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  • Mercoledì 8 giugno 2022

La storia dietro alla foto più famosa della guerra in Vietnam

Fu scattata 50 anni fa e l'anno dopo vinse il Pulitzer, e ritrae una bambina che poi dovette conviverci con difficoltà

 (AP Photo/Nick Ut)
(AP Photo/Nick Ut)
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L’8 giugno 1972, cinquant’anni fa, un gruppo di cacciabombardieri Douglas A-1 Skyraider dell’aviazione sudvietnamita attaccò con le bombe al napalm Trang Bang, un paesino del Vietnam del Sud non lontano dalla capitale Saigon, occupato in quel momento dalle forze nordvietnamite. La guerra in Vietnam era nelle sue fasi finali, e dopo anni di disfatte ed enormi perdite l’esercito americano che aveva occupato il paese per provare a evitare la presa del potere da parte dei Viet Cong comunisti si stava infine ritirando.

I bombardamenti a tappeto degli americani e dei vietnamiti del Sud erano comunque ancora in corso. Quel giorno però i cacciabombardieri sbagliarono obiettivo e colpirono i propri stessi soldati, insieme a un tempio religioso dove si erano rifugiati alcuni civili. Tra questi c’era Kim Phúc, una bambina di 9 anni residente a Trang Bang con la famiglia: quando il napalm la colpì il suo braccio sinistro prese fuoco e il suo vestito si distrusse in pochi secondi. Phúc reagì scappando dal tempio insieme a fratelli e cugini, gridando “Nóng quá, nóng quá!” (“Scotta, scotta!”) e correndo verso l’obiettivo di Nick Ut, fotografo di Associated Press allora ventunenne.

Lo scatto che fece in quell’istante Ut, mentre la bambina completamente nuda aveva le braccia larghe e la bocca spalancata in un urlo, entrò nella storia e diventò l’immagine più simbolica e rappresentativa della guerra in Vietnam. Fece anche vincere a Ut un premio Pulitzer l’anno successivo.

Poco dopo, la bambina perse conoscenza e Ut la portò in auto in un piccolo ospedale. Inizialmente i medici non volevano curarla, dicendo che le ferite erano troppo gravi, ma Ut mostrò il suo tesserino da giornalista americano e lasciò l’ospedale con l’assicurazione che sarebbe stato fatto il possibile. Tempo prima, Ut aveva perso un fratello – anche lui fotografo – mentre era in servizio per Associated Press nel delta del Mekong meridionale, e rimase scosso dal bombardamento. Tornò a Saigon, sviluppò la pellicola nel suo studio e la girò ai suoi superiori di Associated Press.

(AP Photo/Nick Ut)

Al tempo l’agenzia aveva una rigida politica che vietava di diffondere foto di nudi, a maggior ragione di una bambina. Tuttavia Horst Faas, capo dei fotografi di AP nel Sudest asiatico e premio Pulitzer nel 1965 e nel 1972, decise di farla pubblicare lo stesso. Nei giorni successivi comparve sulle pagine di molti dei principali quotidiani statunitensi, persino in prima pagina sul New York Times del 9 giugno, impressionando molto l’opinione pubblica.

Phúc venne dimessa dall’ospedale 13 mesi dopo l’attacco e tornò nel suo paesino, diventando una celebrità tra i suoi abitanti ma rimanendo quasi del tutto sconosciuta per il resto del mondo, eccetto qualche sporadica visita dei giornalisti e dei fotografi che l’avevano aiutata. Il trenta per cento del suo corpo aveva subito ustioni di terzo grado, che le lasciarono grandi cicatrici su tutta la schiena e sul braccio.

Quando la guerra finì e il Sud venne conquistato dai nordvietnamiti, Phúc iniziò a studiare con il progetto di diventare medica, ma quando i leader vietnamiti scoprirono che era lei la protagonista di quella foto la costrinsero ad abbandonare la scuola. Per anni lavorò come guida turistica e come “simbolo vivente” della resistenza e della sofferenza vietnamita, in tour guidati per i giornalisti stranieri sotto il controllo dei responsabili della propaganda comunista.

Nel frattempo, nel 1982, Phúc era riuscita ad andare in Germania Ovest per essere curata, grazie all’interessamento di un giornalista straniero. Anche il primo ministro vietnamita Pham Van Dong si interessò alla sua storia, la conobbe personalmente e le permise di andare a studiare a Cuba. Qui Phúc conobbe un ragazzo vietnamita con cui si sposò nel 1992. Dopo il viaggio di nozze a Mosca, decisero di abbandonare i paesi comunisti e scapparono in Canada, durante una sosta per il rifornimento del carburante dell’aereo che li riportava a Cuba.

Phúc non si è mai ripresa completamente dalle ferite provocate dal napalm, che aveva distrutto vari strati di collagene, la principale proteina che si trova nella pelle, lasciandole cicatrici spesse quasi quattro volte un normale strato di pelle. Nel 2015 subì una serie di trattamenti con il laser in una clinica di Miami documentati proprio da Nick Ut. I due sono diventati amici e si sono incontrati più volte negli anni successivi, anche questa settimana in occasione del cinquantesimo anniversario della foto.

Ut e Phúc esaminano i negativi originali della foto (AP Photo/Chuck Zoeller)

Oggi Phúc è ambasciatrice dell’UNESCO e ha fondato la Kim Foundation International, che si occupa di fornire aiuto ai bambini vittime di guerra. Lunedì è stato pubblicato un suo articolo in prima persona sul New York Times intitolato “Sono passati cinquant’anni. Non sono più la Napalm girl”, con riferimento al nome con cui ci si è sempre riferiti a lei in quanto soggetto della foto di Ut. Nell’articolo, Phúc racconta cosa è stato vivere diventando un simbolo della guerra, peraltro ritratta ed esposta a tutto il mondo così precocemente. Ricorda di aver odiato Ut per questo, a volte, ma dice anche di essergli riconoscente per averle salvato la vita.

«Le fotografie, per definizione, catturano un momento nel tempo» scrive Phúc. «Ma i sopravvissuti di queste fotografie, specie i bambini, devono in qualche modo andare avanti. Non siamo simboli. Siamo esseri umani. Dobbiamo trovare un lavoro, persone da amare, comunità in cui essere accolti, posti dove imparare e dove crescere». Phúc è riuscita a riappacificarsi con il suo passato solo da adulta, quando si trasferì in Canada e iniziò una nuova vita, e dice ora di essere grata del potere che ha assunto la fotografia negli anni. «Il mio orrore, che riesco a malapena a ricordare, è diventato universale. Sono orgogliosa di essere diventata un simbolo di pace. Ma mi ci è voluto molto tempo per accettare tutto questo, come persona».