Nikola Jokic e Giannis Antetokounmpo (Stacy Revere/Getty Images)

La NBA sempre più straniera

Il premio MVP assegnato al serbo Nikola Jokic è l'ultima conferma dell'importanza raggiunta dai giocatori non statunitensi

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Mentre i playoff della NBA si avvicinano all’ultimo turno prima delle finali, il serbo Nikola Jokic è stato eletto miglior giocatore del miglior campionato di basket al mondo per la seconda stagione consecutiva. Jokic è il terzo giocatore europeo a vincere il premio MVP nella storia della NBA; l’ultimo, Giannis Antetokounmpo, greco di origini nigeriane, era uno dei tre finalisti anche quest’anno, insieme a Joel Embiid, camerunense di Philadelphia.

Il premio MVP assegnato a Jokic — che con Denver ha concluso la stagione al primo turno dei playoff — è l’ultima conferma di come l’impatto dei giocatori stranieri su un campionato un tempo dominato da atleti statunitensi sia sempre maggiore.

Nelle otto squadre arrivate al secondo turno dei playoff, i giocatori europei non si limitano a rinfoltire le rose come titolari o rimpiazzi di qualità, ma spesso sono fra i leader dei loro gruppi. Milwaukee campione in carica ha in Antetokounmpo il suo grande punto di forza. Dallas ha lo sloveno Luka Doncic, già soprannominato “Luka Magic”, che da poco ha presentato la sua prima linea di scarpe da basket realizzate con il brand Jordan. A Memphis uno dei giocatori con più peso in squadra è il centro neozelandese Steven Adams, mentre Miami aveva raggiunto le finali di due anni fa con lo sloveno Goran Dragic, passato a Brooklyn pochi mesi fa, e avrebbe anche Bam Adebayo, nato da genitori nigeriani ma cresciuto nel New Jersey.

L’ucraino Svi Mykhailiuk durante la partita Stati Uniti-Resto del mondo all’All-Star Game del 2020 (Jonathan Daniel/Getty Images)

Anche al di fuori delle squadre in corsa per il titolo si trovano giocatori stranieri di una certa importanza, come Danilo Gallinari per gli Atlanta Hawks, il bosniaco Jusuf Nurkic dei Portland Trail Blazers, il croato Ivica Zubac e il serbo Bogdan Bogdanovic, il ceco Tomas Satoransky a New Orleans, Lauri Markkanen, finlandese dei Cavaliers, i francesi Evan Fournier e Rudy Gobert — uno dei migliori difensori del campionato da alcune stagioni a questa parte — e il tedesco Daniel Theis, da quest’anno ai Boston Celtics (quest’ultimi ancora in corsa nei playoff).

La stagione in corso era iniziata con 109 giocatori stranieri provenienti da 39 diverse nazioni, e con i Toronto Raptors, da sempre una delle squadre più internazionali del campionato, con il numero più alto di stranieri registrati, dieci. È l’ottava stagione consecutiva in cui all’apertura del campionato erano presenti almeno cento giocatori stranieri: nel 1947 erano appena cinque — contando anche il Canada — mentre il record era stato stabilito nel 2016, con 113 registrati.

Il Canada rimane il paese più rappresentato dopo gli Stati Uniti, seguito da Australia, Francia e Germania, con sette giocatori ciascuno all’inizio della stagione, e poi Nigeria, Serbia, Spagna e Turchia, che ne hanno cinque.

Joel Embiid e Kyle Kuzma all’All-Star Game del 2019 (Getty Images)

Con l’espansione all’estero iniziata su larga scala negli anni Novanta, in concomitanza con il periodo di Michael Jordan ai Chicago Bulls, la NBA è diventata di gran lunga il campionato nordamericano più seguito nel resto del mondo. All’estero continua a crescere ed è per questo che la lega negli ultimi anni ha intensificato la sua presenza negli altri continenti, alla ricerca di pubblico e nuovi introiti, visto anche il calo di spettatori televisivi registrato negli ultimi anni negli Stati Uniti.

La lega ha da tempo degli uffici a Londra, e annualmente organizza partite di campionato in Europa, tra Londra e Parigi. Lo scorso settembre i dirigenti delle federazioni che governano il basket europeo si erano inoltre incontrati per valutare la possibilità di riunificare il basket continentale sotto un’unica organizzazione, in collaborazione proprio con la NBA.

Sulla rilevanza degli stranieri in NBA, la rivista The Atlantic ha scritto un articolo di recente, “Perché è un bene che gli americani non dominino più il basket”, in cui sostiene che il basket, l’esportazione sportiva di maggior successo degli Stati Uniti, abbia raggiunto così il proprio apice. Tra le competizioni nazionali — scrive The Atlantic — il football sarà anche lo sport più popolare e il baseball un  “leggendario” passatempo, ma il basket è in qualche modo lo sport più americano, perché l’unico ad aver convinto anche all’estero, e questo lo ha aiutato ad attrarre e sviluppare nuovi atleti, sempre più bravi.

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