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  • Mercoledì 1 giugno 2022

Vincere a scacchi con la magia e l’ipnosi

Si diceva lo facesse il campione lettone Michail Tal', che Giorgio Fontana racconta nel suo ultimo romanzo "Il Mago di Riga"

(Harry Pot/Anefo/Wikmedia Commons)
(Harry Pot/Anefo/Wikmedia Commons)
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Michail Tal’ fu uno dei più grandi attaccanti nella storia degli scacchi e il più giovane campione mondiale del suo tempo. Passò alla storia soprattutto per l’approccio impulsivo e poco scientifico al gioco, per il talento irrazionale, creativo e disordinato che gli valse il soprannome di “Mago di Riga”, la capitale lettone in cui era nato. Lo scrittore Giorgio Fontana ha ripreso questo nomignolo nel titolo del suo ultimo romanzo, Il Mago di Riga, appunto, uscito ad aprile per Sellerio e ispirato alla storia di Michail Tal’, detto Miša.

Fontana ha fatto una ricerca storiografica accurata, ma ha lasciato spazio anche alla fantasia. La cornice del romanzo – delle cui prime pagine pubblichiamo di seguito un estratto – racconta la sua ultima partita, un mese prima di morire, contro il campione armeno Vladimir Akopian, ma contiene flashback e digressioni su tutta la storia e sulla personalità dello scacchista, dall’infanzia al successo, tra malattie, sconfitte, sacrifici, amori e quella specie di magia che sembrava esercitare un po’ su tutti, dagli avversari ai camerieri dei ristoranti.

***

1.e4 c5 2.Cf3 Cc6 3.Ab5 d6. Miša mulinò per un istante il polso sopra la scacchiera, simulando indecisione; quindi arroccò, premette l’orologio, si strofinò due volte il collo – era madido di sudore, le palpebre scattavano, la febbre gli dava il capogiro – e fissò intensamente Akopian, chiedendosi se il suo sguardo conservasse ancora l’antico magnetismo. Sarebbe tornato utile, date le condizioni del momento.
Giorni prima, pranzando al ristorante Amaya, qualcuno aveva ricordato la celebre storiella con Pál Benkőai Candidati del ’59. Miša non aveva molta voglia di sentirla, e ancor meno desiderava narrarla; si era limitato ad ascoltare con un sorriso di circostanza, smuovendo la paella quasi intonsa nel piatto, mentre i colleghi più giovani lo sbirciavano. Dunque: da tempo si mormora che Michail Tal’ ipnotizzi gli avversari al tavolo da gioco; addirittura, secondo alcuni, facendo apparire donne nude nella loro mente per deconcentrarli. (Donne nude, Dio mio: sarebbe stato davvero un bel potere!). Così al terzo turno Benkősi presenta al tavolo con un paio di lenti nere per non subire i suoi occhi da stregone, anche se più tardi ammetterà che si trattava di uno scherzo. Ma Miša è stato avvisato da qualcuno, così estrae a sua volta degli occhialoni scuri da spiaggia, piuttosto ridicoli – li ha chiesti in prestito al suo amico Petrosjan – e li inforca come se niente fosse. Dal pubblico si solleva una risata, e anche l’avversario sorride: il solito Tal’. Al turno successivo, l’ultimo, Benkő indossa ancora le lenti scure – non si sa mai, deve aver pensato – ma commette lo stesso una svista: Miša ha pronta una combinazione schiacciante, potrebbe avviarsi alla vittoria e invece, come promesso all’allenatore Koblents, forza una patta per scacco perpetuo. («Giusto?», aveva chiesto il narratore; lui aveva annuito e completato mentalmente il ricordo con la voce esasperata di Koblents: Se non la porti a casa sana e salva il prima possibile, giuro che ti tiro pomodori marci dalla platea). Del resto una patta basta per condurlo di fronte a Botvinnik; e da lì, come tutti sanno, al titolo mondiale.
Miša chiuse gli occhi e arricciò il naso mentre Akopian, immobile dietro la schiera di pezzi neri, decideva in che modo impostare la sua Difesa siciliana.

I vecchi tempi. Il giovane Tal’, il Mago di Riga che giunto all’improvviso da una piccola repubblica occidentale aveva travolto, a vent’anni, i più grandi giocatori dell’epoca: e
con quale irriverenza. Con quale smisurato ardore. Si apriva la strada verso il re avversario sacrificando pezzo dopo pezzo, complicando ogni posizione fino allo spasimo, quasi volesse dilaniarla: e nonostante il suo stile rivelasse mancanze tecniche o peccasse di eccessiva frenesia, sconfinando talora nell’assurdo e rivolgendosi contro di lui, nessuno sembrava in grado di fermarlo. Un fenomeno incomprensibile, da cui il sospetto dell’ipnosi.
Fesserie, naturalmente, anche perché durante le partite Miša per lo più guardava i pezzi
o un punto tra la parete e il soffitto; ma altrettanto naturalmente lui si divertiva a ricamarci sopra.

Una sera era a cena con Korčnoj e qualche altro collega. Il personale di servizio ai tavoli
vagava qui e là per la sala ignorandoli, e l’irritabile, il sempre irritato Korčnoj sbuffava battendo la forchetta sul piatto.
«Senti», gli aveva sorriso Miša. «Vuoi che fissi un cameriere?».
«Eh?».
«Hai fame o non hai fame?».
«Ho fame. E quindi?».
«Be’, sai come funziona: gli fisso la schiena, e lui viene qui».
«Ma smettila».
«Non ci credi? Vediamo».
Miša aveva finto di concentrarsi, serrato le palpebre a fessura, e qualche istante dopo un cameriere si era fermato di colpo portando una mano alla testa calva, come se gli fosse sovvenuto un ricordo, per poi accorrere da loro.
Miša si era stretto nelle spalle con aria innocente. Korčnoj, tutto una smorfia. Prodigio? Caso? Che importava: erano i vecchi tempi, quando i nomi dei Grandi maestri venivano pronunciati con deferenza, o fatti collidere da tifoserie opposte: «Il migliore è ancora Keres», «Stavolta Spasskij li travolge tutti» – e ovunque si discuteva delle più recenti partite così come di aperture, difese, combinazioni o finali di torri: in circoli annegati di fumo, negli androni verde cupo e nelle camere stipate delle kommunalki, in coda lungo marciapiedi odorosi di liquame, pirožki e neve fresca, sulle panchine dei viali, nelle carrozze dei treni che solcavano il paese finendo ingoiati dalla notte. Tempi adatti affinché simili leggende – unite alla soverchiante presenza di Miša e al suo stile rivoluzionario – trovassero nutrimento. Perché era un modo di resistere all’urto del reale. Perché il mondo reale era quasi sempre assurdo.

Certo non per lui, figlio del medico Nechemia Tal’ e della raffinata Ida Grigor’evna, cresciuto in un salotto con pianoforte a muro, mobili d’ebano e teiere decorate da boccioli viola pallido; ma per il resto della nazione sì. Il solo fatto di essere ancora vivi comportava uno sforzo continuo e financo una misura di vergogna, perché esistere era sopravvivere a sciagure altrui: senza alcuna ragione o demerito uno sconosciuto subiva la pena che avrebbe potuto colpirti, magari non più letale come pochi anni prima, ma in ogni caso inevitabile.

Tutto ciò esigeva un compenso: e gli scacchi lo offrivano – così come la storia di Miša offriva la speranza che gli dèi potessero un giorno chinarsi anche su di te, umile cittadino, e pronunciare la parola di grazia invece delle usuali condanne. Nell’immensa vastità del morire, nella monotona e paludosa certezza del morire, quella era pietà. Era l’evidenza che dopotutto i miracoli esistono.

© Giorgio Fontana, 2022
© Sellerio editore, 2022
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