutto?

Città e prodotti sono sempre più accomunati dallo stesso design essenziale, ma in molti casi è solo una questione di sciatteria progettuale

Simone Hutsch/Unsplash
Simone Hutsch/Unsplash
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Nelle città piccole e grandi, quando si realizzano opere e spazi pubblici, solitamente vengono installati arredi urbani privi di ornamenti: panchine dalle linee essenziali, dissuasori sui marciapiedi squadrati e senza fronzoli, lampioni dritti e anonimi.

Ci sono almeno due ragioni per la larga diffusione del design minimalista nelle città e, spesso, nella progettazione di nuovi edifici. La prima è di ordine economico e riguarda i materiali utilizzati e i processi industriali: produrre oggetti essenziali e funzionali è più pratico e talvolta più conveniente rispetto ad aggiungere ornamenti, anche se prodotti in serie. La seconda è che agli oggetti e agli arredi minimalisti si attribuisce una sorta di “modernità” senza tempo, che non invecchia col passare degli anni.

Tuttavia c’è anche chi, guardando al passato, segnala un impoverimento portato dal design minimalista, un’uniformità che insieme agli ornamenti avrebbe tolto anche personalità a oggetti, edifici, arredi urbani. Di recente ha ricevuto cospicue attenzioni su Twitter un post di una pagina chiamata The Cultural Tutor in cui si parlava proprio di questo e si incolpava il minimalismo «inconsapevole» della scomparsa di dettagli e colori, rimpiangendo il gusto per le cose più variopinte e arzigogolate progettate nel passato.

Il mondo, dice il thread, sta diventando a forma di libreria di IKEA, e il motivo per cui il design minimalista è così diffuso è che «non abbiamo più niente da dire». Il problema secondo questa tesi non starebbe tanto in chi vuole legittimamente arredare una casa o una stanza alla maniera minimalista, quanto nella «deriva della società verso un’assoluta semplificazione» provocata dalla «mancanza di dettagli» portata dal minimalismo. Un tempo invece gli oggetti si distinguevano di più: si fa l’esempio della cabina telefonica di Londra, che ha una forma riconoscibile e iconica proprio in virtù dei suoi dettagli: «il colore, le modellature intorno alla porta, l’ornamento della parte superiore».

Un dibattito simile tra gli specialisti esiste da lungo tempo, almeno da quando l’architetto austriaco Adolf Loos scrisse un libro assai citato e famoso intitolato Ornamento e delitto, nel 1908, in cui criticava gli ornamenti e le decorazioni manieristiche che ricalcavano quelle passate. Ma per contestualizzare il dibattito e inserirlo nel presente, bisogna prima definire alcuni concetti utili a comprendere meglio di cosa si parla.

Innanzitutto c’è differenza tra ornamento, decorazione e dettaglio, concetti che il tweet di The Cultural Tutor in una certa misura sovrappone. Un ornamento fa parte di una superficie e la caratterizza attraverso un pattern o con elementi di quella stessa superficie modellati, cesellati o incisi, mentre la decorazione non fa necessariamente parte di quella superficie: può essere un elemento aggiuntivo, applicato e slegato dalla struttura dell’oggetto.

Un dettaglio infine può anche non avere nulla a che fare con gli elementi ornamentali: può essere la forma particolare di un giunto di una sedia, o le rifiniture degli interni di un’auto. Oggetti minimalisti possono essere pieni di dettagli: un buon esempio in questo senso sono i prodotti Apple, che notoriamente hanno un’assenza totale di ornamenti ma sono pieni di dettagli ricercati come la curvatura degli spigoli, delle superfici, l’alternanza dei materiali oppure cose ancora più impercettibili, come il tasto touch mimetizzato tra i tasti normali nei MacBook Air.

Xavier Wendling/Unsplash

Un altro concetto da chiarire è lo stesso minimalismo. In design e in architettura il termine nacque all’incirca alla fine degli anni Novanta per definire il ritorno al rigore e alla funzionalità del Movimento Moderno, quello stile reso famoso da architetti come Le Corbusier, Walter Gropius e Ludwig Mies van der Rohe che si sviluppò tra le due guerre mondiali e portò la critica all’ornamento di Loos all’estremo, teorizzando il ricorso a forme rigide e unicamente funzionali. Questo stile fu poi messo in discussione dai cosiddetti post-modernisti negli anni Settanta e Ottanta, di cui fu un illustre esponente l’architetto statunitense Robert Venturi, che predicava la necessità di impiegare elementi decorativi e di adottare un atteggiamento più giocoso, in opposizione alle austere linee moderniste.

Il minimalismo si affermò come risposta all’eccentricità degli anni Ottanta, un periodo in cui, anche a causa della globalizzazione, un numero ristretto di progettisti lavorava a livello internazionale popolando il mondo del design di oggetti tutti molto simili tra loro. Una mostra ritenuta particolarmente rappresentativa di questa tendenza è Super Normal, organizzata nel 2006 dal designer londinese Jasper Morrison e dal giapponese Naoto Fukasawa, già designer e consulente del brand di abbigliamento e arredamento Muji.

Secondo l’architetto milanese Stefano Boeri, noto per i suoi lavori in cui utilizza come elemento ornamentale il verde delle piante integrato negli edifici, con i processi di produzione sempre più affinati e con l’affermazione del minimalismo si è generato effettivamente un rischio di uniformità. «È vero, da una parte la produzione in serie e dall’altra la laconicità prevalsa nel design soprattutto nordeuropeo sono stati la precondizione del fenomeno IKEA» dice Boeri. «Forse è proprio IKEA che rappresenta meglio questo minimalismo “povero”, soprattutto per quanto riguarda l’uso dei materiali».

La progressiva affermazione degli oggetti prodotti in serie a scapito dell’artigianato ha penalizzato la cura del dettaglio e la selezione dell’ornamento, continua Boeri, due elementi che si ritrovano ancora nell’artigianato di qualità e non più nella produzione industriale di massa. E questo non può che portare a una certa uniformità che in altri periodi storici era meno evidente, nonostante l’affermazione di stili come il gotico o il romanico che in certe epoche ha prodotto edifici con caratteristiche simili: «Gli ornamenti usati nelle cattedrali a Colonia erano diversi da quelli usati a Milano, o a Parigi, e così anche l’uso della pietra. Si somigliavano nello stile ma erano distinguibili attraverso alcuni elementi che erano sempre diversi».

Secondo Boeri, insomma, le linee essenziali che al tempo del modernismo avevano una forte connotazione hanno perso forza a causa della loro continua riproposizione e vengono ormai percepiti come meno caratterizzanti, trasmettono un’idea “finta” di modernità.

Chiara Alessi, critica esperta di design e autrice del libro Tante care cose, fa un discorso un po’ diverso sull’uniformità che avrebbe provocato il minimalismo e su come valutarla. Secondo Alessi, anche gli stili del passato hanno prodotto edifici, oggetti e mobili che in certi periodi si somigliavano, specie quelli molto decorati: «Io faccio molta fatica per esempio a distinguere un mobile inglese del 1850 da uno del 1880. I “mobili della nonna”, quelli che si ereditavano una volta, non erano poi così diversi l’uno dall’altro».

– Ascolta: Il podcast di Chiara Alessi per il Post, Certe Cose

Alessi non ritiene quindi che il minimalismo sia responsabile del fatto che tutte le cose si assomigliano tra loro, anzi, e anche lei ne fa un discorso di qualità, non soltanto di materiali ma anche di progettazione. «Non è che il minimalismo significa assenza di stile, quando è ben fatto» dice Alessi. «Oggetti sciatti, o non curati, o poveri, vengono fatti passare per minimalisti quando sono solo sciatti, o non curati, o poveri, e quindi al minimalismo si imputa la loro uniformità, ma non è che i mobili in stile o l’architettura in stile avessero maggiore identità di un oggetto minimale. Peraltro erano tutti uguali anche quelli, solo che decorati».

Al contrario, il minimalismo, secondo Alessi, permette una personalizzazione che i “mobili della nonna” non permettevano. La libreria Billy di IKEA, per esempio, viene venduta in milioni di pezzi tutti uguali, ma proprio in virtù della sua semplicità può essere messa dappertutto e personalizzata: «È un oggetto “democratico” non soltanto per il prezzo, ma anche perché si può mettere ovunque e finisce per essere una specie di parete neutra sulla quale interviene, allora sì, l’individualità, trasformando l’identità generica della Billy in identità del singolo, magari cambiando colore al legno, mettendoci i propri libri, soprammobili eccetera».

La “Long Room” della biblioteca del Trinity College di Dublino (Jonathan Singer/Unsplash)

Anche Giovanni Piovene, architetto e fondatore dello studio Piovenefabi insieme all’architetta Ambra Fabi, sposta l’attenzione sulla qualità, e sostiene che se esiste un’uniformità negli oggetti e nelle opere pubbliche è dovuta più che altro alla sciatteria nella progettazione piuttosto che a una natura uniformante del minimalismo. «Alla fine il buon design, consapevole, e il design fatto invece in maniera meccanica che segue una moda ci sono sempre stati. Non incolperei il minimalismo di un eccessivo impoverimento, è solo una fase come le altre, la mia impressione anzi è che stiano nascendo tendenze che vorrebbero superare le linee minimaliste in favore di una riscoperta dell’ornamento».

Piovene e Fabi hanno organizzato di recente una mostra proprio sull’ornamento come elemento architettonico, alla Triennale di Architettura a Lisbona. La tesi della mostra partiva dalla concezione modernista del rifiuto dell’ornamento e la ribaltava, sostenendo che annullare l’ornamento in architettura non è possibile e che persino i modernisti, con le loro linee dritte e squadrate, avevano semplicemente trasferito gli elementi ornamentali nelle superfici e nei materiali scelti.

Piovene fa un esempio utile a comprendere questo concetto, ossia l’installazione temporanea degli architetti Eugeni e Anna Bach intitolata Mies Missing Materiality. Nel 2017 i due architetti hanno rivestito con una copertura bianca tutte le superfici del Pavilion di Barcellona, progettato da Mies van der Rohe e dalla sua collaboratrice Lilly Reich e considerato tra gli edifici più iconici del modernismo. Ricoprendo l’edificio, Eugeni e Anna Bach lo hanno «privato della sua materialità» annullando l’effetto ornamentale e caratterizzante delle trame del travertino e del marmo alpino verde usati da Mies e Reich. In questo modo, l’edificio si è trasformato in una replica, come se fosse un’interpretazione del Pavilion e non l’originale.


In un certo senso l’installazione conferma l’esistenza di una tendenza all’imitazione e all’uniformità nel minimalismo e nelle imitazioni del Movimento Moderno, ma allo stesso tempo mette in evidenza quanto siano importanti le superfici e i materiali usati per caratterizzare un oggetto, anche quando questo è apparentemente privo di ornamenti.

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